Qualche anno fa l’agenzia inglese Today Translations ha inserito il termine portoghese saudade al settimo posto tra i vocaboli di più ostica e insidiosa traduzione. E difatti, non è senza ostacoli e complicazioni che si prova a individuare il significato di questa parola così sfuggente, quasi sempre associata all’espressione lirica ed elegiaca propria dei poeti, ma che impregna di sé il sentimento di identità e di appartenenza etnica dei lusitani e, di riflesso, anche del popolo brasiliano.

La tradizione popolare riconnette la saudade al senso di perdita e malinconica distanza che provavano le famiglie degli esploratori portoghesi, mentre la maggior parte degli odierni dizionari concorda nel definirla come il ricordo nostalgico e allo stesso tempo soave di persone o cose distanti oppure estinte, accompagnato dal desiderio di tornare a vederle o ad averle. Tante e varie le interpretazioni che ne hanno dato le letterature portoghese e brasiliana, ma, già a partire dalla formulazione che nel XV secolo ne aveva fatto il re Dom Duarte, sono tutte concordi nel ravvisare in questa parola una duplice essenzialità di dolenza e sfumato godimento: «A saudade faz sentir às vezes os sentidos da tristeza e do nojo […] a alguns com tal lembrança que traz prazer e não pena»1.

L'ambivalenza poetica del termine sembra derivare anche da un'etimologia solo apparentemente chiara: le sue forme arcaiche soydade e suydade, presenti già in epoca medievale nelle liriche dei canzonieri galego-portoghesi scritti fra la fine del XII secolo e la metà del XV, potrebbero venire dal latino sōlĭtās, solitātis, «solitudine», «isolamento», e solo in seguito, forse, sarebbero state influenzate dalla parola portoghese saudar, «salutare», per poi arrivare a noi nella forma che conosciamo. Sono in molti, tuttavia, i linguisti che mettono in dubbio questa interpretazione e fanno risalire il termine saudade alla parola araba sawdā, femminile dell'aggettivo aswad, «nero», la quale indica genericamente un umore triste e melanconico2.

Sono tante le gradazioni semantiche di cui nel corso dei secoli il concetto si è poi ulteriormente impregnato per osmosi, fra cui un ricorrente senso quasi metafisico di premonizione. Lo esprime in maniera enigmatica e significativa un passaggio del romanzo Campo general di Guimarães Rosa:

– Mãe, que é que é o mar, Mãe?
Mar era longe, muito longe dali, espécie duma lagoa enorme, um mundo d’água sem fim. Mãe mesma nunca tinha avistado o mar, suspirava.
– Pois, Mãe, então mar é o que a gente tem saudade? 3

La saudade, da questa prospettiva, sarebbe allora nostalgia di qualcosa di remoto e intimo che non si conosce bene, oppure che si comprende in maniera intuitiva avvertendone l’esistenza ancor prima di sapere che esiste veramente. Lo comunica benissimo e sinteticamente Pessoa in un passo del dramma Il marinaio: «Soltanto il mare degli altri paesi è bello. Il mare che vediamo ci dà sempre nostalgia di quello che non vedremo mai...» 4

Ma non è soltanto sentimento, la saudade, bensì, come accennato, anche un modo di vivere e di sentire, un modus essendi inscindibile dall’animo dei lusitani. La sua genesi andrebbe collegata necessariamente alla storia stessa del Portogallo, striscia di terra periferica che ai confini occidentali dell’Europa si dà senza riserve ai moti dell’oceano Atlantico, alle sue attrazioni e ai suoi adescamenti. L’ineluttabile vocazione marinara del paese, coi viaggi perigliosi che ne hanno emblematizzato la fondazione e l’espansione, ha contribuito inoltre a potenziare il senso di malinconia e solitudine di cui erano pervasi tanto coloro che prendevano la via del mare quanto coloro che, per vincolo o per scelta, restavano.

«Del dolore che i viaggi per mare generano, tanto in chi parte quanto in chi resta, si nutre la saudade, quel sentimento equivalente del dantesco “disío”, che è insieme nostalgia di cose perdute e desiderio di beni futuri, divenuto segno della spiritualità portoghese»5. È forse Pessoa, col suo eteronimo Álvaro de Campos, quello che più riesce a condensare in un unico breve componimento molte delle plurime fisionomie della saudade:

Ah, ogni molo è una nostalgia di pietra!
E quando la nave salpa dal molo
e ci si avvede all’improvviso che si è aperto uno spazio
tra il molo e la nave,
mi viene, non so perché, un’angoscia recente,
una nebbia di sentimenti di tristezza
che brilla al sole delle mie angosce ingiardinate
come la prima finestra su cui batte l’alba,
e mi avvolge come un ricordo di un’altra persona
che fosse misteriosamente mia 6.

Esistono delle emozioni culturalmente specifiche? Sicuramente sì, ma la questione sarebbe comprendere se le sensazioni indicate da parole come saudade possano considerarsi davvero uniche, appartenenti a una specifica cultura, oppure se gli esseri umani di tutto il mondo provino in ogni caso sensazioni analoghe che identificano o richiamano in modo diverso, enfatizzandone di volta in volta alcune piuttosto che altre in base alla fruibilità dei concetti culturali che hanno a disposizione e che possano veicolarle.

Da questo punto di vista, il vocabolo che più si avvicina al concetto di saudade, e che in parte ne restituisce il lato multiforme e articolato, è forse il tedesco Sehnsucht: anelito verso qualcosa che ancora non si possiede, sorta di desiderio del desiderio stesso o di attesa scandita dalla brama del possesso. Oppure un'ideale sintesi fra questo e un altro termine tedesco, Fernweh, concetto che riflette l'ambizione di allontanarsi dai luoghi noti, intrisi di quotidiano, per lasciarsi incantare da circostanze e novità derivanti da ciò che del mondo esterno non si conosce ancora.

In italiano, per intrinseca necessità, si tende a rendere saudade con la parola nostalgia (come nel caso dei due brani di Pessoa citati in precedenza e tradotti da Tabucchi), quantunque nella nostra lingua la significazione del termine non sia per nulla ambivalente: «Nostalgia: Stato d’animo melanconico, causato dal desiderio di persona lontana o non più in vita, o di cosa non più posseduta, dal rimpianto di condizioni ormai passate, dall’aspirazione a uno stato diverso dall’attuale che si configura comunque irraggiungibile» (Dizionario Treccani). Sulla base dell’etimo greco, la nostalgia – da νόστος, «ritorno», e -αλγία, chiaramente derivato da ἄλγος, «dolore» – riguarda quindi qualcosa di già accaduto, il desiderio di ritornare nel passato per dolersi del momento già compiuto.

Mentre Sehnsucht e Fernweh si concentrano sulla sensazione ora dolce e ora irrimediabilmente amara del tendere verso un obiettivo – Novalis presentava infatti la prima di queste due parole come una tensione continua dello spirito in direzione di un ideale che si allontana ogni volta che si è quasi arrivati a toccarlo, o addirittura come malattia della ricerca inesausta di qualcosa resosi eternamente irraggiungibile 7 –, la nostalgia è concentrata invece sull’obiettivo stesso, sul suo effettivo raggiungimento, poiché il nostalgico non può spegnere il proprio desiderio, o non può guarire, se non ritrovando la particolarità specifica e irriproducibile dell’esperienza che ha generato quel sentimento.

Più affine alle sfumature della saudade, benché soltanto come sua appendice o possibile sineddoche, il termine partenopeo appocundria, riflesso dialettale dell’italiano ipocondria ma in quell'accezione semanticamente vaga di malinconia profonda e inguaribile che tanto sembra denotare la condizione della napoletanità. L'appocundria, pervasa di un'accettazione fatalistica per le umane sorti, sembra essere segnata invero dalla noia esistenziale e da un mesto e scettico distacco per qualcosa d'imprecisabile che non sussiste e non sarebbe potuto essere in alcun caso.

Di particolare ed evocativa risonanza, infine, il caso dell'espressione giapponese mono no aware (物の哀れ) che richiama l'intensa partecipazione emotiva nei confronti della bellezza della natura e della vita umana. Benché si tratti di un concetto estetico nato a irriducibile distanza dalla cultura e dalle tradizioni europee – e quindi di nessuna parentela se non per l'antropica necessità di condensare l'inesprimibile in una formulazione determinata – si attesta anche qui di una sensazione ambivalente e dolceamara, legata anche alla nostalgia per la consapevolezza che tutto è in costante mutamento e quindi, di fatto, irraggiungibile.

Ma la saudade, nella sua polisemica abbondanza, va oltre tutto questo perché impedisce ogni assuefazione o patologico tracollo, e di fronte a ciò che è stato e che non potrà più essere – o che ancora non è stato e che non sarà mai – tenta un recupero per mezzo dell’introiezione: il cuore del saudoso è un teatro sul palcoscenico del quale vanno in scena a più riprese le esperienze già vissute o quelle precedentemente immaginate fino al limite estremo di un'eventuale presenza dell'assenza. E sono ancora i versi di Pessoa che si inerpicano sugli arabeschi della saudade cercando di restituirne ogni possibile dominio, afflato, venatura:

Ah, essere solo una metafora
scritta in qualche libro insussistente
d'un antico poeta, l'anima in altre gamme...

Ma malato, e in un crepuscolo di spade,
morente fra bandiere sventolanti
l'ultima sera di un impero in fiamme... 8

Note

1 «La saudade fa sentire a volte i sentimenti della tristezza e del dispiacere […] e ad alcuni con un tale ricordo che porta gioia e non pena». Dom Duarte, Leal Conselheiro, 1437-38.
2 L'idea di una possibile derivazione dall'arabo del termine saudade venne esposta per la prima volta da João Ribeiro, Curiosidades Verbaes, 1935, p. 197.
3 «“Mamma, che cosa è il mare, Mamma?” Il mare era lontano, molto lontano di lì, specie di lago enorme, una quantità d’acqua senza fine, anche Mamma non aveva mai visto il mare, sospirava. “Allora, Mamma, mare è quello che si ha nostalgia?”». Trad. di E. Bizzarri, in J. Guimarães Rosa, Miguilim, Milano, 1984, cit. p. 74.
4 Fernando Pessoa, Il marinaio, trad. di Antonio Tabucchi, Torino, 1988, cit. p. 9.
5 Luciana Stegagno Picchio (a cura di), Antologia della Poesia Portoghese e Brasiliana, Firenze, 2004, cit. p. 13.
6 Trad. di Antonio Tabucchi.
7 Cfr. Novalis, Heinrich von Ofterdingen, 1802. 8 Fernando Pessoa, Una sola moltitudine, Volume 1, trad. Antonio Tabucchi, Milano, 1979, cit. p. 195.