Mark Geary è un ragazzone irlandese dalla faccia buona e dai modi gentili. Ha l’aria un po’ stazzonata, lo sguardo tranquillo ma sveglio. Si capisce che gli piace conoscere le persone, e sembra che viva come una missione il farle sentire a loro agio.

Ha 53 anni, e una storia notevole alle spalle: cresciuto a Dublino con sei fratelli, nel 1992 si trasferì a New York dopo aver vinto quella che gli americani chiamano la lotteria della Green Card, un programma di distribuzione di permessi di soggiorno legato appunto a un’estrazione. Ogni anno partecipano circa undici milioni di persone, e la carta verde tocca a una su duecento. Così Geary cominciò a suonare al Sin-è, gestito da uno dei fratelli, il bar dov’erano passati tanti irlandesi affermati, lo stesso bar in cui Glen Hasard aveva lasciato il palco al ragazzo che stava al mixer, Jeff Buckley, che poi su quel palco ci si era piazzato stabilmente, almeno per un po’, come una specie di resident artist.

Mark Geary l’ho ascoltato per la prima volta qualche anno fa al Vittoriale a Gardone, proprio prima di un concerto di Glen Hansard, in una serata in cui i lampi squarciavano continuamente il cielo dietro alla scena. I loro due nomi sono legati strettissimi. Non solo perché sono due dublinesi, non solo perché Glen collabora spesso ai dischi di Mark, e non solo perché vivono nella stessa proprietà, una specie di tenuta nella campagna fuori dalla capitale irlandese.

Durante il lockdown, quando Hansard riempiva Instagram di bellissimi video, ogni tanto fuori dalla finestra che dà sul grande giardino si vedeva passare Geary, che faceva un saluto a distanza di sicurezza e restava lì intorno ad ascoltare il suo amico. Il legame però accomuna anche le sensibilità. L’ultima volta li ho visti entrambi a Zurigo, a novembre 2023: ero andato a sentire Hansard in Svizzera perché un impegno mi aveva fatto saltare l’unica data italiana del tour e, un po’ per questioni musicali e un po’ per avventura, avevo trascinato Gloria in mezzo a una bufera di neve per non mancare all’appuntamento.

Mark aveva aperto il live anche quella volta, arrivato in aereo il giorno stesso rispondendo al richiamo di aiuto di Glen, che era rimasto senza opening act. Dopo il concerto, nel corridoio dei camerini, a un certo punto il liutaio svizzero René Reusser, fornitore e amico di Glen, tirò fuori da una custodia una chitarra appena fabbricata, e la mise nelle mani di Geary, che ci suonò la sua “It beats me”.

E qui devo dire tutta la verità: la canzone l’avevo sentita cantare da lui e da Hansard varie volte, ma avevo sempre pensato che fosse un brano della tradizione irlandese, per un motivo semplice: mi sembrava troppo bella perché venisse dalla chitarra e dalla penna di un autore contemporaneo, che peraltro conoscevo superficialmente. Così, una volta scoperto che invece era frutto del sudore, dei polpastrelli e del cuore di Mark Geary, sono andato ad ascoltare i suoi dischi, che non avevo e che non conoscevo se non per qualche svolazzo veloce. In qualche modo mi si è aperto un mondo, e ho pensato subito che fosse un’ingiustizia enorme che un autore così dotato fosse poco conosciuto da queste parti.

A disposizione ci sono un paio di occasioni per decidere se ho avuto ragione a reagire in quel modo. Una è il tour che arriverà in Italia a metà maggio, l’altra è l’uscita recente del suo ultimo album, In the time of locusts, disponibile su tutte le piattaforme di streaming, che è un gioiello di songwriting.

Il titolo rimanda direttamente all’esperienza vissuta durante la pandemia, e in particolare nel lockdown: «All’inizio del 2020 - racconta Geary - avevo avuto l’idea di mettermi alla prova coinvolgendo altri musicisti nella scrittura, così avevo invitato la mia amica Ruth e ci eravamo messi nel mio cottage davanti a una tazza di tè a suonare il piano partendo da un quaderno di appunti e qualche abbozzo di melodia. Volevo capire se il confronto mi avrebbe ispirato nel fare una cosa che fino a quel momento era sempre stata estremamente intima e personale. Quattro giorni dopo è arrivato il covid e ha rivoluzionato qualsiasi piano».

Mark ricorda quei giorni con sofferenza: «Lockdown ha significato follia e terrore, la fine dei concerti, un’industria che si è fermata. A quel punto ho cominciato a camminare nella foresta qui a Kildare, con una tazza di caffè in mano. Passavo a salutare i miei vicini la mattina, a guardare crescere i fiori, ad ammirare la natura che era inconsapevole di quella calamità che ci stava investendo. Ecco, “In the time of locusts” è la mia risposta a tutto questo e la mia vaccinazione contro la paura dell’isolamento, della perdita e del dolore».

E la foresta è protagonista proprio del pezzo d’apertura, “The forest”, che si apre con un arpeggio alla Nick Drake e poi guadagna profondità con l’ingresso del pianoforte:

Vieni con me nella foresta
così soffice sotto i piedi
So che ero distrutto
So che sono abbastanza
Vieni alla luce
Entra nella luce.

E in “Spectre” Geary canta:

Non sei fatto di legno
Non galleggi bene Ma bruci
Vecchi fantasmi giacciono fianco a fianco
Li sento di notte
Mi puoi aiutare?
Ci puoi provare?
Ti vedo passare
Uno spettro nella luce
Posso andarci?
Posso provare?

I fantasmi possono essere figure del passato o protagonisti degli incubi, ma anche tutti noi durante quei mesi di solitudine forzata. L’album ha lo sguardo intimista ed empatico che corrisponde alla cifra di Geary, arrangiamenti eleganti (naturalmente non manca il contributo di Hansard che canta proprio in “Spectre”, brano che ha anche prodotto) e soprattutto la solita manciata di belle canzoni che mi riportano alla stessa sensazione di ingiustizia, che del resto proviamo così tante volte incontrando la musica che ci piace.

Chitarra e pianoforte (suonato da Ruth O’ Mahony Brady) si disputano spesso il ruolo di protagonisti nell’accompagnare la voce calda di Mark, ma la scena si riempie anche con la batteria di Dave Hingerty, le percussioni, il basso di Karl Odlum, che è anche co-produttore, le tastiere che tratteggiano sfumature e in “Last throw od the dice” ricordano una cornamusa e riportano ai suoni tradizionali della musica irlandese. In “Hollow” c’è perfino un beat di batteria elettronica. I momenti più intimi sono probabilmente la splendida “Blindfold” o “Spectre”, mentre “Oh Susanna” (no, non quella, un’altra) e “Last throw of the dice” sono i brani più ariosi.

Per chi volesse poi fare un viaggio a ritroso nella sua discografia, gli album si trovano in parte su Spotify (per esempio “Ghost” e un bel live registrato a New York) e in parte su Bandcamp (Per esempio “Songs Vienna”). Se avrete la mia stessa reazione, rimarrete stupiti soprattutto dalla qualità delle canzoni.

Mark sarà in Italia a brevissimo, nella seconda metà di maggio: se passa dalle vostre parti può essere un’occasione per conoscerlo dal vivo sia come artista che come persona. Ne vale doppiamente la pena.

Questo il calendario dei concerti, in cui sarà accompagnato da Andrea “Caterino” Riccardi, che è anche l’organizzatore: il 16 maggio al Rooftop dell’Hotel Corte Ongaro a Verona, il 17 all’ex Cinema Aurora di Livorno, il 20 al Casone Azzurro di Vallonga ad Arzegrande (Padova) insieme a James Maddock, Brian Mitchell e Alex Valle, il 22 al River Music Vintage Club di Luzzara (Reggio Emilia), il 23 all’Hotel Portici a Bologna, il 25 al Birrificio Antica Corte di Gorizia, il 27 alla spiaggia Point Break di Sottomarina a Chioggia.