Se c’è una cosa che mi affascina fin da quando ho imparato a leggere e a capire il senso profondo e logico della concatenazione delle parole è la loro etimologia. Qual è l’albero genealogico di un termine? Qual è la sua evoluzione – o involuzione – semantica? Se prendessimo un verbo semplice e quasi anonimo come “arrivare”, scopriremmo che, in realtà, racchiude una genealogia ben più interessante.

Deriva infatti dal latino volgare “arripare” – spoiler: come la maggior parte delle parole di uso comune – ed è, a sua volta, l’evoluzione e l’unione della locuzione più classica “ad ripam”, alla lettera (giungere) “a riva”. Nasce dal linguaggio parlato, dallo slang come diremmo ora, quando si aspettava che le imbarcazioni dei pescatori o dei mercanti giungessero in porto dopo una notte di pesca o dopo una traversata del Mediterraneo, vendendo o acquisendo merce.

Dal latino classico a quello volgare, fino all’italiano e alle altre lingue romanze, è curioso come il verbo arrivare abbia poi contaminato anche idiomi di origine germanica come l’inglese, venendo letteralmente tradotto in “to arrive” e perdendo così, gradualmente, il significato intrinseco del lemma. Ci sono parole però che hanno il privilegio di non poter - o non voler - essere tradotte e di conservare appieno il loro potere espressivo.

Una su tutte è la portoghese “saudade”. Sì, proprio l’inflazionata, la malinconica, la pluri-tradotta saudade. Lei che ha un’entità così forte da voler far credere di essere semplice nostalgia ma che è uno scrigno di sfumature che solo il cantautore ed ex Ministro della Cultura brasiliano, Gilberto Gil, ha saputo chirurgicamente eviscerare. Nella sua Toda Saudade canta:

«Ogni saudade è la presenza dell’assenza
Di qualcuno, un luogo o un qualcosa, infine
Come se il buio potesse illuminarsi.
Della stessa assenza di luce
Il chiarore si produce,
Il sole nella solitudine.
Ogni saudade è una capsula trasparente
Che sigilla e nel contempo offre la visione
Di ciò che non si può vedere
Che si è lasciato dietro di sé
Ma che si conserva nel proprio cuore.»

È la presenza dell’assenza: di qualcuno, di qualcosa, di un luogo. Impossibile quindi racchiuderla in una traduzione statica, obiettiva ed oggettiva. Saudade è solo la capolista, ci sono altrettanti tesori culturali, parole uniche che sfuggono alle strette convenzioni linguistiche, che vanno preservate e custodite gelosamente.

Cafunè – Portoghese Brasiliano

Ero in auto la prima volta che ho sentito parlare di cafunè, alla radio stavano parlando di gesti d’amore, intimi. Cafunè, termine che vede le sue radici nel Kimbundu – lingua africana della popolazione angolana Mbundu - lo è: è l’atto di passare le dita tra i capelli della persona amata, che sia un figlio, un genitore o il proprio partner.

Tartle – Scozzese

Chi non ha mai provato quella sensazione imbarazzante di dimenticare il nome di qualcuno appena incontrato? Gli scozzesi lo chiamano “tartle”. Rappresenta il momento di esitazione prima di presentare qualcuno, quando si teme di non ricordare il suo nome. Ciò che rende questa parola così speciale è che esiste solo per racchiudere il breve imbarazzo mentre si rovista nei vari cassettini del cervello alla ricerca della risposta.

Waldeinsamkeit – Tedesco

È la combinazione di “wald” e “einsamkeit” che significano rispettivamente bosco e solitudine. Cattura la sensazione di essere completamente solo nella natura, immersi nella quiete del bosco, con la percezione di far parte di qualcosa di più grande e misterioso. Le sue origini risalgono almeno al 1822 e sono strettamente associate al Romanticismo, un movimento letterario che idealizza le emozioni, la natura, l'individualismo e l'immaginazione.

Mamihlapinatapai – Yaghan

Proveniente dalla lingua degli Yaghan, indigeni della Terra del Fuoco, "mamihlapinatapai" rappresenta quel momento imbarazzante e silenzioso in cui due persone si guardano negli occhi, sperando che l'altro prenda l'iniziativa per far qualcosa che entrambi desiderano. Il potere di un’unica parola che racchiude la complessità delle relazioni umane.

Age-otori – Giapponese

È la sensazione di andare dal parrucchiere per cambiare look per sentirsi più carini e uscirne con un taglio che non ci valorizza e, anzi, ci fa sentire peggio. Lo ammetto, ho provato anche io l’age-otori, e pure recentemente.

Petrichor – Inglese

Deriva dal greco, dai termini “petra” e “icor”: è quel particolare odore che emana la terra inaridita dopo le prime piogge. È stato coniato dagli scienziati australiani I. J. Bear e R. G. Thomas a metà degli anni Sessanta, quando hanno condotto i primi studi su questo fenomeno, scoprendo che il petricore è generato da una combinazione di sostanze batteriche e specifici oli prodotti dalle piante, i quali impregnano il terreno durante i periodi di siccità.

Ilunga – Tshiluba/Congolese

È un modo di essere più che una sola parola, è forse la più intraducibile del mondo, ma delinea i tratti sociali della popolazione congolese. Consiste nell’essere disposti a perdonare un affronto una prima volta e a tollerarlo una seconda volta, ma non una terza.

Komorebi – Giapponese

La poesia giapponese si riflette nel termine "komorebi", che descrive la luce del sole che filtra tra le foglie degli alberi. Un'immagine visiva e una sensazione che catturano la bellezza eterea della natura.

Gluggaveður – Islandese

Semanticamente può essere tradotto come “tempo da finestra”, è quella situazione in cui, nonostante la giornata invernale bellissima e soleggiata, fa troppo freddo per uscire. È il tempo della sospensione, dell’osservare da fermi, senza frenesia.

Hanyauku – Kwangali/Namibia

Tra le dune roventi del deserto del Namib ha origine il termine Hanyauku: è la particolare sensazione di camminare sulla sabbia calda, in punta di piedi. Racchiude la connessione ancestrale ed il profondo rispetto dell’uomo nella natura.

Innumerevoli sono le parole in esilio: offrono oblò nelle ricchezze culturali e nei modi unici che una popolazione ha di percepire il mondo. E in un mondo che si fa sempre più globale, riconoscere e apprezzare queste sfumature linguistiche diventa un modo per celebrare l’unicità della diversità.