Li vedi, improvvisi fantasmi,
passeggiarti davanti, occhi persi dentro un passato perduto,
a muovere passi meccanici,
verso un futuro che non li aspetta:
solo un giorno in più,
oltre quella passeggiata.
Nessuna prospettiva, solo il continuo parlare
con i se stessi di anni prima,
aspettando il singolo momento di una visita,
giusto una volta ogni tanto,
a rompere la monotonia di un ergastolo senza colpa.
Li vedi, curvi sotto le loro vite
di una volta
E ti chiedi che cosa mai abbiano fatto
per meritarsi questo,
un triste declino, non solo fisico,
ma della memoria, nonostante il peso che ognuno,
novello Sisifo,
porta, silenziosamente,
ogni giorno, in quella passeggiata,
sulle proprie, stanche spalle.

Questi versi sono nati durante la mia esperienza, purtroppo fugace, come cuoco in una residenza sanitaria assistenziale (RSA), impegnato nella quotidiana assicurazione dei pasti agli ospiti. Seppur breve, questa è stata una esperienza emotivamente forte: ecco da dove nascono quelle parole. Nei miei ricordi lavorativi era rimasto memorabile il periodo in cui avevo condotto, con un successo su tutta linea senza precedenti, la refezione per le scuole materne di un grosso centro delle Murge. Affrontato con la più totale dedizione, volta ad assicurare il meglio ai piccoli, nonostante enormi problemi anche strutturali. A parte il successo dell’operazione, durata tre anni, la soddisfazione più grande era stata lo stupendo rapporto con i piccoli, per alcuni dei quali ero diventato una specie di maestro aggiunto.

Per cui, quando mi hanno prospettato un impiego presso la cucina di una RSA, ho accettato senza problemi, fidando anche sulle mie passate gestioni in ambito sanitario, a gestire le cucine di diversi ospedali, non avrei mai immaginato cosa mi aspettava, dal punto di vista emozionale. Per fortuna, il potere rigenerante e lenitivo della scrittura mi ha aiutato a metabolizzare. Ho capito subito che era necessario lo stesso impegno e la stessa dedizione che avevo profuso con i bambini. Addirittura, con maggiore attenzione.

Strano che si tratti di due ambienti diametralmente opposti, con in comune un unico importantissimo tratto: il fatto che gli utenti siano assolutamente indifesi e bisognosi di tutele. Per certi versi, hanno meno problemi i bambini, che comunque godono di una rete di protezione, costituita da papà e mamma, in qualche caso anche i nonni, che stanno attenti e pronti all’intervento quando serve.

I poveri “vecchietti”, come li avevo soprannominati con affetto, non hanno nessuna rete di protezione, sono generalmente lasciati soli, salvo quelli che ricevono regolarmente, ma non spessissimo, le visite dei parenti. La maggior parte sono soli, abbandonati al loro destino, totalmente nelle mani degli operari della struttura, in lunga, silenziosa, attesa di una fine più o meno lontana, vista come una liberazione.

Ed è proprio l’assenza di una rete di protezione che favorisce gli episodi di violenza, che vengono evidenziati troppo poco nelle cronache dell’informazione. Violenza che non è solo quella di un singolo personaggio malato, perché bisogna davvero avere grossi problemi mentali per comportarsi da mostri con poveretti assolutamente incapaci di difendersi, persone così miti da ispirare solo tenerezza, almeno a persone normali. Spesso la violenza diventa sistema generalizzato di tutto un gruppo di lavoro, semplicemente col pretesto di lavorare meglio e meno, usando metodi più spicci e scorciatoie violente.

Si sommano diverse mancanze, a danno dei poveri ospiti. La mancanza di un reale spirito di servizio di qualche operatore, che è essenziale in questo tipo di lavoro. Senza la capacità di donarsi, di mettersi al servizio di questi esseri deboli, non è possibile svolgere il compito assistenziale in maniera esaudiente. Probabilmente questo è dovuto allo sviluppo, forse imprevisto, delle strutture, sempre più grandi e sempre in numero crescente, quindi sempre alla ricerca di nuovo personale, la cui selezione e preparazione è approssimativa. La possibilità di avere un lavoro, e mantenerlo, è più forte della reale capacità di svolgerlo.

Si aggiunge la mancanza di quella rete di protezione che hanno i bambini a scuola. Non ci sono organi dei parenti che possano vigilare in modo continuativo. Chi ha la fortuna di avere parenti più meno presenti riceve da questi appoggio solo su esigenze specifiche del singolo: chi si lamenta della qualità del cibo offerto, chi chiede di cambiare in continuazione compagno di stanza, chi si lamenta degli spazi comuni. Di solito la struttura risponde cercando di sedare le lamentele, promettendo soluzioni ai problemi rilevati. Magari sarebbe necessaria una costante attività ispettiva da parte del ministero, o delle regioni, o di qualunque ente statale dipendano queste strutture, che non possono più essere lasciate a se stesse, ad autogovernarsi.

Le RSA stanno diventando sempre più diffuse. Basta guardarsi intorno per vedere come siano disseminate sul territorio, con un presenza di poco inferiore a quella delle scuole. Di nuovo il parallelismo fra gli estremi, la gioventù e la vecchiaia. Ed è un rischio non irreale che tra qualche anno ci possa essere addirittura un sorpasso, visti i problemi di progressivo, e si spera non irrimediabile, declino demografico del nostro paese. Per questo gli anziani ospitati in questi centri devono essere tutelati al meglio. Anche responsabilizzando maggiormente i responsabili delle strutture, che spesso si comportano solo da contabili, attenti solo ai ricavi. Non è infrequente, infatti, che nei casi di violenze venuti alla luce, i responsabili abbiano asserito di non sapere nulla.

Per me è inconcepibile che si possa usare violenza su queste persone indifese, dopo averli visti vivere ognuno col suo peso sulle spalle, come se fossero stati condannati ad un ergastolo senza colpe, chiusi nella loro dignitosa disperazione. Li vedevo passeggiare con lo sguardo perso in un passato lontano e mi chiedevo cosa avessero fatto nella loro vita. I successi, le sconfitte, la famiglia, se avessero avuto gesti eroici o avessero affrontato il normale scorrere del mondo senza picchi avventurosi o dolorosi, insomma quale fosse il fardello, nel bene e nel male, che ognuno di essi si portava appresso. Per quale motivo, infine, fosse finito lì, a passeggio con la propria ombra. Questo si traduceva in una spinta a dare il meglio per soddisfare le loro attese, almeno per quello che era la mia piccola parte.

Mettevo una cura maniacale nella preparazione dei pasti, cercando, per fortuna con successo, di rendere ogni pietanza memorabile. In effetti, al termine del turno, uscivo mentre loro si ritrovavano, dopo il pasto, davanti al caffè e mi sembrava di essere una rockstar, perché uscivo fra due ali di gente che mi riempiva di complimenti e pacche sulle spalle. La mia vittoria quotidiana era sentire i loro complimenti e vedere su quelle facce, di solito tristi e cupe, un velo di felicità e serenità, uno squarcio di tranquillità nelle loro giornate piatte. Come quando, preciso come il classico orologio svizzero, si presentava alla porta della cucina Giuseppe, sempre tutto rabbuiato, a chiedermi quale fosse l’offerta del giorno. Io elencavo di buon grado le pietanze che avevo preparato, consigliandogli la scelta migliore, a mio parere, e vedevo apparire nel suo sguardo una scintilla nuova, mentre mi ringraziava.

Ecco, penso proprio che chi affronta questo tipo di lavoro debba, necessariamente, affrontarlo con il mio stesso spirito: una missione, volta a dare a queste persone deboli la migliore assistenza, dal punto di vista non solo fisico, ma soprattutto morale. Perché i disagi vari si vedono facilmente rispecchiati nel fisico, mentre quelli della mente restano nascosti e sedimentano, diventando macigni, che persone con tanta vita alle spalle non dovrebbero sostenere.