Aprirsi al mondo. Scrutarlo. Mescolarsi ad esso e nel cuore di questa amalgama frugare avidamente parole. Parole immediate, parole comuni. Parole in connubio e parole in contrasto. Parole nuove. Parole vuote. Parole sbraitanti e fuori dal coro. In un silenzio visuo-spaziale, parole e immagini a fare un impasto. L’hanno chiamata “Poesia Visiva”: teste e texture. Una ricerca verbo-visuale che ha indagato la forma – come anche la sostanza –, del linguaggio usuale e delle immagini di massa, nutrendosi di un’estetica da rotocalco e pubblicità.

Nata nel clima eclettico e Neoavanguardista degli anni Sessanta, questa tendenza ha spinto la parola stessa a ridosso di ordinarie iconografie. Linguaggio verbale e linguaggio visivo si sono imbrattati l’uno dell’altro, in perfetta antitesi con le coeve ricerche linguistico-espressive. Si è trattato, dunque, di una sorta di sperimentazione Pop-testuale, ma dai prodromi ritracciabili nel Paroliberismo Marinettiano di matrice Futurista. Del resto, Tommaso Marinetti aveva dichiarato di aver generato le prime parolibere in seguito alla visione notturna di quel saettante susseguirsi di insegne luminose osservato dal finestrino della sua auto. Dunque è chiaro come una analoga fascinazione abbia agito su artisti e autori come Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Giuseppe Chiari, Emilio Isgrò, Michele Perfetti, Ugo Carrega, Adriano Spatola. Tra questi artisti, poi, vi era anche una donna. Ketty La Rocca.

Nata nel 1938 all’estremo levante ligure, nella città di La Spezia, Ketty mostrò subito una predilezione per le arti e per il verbo. A soli diciotto anni decise di trasferirsi a Firenze per studiare musica elettronica al Conservatorio Luigi Cherubini. Quello stesso Conservatorio situato all’angolo tra via Ricasoli e via degli Alfani che io stessa, negli anni Novanta, ho costeggiato innumerevoli volte per recarmi nelle aule dell’Accademia di Belle Arti. Proprio a Firenze Ketty si innamorò, si sposò e diede alla luce Michelangelo. La città che aveva cullato la rivoluzione Giottesca, il Primo Rinascimento, la Commedia di Dante e i versi di Sibilla Aleramo le permise inoltre di imbastire le sue prime parole. Ketty prese a scrivere. Dapprima furono poesie. Poi divennero Collages. E l’incontro con il Gruppo 70 , fondato da Miccini e Pignotti nel 1963, fu in tal senso determinante. Frequentando questa congrega costituita da pittori, poeti e musicisti affermanti l’interdisciplinarietà delle arti, Ketty scoprì infatti la possibilità di restituire al linguaggio comune una nuova densità e una nuova dignità.

Tra il 1964 e il 1965 realizzò collages di denuncia, contro la mercificazione dell’immagine femminile e la manipolazione maschilista delle coscienze operata dalla politica come anche dalla Chiesa Cattolica. Nacquero con questo intento opere come Top Secret ed Elettroaddomesticati. Erano gli anni della rivolta. Anni in cui a New York nascevano gruppi come il WAR (Women Artists in Revolution) e il Redstocking Artists e in cui ventidue coraggiose artiste aprirono una sorta di contenitore creativo per sole donne, la A.I.R. Gallery. In Italia, poi, Carla Lonzi firmò e pubblicò il Manifesto di Rivolta Femminile, con l’obiettivo di donare uno spazio comunicativo a legioni di donne che attendevano da tempo il diritto alla parola. Contestualizzata in tale clima, la ricerca di Ketty La Rocca si fa più leggibile ed esplicita. Nel 1966 iniziò a rappresentare le sue sperimentazioni linguistiche. Dal collage passò all’uso del proprio corpo. La sua prima performance, dal titolo Poesia e no, venne realizzata presso la Libreria Feltrinelli di Firenze. Nel 1968, invece, il Gruppo 70 si sciolse, ma lei perseverò nella sua ricerca, cibandosi degli scritti di Roland Barthes e Umberto Eco.

Allo sbocciare degli anni Settanta, poi, pervenne ad una sintesi linguistica capace di riassumere in un’unica lettera-oggetto, il senso ultimo del suo lavoro. Si trattò di veri e propri monogrammi in PVC: lettere singole fra cui ricorrevano la J che in francese sta per “Je” e la I, che in italiano sta per “Io”. Era qui che l’identità femminile gridava autoaffermazione. In questo periodo, Ketty La Rocca impegnò le proprie energie anche nella progettazione di una installazione mai realizzata, ma per la quale riempì pagine e pagine di studi e appunti: Il Punto di Vista. Aveva immaginato un ambiente scrutabile attraverso un foro praticato su un telo scuro. La scommessa era semantico-visiva: trasformare un luogo comune in una realtà visibile. L’Io, però, così solo e così isolato impazzisce. Per esistere ed insistere ha bisogno di un’alterità. Perché un punto di vista si affermi è necessario il versante opposto. È necessario l’incontro con l’altro.

Il percorso artistico e linguistico di Ketty si convertì quindi dall’Io al Tu. E si trattò di un Tu che fortifica l’esistenza dell’Io. Nel 1972 realizzò Appendice per una Supplica, uno dei primi video della storia dell’arte contemporanea. Sulla pellicola scorrevano mani. E sulla pelle nuda di queste mani la parola “you” si tatuava in mille sé. Coppie di mani afferravano un vuoto nero e desolante. E chiamavano – a pugni stretti e dita intrecciate – un Tu che pareva godere della sua stessa assenza. Per questo progetto performativo e video-fotografico, presentato poi alla XXXVI Biennale di Venezia insieme al suo libro d’artista Principio erat, Ketty La Rocca utilizzò le proprie mani. Mani chiare, dalle dita lunghe e affusolate, che sbocciavano da un fondale nero. Implorando l’altro. Come in un loop. Lo stesso “you” si riproporrà qualche anno dopo, per la precisione nel 1975, in Le mie parole. E tu? una performance realizzata prima presso la Galleria Nuovi Strumenti di Brescia e poi presso la Galleria Tartaruga di Roma.

Ketty descrisse la sua ultima azione comportamentale con queste parole: “In questa azione che chiamerei coniugazione io sono esempio a me stessa e agli altri di un totale asservimento al linguaggio (…) gli altri che partecipano all’azione coniugano sia un dramma reale che il mio dramma interiore (…) il linguaggio non determina libertà seppure illusorie, ma prolifica contagiosamente, crea vittime che coniugano la loro stessa condizione e la definiscono 'tu'”. Tu. Tu ancora. Tu che non dai requie e Tu che non da tregua. Tu. “Le mie parole. E tu?” fu l’ultima apparizione pubblica di Ketty prima che un tumore alla testa la uccidesse.

Morì di una morte ingiusta e precoce; una fine alla quale non volle rassegnarsi. Ed infatti fu a colpi d’arte che provò a sfidare il male che l’aveva colpita. Prese le radiografie del proprio cranio e le rielaborò, intervenendo su di esse con l’impressione fotografica della propria mano raccolta in un pugno. E ancora una volta - persino qui o soprattutto qui - ricamò l’immagine di “you” . Craniologie, questo fu il titolo della serie che la tenne impegnata a partire dal 1973. E mi tornano alla mente i versi di una poesia di Jacqueline Risset che si intitola Il toccare e dice:

“ma chi
potrebbe ora toccarmi
se non tu?” (Jacqueline Risset)

In quegli innumerevoli “you”, tuonava il fervore di una vita che ancora avrebbe voluto vivere. Quando Ketty morì io non ero ancora nata. Era il 7 febbraio 1976. Aveva solo 38 anni. Pressappoco la mia età di adesso. Si spense nella mia Firenze. Ed è probabilmente a causa di tutte queste comunanze – età, città, percorsi e concetti – che mi persuado, romanticamente, di sentirla vicina.