Terzo lungometraggio di Andrej Arsen'evič Tarkovskij, “Solaris” (1972) è uno dei lavori più iconici e riusciti del regista; un film che vede il cineasta porre per la prima volta, con successo, il proprio genio al servizio del genere fantascientifico. Tanto da creare la diffusa - ma errata - percezione che il prodotto finale costituisse la risposta culturale dell’Unione Sovietica al kubrickiano “2001: Odissea nello spazio” (1968).

La pellicola, ispirata all’omonimo romanzo di Stanisław Herman Lem, vede la chiara affermazione del marchio stilistico e contenutistico di Tarkovskij nei meandri di un genere ben distante da quello dei suoi primi due titoli. A partire dalla storia raccontata, snodata magistralmente tra topos ricorrenti della fantascienza - come i viaggi nello spazio e lo studio di misteriosi pianeti distanti - e un acceso interesse sui moti dell’animo umano.

Anche l’uso del colore subisce qui una svolta importante: dopo averlo intravisto nell’epilogo del precedente “Andrej Rublëv” (1966), dal terzo titolo di Tarkovskij diventa un punto fermo nella cinematografia del regista. A partire dalla pellicola successiva, il cineasta sovietico farà inoltre sempre più ricorso a una saturazione ridotta, quasi sospinta verso il bianco e nero ma, al contempo, carica di poesia e lirismo.

In “Solaris”, il protagonista Kris Kelvin (Donatas Banionis) è ben distante dall’essere un luminare nel campo astrofisico. Il primo aspetto sorprendente di questa pellicola fantascientifica risiede, infatti, proprio nella scelta di conferire il ruolo centrale a uno psicologo, inviato in orbita a seguito di diffusi malesseri e disturbi mentali accusati dall’equipaggio della stazione spaziale orbitante attorno al pianeta Solaris.

Giunto a destinazione, Kris entra presto a conoscenza del recente suicidio del dottor Gibarian (Sos Sarkisjan), fatto che ha reso gli scienziati Sartorius (Anatolij Solonicyn) e Snaut (Jüri Järvet) le uniche persone ancora impiegate nell’avamposto. Si comprende infatti come la solaristica, ovvero la branca di studi attinenti al pianeta, sia in una profonda fase regressiva e prossima al definitivo smantellamento.

A coronamento della prima metà della pellicola, sale sul metaforico proscenio una donna di nome Hari (Natal'ja Bondarčuk), che viene presto identificata come la defunta compagna di Kris; questi, al pari di chi lo ha preceduto in analoghe e scioccanti esperienze sovrannaturali, precipita presto in un comprensibile stato confusionario.

L’annichilimento delle più elementari convinzioni sulla vita e sulla morte viene presto ricondotto a particolari influssi del pianeta, che diventa il co-protagonista della narrazione. La storia descritta sfrutta le peculiarità e le libertà concesse dalla fantascienza per fornire una originale struttura di supporto alle tematiche centrali dell’opera, come la perdita della persona amata e il pentimento per gli errori del passato.

I personaggi non possono che risultare, conseguentemente, vulnerabili e a disagio nel loro compito sul profilmico, costretti ad interfacciarsi con istanze capaci di scavare a fondo nella psiche umana. Al fine di rendere centrale questo tipo di lettura, ogni altro aspetto della pellicola viene posto sotto una luce più opaca e posticcia: non sono rari, infatti, i momenti in cui lo spettatore viene quasi spinto a dimenticare la collocazione degli eventi.

I malridotti - quando non apertamente effimeri - interni della stazione, costituiscono un perfetto esempio dell’intento registico poco fa descritto. Pure il vestiario diventa un elemento utile in tal senso, con giacca di pelle e stivali che, assieme ad una ancor più improbabile canottiera a rete gialla, sono i segni più distintivi dell’abbigliamento di Kris Kelvin.

Tarkovskij incentra la propria opera sulle persone, sui sentimenti e sui pensieri. Questa chiave di lettura pervade la visione filmica, rendendo il tentativo di fare luce sul grande mistero che circonda il pianeta Solaris quasi un espediente narrativo per lunghi tratti.

L’azione si riduce al dialogo, che tra ampie divergenze di vedute, scetticismo ed incredulità si afferma come vero motore del racconto. Un racconto che fin dal principio porta all’attenzione dello spettatore l’elemento dell’acqua, magistralmente illustrata come fonte di varie forme di vita; tra cui l’essere umano, che spicca quale vertice evolutivo. L’entrata in scena di Kris Kelvin, non a caso, si instaura a partire da un movimento di macchina verticale che, dagli arti inferiori, si conclude su di un primo piano dello stesso, ergendone la figura dal terreno quasi fosse, a sua volta, parte della flora circostante.

Questa peculiare scelta registica vuole proporre all’osservatore uno sguardo quasi primigenio, offrendo un primo spunto di riflessione in merito alle grandi domande dell’umanità (“D'où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous?” avrebbe detto Gauguin). L’acqua è difatti un elemento ricorrente, capace di presentarsi sotto varie forme e significati nel corso del lungometraggio, fino ad assurgere ad un ruolo di assoluta centralità.

I grandi interrogativi che permeano il racconto sono capaci di gettare nello sconforto e nella follia, con una conoscenza che arriva empiricamente e (fanta)scientificamente, ma che nonostante tutto non riesce a conciliarsi con gli istinti e con la polarizzazione di vita e morte. I corpi che appaiono nella stazione spaziale pongono in crisi la realtà ed il senso dell’esistenza, creando tutti i presupposti per poter parlare di concrete manifestazioni di images mentali possedute da determinati individui.

Un quadro d’insieme debitore, perciò, del pensiero di Cartesio: è proprio l’idea avventizia posseduta dagli uomini ad essere assimilata dal pianeta Solaris, che restituisce però degli organismi dotati di condizioni molecolari inumane. Tale fattore contribuirà a rendere le figure prive di qualsiasi componente mortale, ribadendone ancora una volta la stretta aderenza con il mondo delle idee, cartesianamente inteso.

Diverso è l’apporto di Socrate, che irrompe più volte anche sul profilmico per mezzo di alcuni busti situati nella casa del padre di Kris e nella grande sala comune della stazione spaziale. Non sarà quindi un caso che il vero motore del racconto, nel tentativo di comprendere il grande mistero celato dietro al pianeta Solaris, sia proprio il dialogo, cardine del metodo socratico.

Un dialogo che sussiste non solo tra i membri della missione, ma anche con l’interlocutore-pianeta, potenziale generatore ad infinitum di risposte antropomorfiche che dimostrano, pur se cripticamente, apertura comunicativa e metodi maieutici. Come per il successivo “Stalker” (1979), è il desiderio più radicato a giocare un ruolo chiave: le manifestazioni di Hari, in definitiva, sono tutto fuorché stocastiche.

La sequenza finale ribadisce, ancora una volta, il grande mistero dietro al pianeta Solaris proponendo un epilogo tra i più aperti che la storia del cinema ricordi. Una conclusione che spinge lo spettatore sul baratro dell’incomprensione e della contraddizione, adottando un meccanismo che pone in aperta crisi il metodo razionale, e apparentemente efficace, che aveva permesso agli scienziati di individuare le coordinate degli avvenimenti.

Ed è proprio in quest’ultimo elemento che si può individuare un trait d’union con “2001: Odissea nello spazio”. L’opera di Tarkovskij, analogamente a quella di Kubrick, conferisce al fruitore filmico il compito di assegnare un significato al significante - quasi sporgendosi, si potrebbe affermare, in direzione del relativismo gnoseologico.