Tre affreschi di straordinaria efficacia iconica svelano e complicano ad un tempo i delicati e complessi rapporti spirituali-simbolici tra Sacro Romano Impero e Chiesa Cattolica nel suo vertice papale. Tre affreschi di una delle più antiche chiese di Roma giuntaci quasi del tutto intatta: la chiesa carolingia dei Santi Quattro Coronati sul colle Celio. Il ciclo pittorico della Cappella di San Silvestro viene realizzato a metà del Duecento ricevendo due influssi politico-culturali: quello del Papa teocratico Innocenzo IV, ostile all’imperatore Federico II, e quello più equilibrato del cardinale Rinaldo dei Conti di Segni che sarà il successivo Papa Alessandro IV, tutore del piccolo Corradino Hohenstauffen, l’ultimo sangue imperiale svevo di diretta discendenza maschile, cardinale che consacrerà questa preziosa cappella.

Sarà stata la tradizione assai antica della Chiesa né sappiamo le ragioni storiche precise ma qui avviene un “prodigio iconologico”: Impero e Papato vengono rappresentati nella loro essenza sacrale e mistica genetica quali polarità complementari che si legittimano e rafforzano reciprocamente.

Spesso così avviene: alla fine di un’epoca ecco i frutti maturi di ciò che stava già allora scomparendo: l’età d’oro della Cristianità quale epica gloriosa ed eroica. Un affresco riguarda un Cristo trionfante e apocalittico e gli altri due scene decisive per la storia europea: l’incoronazione di Costantino da parte del Papa San Silvestro e il trionfale e regale corteo del Papa con il primo Imperatore cristiano. Non a caso il ciclo di San Silvestro vede celebrare questo Papa insieme a Costantino durante il periodo carolingio che assiste alla sorprendente rinascita occidentale dell’Impero. Costantino infatti è e sarà il costante modello di renovatio imperii a cui tutti gli Imperatori germanici e poi asburgici si rifaranno per esprimere la più alta forma di legittimazione spirituale-simbolica ed etica.

Nel primo affresco vediamo una versione regale e cosmica di un Cristo glorioso che regna e giudica sul cosmo; spiritualità che ci permette di comprendere meglio i due altri affreschi. I segni apocalittici sono chiari: l’angelo di sinistra arrotola i cieli come si fa con un tessuto o un volume librario e quello di sinistra suona la tromba del Giudizio. Sul cielo in fase di arrotolamento compare un sole grigio e una luna nerissima. Si tratta quindi della citazione di due precisi passi dell’Apocalisse di Giovanni: lo sconvolgimento cosmico che accade all’apertura del sesto sigillo e durante il contestuale terremoto mondiale (Ap. 6,12-14) e la scena altrettanto solenne e sconvolgente della “tromba del Giudizio” che compare nella scena finale del “settenario delle trombe” quando appunto uno speciale angelo viene comandato da Dio a suonare la “settima tromba” (Ap. 11,15-19) che inaugura e anticipa la fase conclusiva del “Piano di Dio” decretante la distruzione del male con lo scatenarsi ultimo e potente dell’ira di Dio e l’immediata inaugurazione di una nuova “età dell’oro”.

Questi dettagli colgono uno dei punti essenziali della spiritualità imperiale costantiniana e post-costantiniana: la sua connessione con il nucleo apocalittico e neo-messianico del Cristianesimo cattolico. Questa scena vede infine un Cristo regnare da uno scranno circondato dalla Lancia e dai tre chiodi della Passione e dalla canna del Golgotha che qui regge la corona di spine. Ultimo prezioso dettaglio: il Cristo si appoggia ad una lunga asta sormontata da una croce come Costantino si appoggiava a simile asta nei suoi due colossi: quello marmoreo e quello bronzeo di cui restano frammenti nei Musei Capitolini di Roma, uno proveniente dalla Basilica di Massenzio e uno dal Palazzo imperiale del Laterano e come troviamo conferma in un suo solido aureo emesso a Costantinopoli dove compare insieme ai figli Costantino II e Costanzo II.

Un Cristo quindi costantiniano-imperiale quanto apocalittico il cui Giudizio incombe su di un mondo effimero che passa e non resiste alla sua pantocrazia cosmica. Questa asta crucifera la ritroviamo nei due affreschi citati che riguardano l’inaugurazione del primo Impero romano-cristiano come la troviamo nei secoli seguenti in numerose raffigurazioni della persona dell’Imperatore: da Ludovico il Pio (Biblioteca Vaticana, Codex Reg., lat. 124, f. 4v) fino ad Ottone I (miniatura dal Registrum Gregorii e si veda anche il “terzo sigillo imperiale”) e Ottone III (miniatura dello scriba Godeman).

La stessa numismatica di Costantino, così ricca e importante, reca spesso il segno legionario e cristiano dell’asta crucifera che regge lo stendardo con il krismon ( la Xi e la Rho delle prime due lettere della parola: “Christos”) derivanti direttamente dalla vicenda narrataci da più fonti (Eusebio di Cesarea, Lattanzio, Jacopo da Varagine) che vedono la visione corale e diurna della croce esser seguita dal cristico sogno notturno di divina spiegazione. Ancora Raffaello mostra la visione diurna come palese, non riservata al solo Imperatore mentre Piero della Francesca nel Ciclo della croce di Arezzo si concentra sul sogno divino notturno. La croce costantiniana quindi si incardina perfettamente sulle aste imperiali e legionarie e appare quale nuovo segno di gloria, vittoria e trionfo imperiale, come appare ancora nel mosaico di Santo Stefano Rotondo in Roma: tempestata di pietre preziose e circondata da una ghirlanda di lauro.

Una croce imperiale irradiante una potenza cosmica, solare. Nell’affresco “dell’incoronazione”, che potremmo anche ribattezzare: “delle due corone”, assistiamo ad una scena solenne e rituale: l’Imperatore Costantino vestito con la clamide purpurea e babbucce anch’esse porpora si inginocchia leggermente a capo scoperto davanti a Papa Silvestro mentre il Pontefice indossa un copricapo vescovile bianco e di forma bicaudata.

Ma la corona dell’Imperatore campeggia in alto sopra il Palazzo imperiale, tenuta strettamente dal medesimo Costantino e sulla verticale di una porta da cui esce un giovane che custodisce un cavallo bianco di cui l’Imperatore tiene insieme al giovane le redini. Costantino reca una tiara bianco-aurea e a forma conica che viene da lui offerta al Pontefice che la benedice.

Il segno di questa grande tiara unisce le mani dei due protagonisti, come in un segno di sacra alleanza che si perpetua spazialmente verso il cavallo tenuto dal giovane sotto la porta. Il Papa benedice tanto la tiara quanto lo stesso Imperatore. Il giovane che domina il cavallo bianco, già cristico secondo l’Apocalisse (Ap. 6,1-2; 19, 11-16) ritengo possa identificarsi proprio con Cristo stesso o almeno con una sua funzione, quella di sovranità. Nessun altro infatti potrebbe cavalcare né tenere le briglie di tale cavallo ab origine, segno dell’Auctoritas imperiale, se non colui che ne è la fonte: Cristo stesso.

Che Nostro Signore possa essere raffigurato quale fanciullo non è dettaglio anomalo ma anzi iper-tradizionale nella sua origine bizantina: basti pensare al Cristo pantocratico dell’abside di San Vitale a Ravenna e a simile Cristo fanciullo di Sant’Apollinare Nuovo sempre a Ravenna e al sepolcro paleocristiano posto sotto il pulpito di Sant’Ambrogio in Milano.

Occorre riflettere sul copricapo che Costantino dona al Papa e che il Papa indossa nella scena subito seguente del corteo papale-imperiale mentre i suoi vescovi indossano copricapi bicaudati del tutto identici a quello da lui stesso portato prima del “dono-investitura” imperiale. Si tratta di una tiara a forma di “pileo”, copricapo già dei Dioscuri e degli iniziati come Odisseo e dello stesso Hermes quale maestro di riti dei Misteri. Ne troviamo un’identica raffigurazione nell’affresco di Innocenzo III nella Chiesa del Sacro Speco di Subiaco. Che l’origine del copricapo sia imperiale trova conferma nel nostro stesso affresco: il dignitario imperiale che reca l’ombrello del Pontifex Maximus (Costantino) indossa simile berretto che si differenzia solo per il color porpora e dal cui deriverà il corno dogale veneziano.

Riassumendo: Cristo fanciullo detiene il “cavallo bianco” che affida all’Imperatore il quale investe come sovrano il Papa. Ecco la vera e autentica “donazione costantiniana”, realizzata nei fatti e nei riti, al di là di qualsiasi discorso retorico su un documento che probabilmente veniva ogni qualche secolo riscritto per detenerlo in ottima conservazione. La Storia è realizzata dai fatti e nei fatti, e il diritto è fondato sul principio di effettività, non su personali interpretazioni di singoli documenti cartacei da parte di qualche intellettuale storicamente irrilevante! Qui abbiamo la più straordinaria rappresentazione sintetica della sacralità del Papato e dell’Impero attraverso la loro reciproca legittimazione. Mentre l’Impero inclina l’ombrello imperiale verso il Papa in senso di omaggio e di traslazione di un carisma romano, quello del Pontefice Massimo di cui l’ombrello è segno, il Papa a sua volta inclina l’asta crucifera in omaggio verso Costantino nel riconoscerlo quale legittimo Imperatore anche dal punto di vista ecclesiale e cristiano. Una simmetrica e speculare duplice investitura-benedizione.

Un Papa che consacra un Imperatore romano quale Imperatore anche cristiano, quindi espressione della regalità universale di Cristo, e un Imperatore romano che trasmette parte della sua sovranità al Papa riconoscendolo duca di Roma e del Lazio, suo vicario imperiale. Non a caso dopo Costantino per tre secoli fino a Papa Zaccaria l’elezione pontificia aspettava sempre la ratifica imperiale bizantina a livello di feudo ducale e solo da Innocenzo III in poi, coevo a questi affreschi, il Papa inizierà a utilizzare un proprio stemma araldico come ogni sovrano.

Il rito conseguente descritto nel secondo affresco conferma e manifesta tutto questo: il Papa indossa pubblicamente la nuova tiara imperiale che per la prima volta lo differenzia dagli altri vescovi del suo seguito e rinnova la sua cristica benedizione verso Costantino che cammina davanti al Pontefice reggendo le briglie del bianco e cristico cavallo quale “palafreniere del Papa” ma anche nel senso imperiale di colui che tiene in sua custodia e protezione il Papato stesso come l’aquila imperiale tiene stretto tra gli artigli il pesce ecclesiale nel ciborio della Chiesa di Sant’Ambrogio di Milano e come un vessillo visconteo indica nel segno dell’imperiale leopardo che allatta l’ecclesiale agnello. Ancora con gli Ottoni sono gli Imperatori che convocano i Concili ecumenici, come Costantino convocò nel suo Palazzo di Nicea il Concilio della Chiesa. Un dignitario laico dal volto costantiniano regge l’ombrello imperiale sopra il capo del Papa nel senso di onorarlo ma significando pure una protezione simbolica sopra la Chiesa mentre un dignitario imperiale che reca un mantello di porpora innalza una spada con fodero porporino che sembra un vessillo crucifero.

Sulla stessa linea morfologica-simbolica la benedizione papale scende sull’Imperatore come sulla sua spada innalzata, segno della consacrazione cristiana della funzione imperiale della sovranità militare, bellica e giurisdizionale. Ora l’Imperatore cammina con la sua corona imperiale, che ha ricevuto direttamente da Dio tanto che il Papa non vi ha mai rapporto scenico-iconico, e se sta servendo il Papa glorificato e nobilitato sul cavallo cristico-imperiale è questo cavallo recato dall’Imperatore stesso il quale tenendo le sue redini ne decide lui il percorso. Un dignitario ecclesiale cavalca una mula, altro segno regale-messianico di origine davidica, e reca un’asta bianca crucifera quale “alter ego” parallelo e speculare della grande spada imperiale. Le due polarità si completano in un gioco continuo e armonico di rimandi incrociati e paralleli. Il rito della cavalcata su un cavallo bianco era antichissimo rito proprio del corteo papale dalla basilica costantiniana di San Pietro fino alla Cattedrale di Roma: San Giovanni in Laterano, già Palazzo imperiale di Costantino, dove il Papa diventa tale insediandosi in trono e ricevendo il palio. Ricordiamo poi Papa Leone che incontra Attila cavalcando un cavallo bianco, come ricorda ancora l’affresco di Raffaello nelle Logge Vaticane.

Il rito del Papa guidato a cavallo dall’Imperatore è attestato per il Pontefice Niccolò I e l’Imperatore Ludovico II (867), per l’incoronazione del Barbarossa, per il Papa Innocenzo III e Federico II di Svevia e per molti altri Pontefici nel loro corteo di insediamento: Martino V, Callisto III e Innocenzo VIII. Anche nell’ultimo rito di incoronazione imperiale papale con Carlo V e Clemente VII a Bologna nel 1530 il rito si ripete con fedelissima scrupolosità, costantiniana corona ferrea inclusa, e si conclude con uno sfarzoso corteo di Papa e Imperatore che avanzano sotto un unico baldacchino che Nicola Hogenberg da Monaco in una sua acquaforte conservata presso il Palazzo Ducale di Urbania mostra quale baldacchino imperiale decorato con l’aquila asburgica e quindi svolgente una funzione protettiva simile all’ombrello costantiniano che poi diverrà l’emblema della Chiesa quale Regno, sia spirituale che temporale, con Bonifacio VIII e fino quasi ai giorni nostri.

Non a caso i colori del “padiglione papale” sono colori imperiali e romani: la porpora e l’oro. Se infatti lo stemma del Papato già con Benedetto XII e Clemente VII inizia a mostrarsi con le chiavi petrine sormontate dalla tiara a triregno l’emblema della Chiesa universale, segno più vasto, resterà sempre quello con le chiavi sormontate dall’ombrello imperiale fino all’occupazione napoleonica.