Quando lei entrò nella caffetteria, lui era già lì, seduto ad uno dei tavoli in fondo alla sala. Si notava qualcosa di semitrasparente, come se provenisse dalla finestra e adesso si accomodava sulla sedia abbandonando tutto il suo corpo a quella liquidità primitiva. Era lui. Lo intuì dal suo profumo, dal il suo guardar nottivago e dal modo in cui il sole, già tenue, illuminava il suo volto. Era lui, bevendo il tè, leggendo, senza guardarla.

Forse di età maggiore di quanto le fosse sembrato alla festa dei Gallardo, tra il groviglio di aromi, di risa, di giochi, di chiacchiere, di bicchieri. E alle undici, lui non era ancora lì. All’alba, con il dileguarsi della confusione e le luci a neon della notte e altre arie l’aroma del caffè, non pareva ricordarlo nessuna finestra. In quel mentre, dall’altro lato lui la scopre: “Lei?” - sembra dirle - e lei scosta lo sguardo, guardando verso la vetrina piena di panini. Vuole dirgli che non la guardi, che continui a leggere. Lui lo sospetta e ritorna a sorseggiare il suo tè. Alla sua destra il sole si è frammentato sopra la finestra in tanti piccoli raggi di luce.

Lei lo guarda di nuovo. Lui sta leggendo. “Cambiarmi per delle carte sporche! Sarebbe meglio dire qualcosa”. E nuovamente la guarda, imperterrito. Lei gli percorre il viso e sente che lui le sfiora le guance, come se le stesse mettendo una collana e le dicesse qualcosa all’orecchio. Sente la sua voce scorrerle per il corpo, trasformarsi in mani che la toccano: sul collo, sulla spalla, sul dorso, mentre continua a sussurrarle qualcosa. “Jorge” gli dice, che continua dall’altro lato prendendo il tè, forse così soavemente dolce come il fremito che rimane nel suo corpo. “Cosa vuole?” “Io? Perché me lo chiede? Lei lo sa benissimo...” “Come si permette?”

Ma solo c’è silenzio e i loro profumi che si accarezzano, un solo impulso transita nell’aria. Lei lo osserva, desiderandolo, volendo toccarlo. Dirige la sua mano verso la borsa, senza guardare, fino a colpire lo schienale della sedia. Adesso più aromi trapelano nel suo corpo: quello del tè, che timidamente le parla, quello dei panini, un’essenza di fiori, tutti mescolandosi e facendole sentir quella nostalgia delle mattine quando lo cerca in ogni finestra, o nelle strade tante volte umide o ferite di luce. Tutto le sembra innocente, benché non si senta protetta, sola, appena con sua sigaretta e il filo di fumo che non arriva all’altro lato. Lui le sorride. Lei gli risponde, un sorriso che vola con il suo profumo fino all’altro lato della stanza. Lui abbassa il viso. Lei lo interroga, con il suo collo retto e aspettando la carezza delle sue mani. Lui finisce il tè.

Un altro uomo si siede vicino a lei e la guarda come dicendole: “Sono qui” imputridendo l’atmosfera con il suo odore. La donna lo schiva, sempre guardando dall’altro lato della caffetteria, guardando l’altro, implorandolo di portarla con lui. “I suoi panini sono pronti”, sente che gli dice la cameriera. Lui si alza facendo vedere il suo vestito grigio. L’uomo appena arrivato lo guarda, lo minaccia. Può notarsi la forma d’un revolver sotto alla giacca. "Andiamo, è ora" le dice fra il brusio delle chiavi della macchina e il doppio bip che gli ricorda la riunione delle quattro e mezza. “Che volgare! (pensa lei) e dall’altro lato si sente il rumore di una tazza che va in mille pezzi (è lui che si è di nuovo alzato) e l’altro uomo burlandosi e lei allungando le mani fino a credere di toccarlo nell’ultimo tavolo accanto alla finestra.

Niente. La finestra sola e il sole morendo sopra i suoi cristalli, il tramonto che trascina le fragranze; il tavolo vuoto, sul pavimento nessuna tazza fatta in mille pezzi. Solo il profumo di lui, il silenzio e la sensazione dell’orangutango che le stringe la mano. Però sente un repentino peso sopra le cosce, quel profumo e lo sfregamento di quelle stesse mani sotto la sua camicetta esplorando i timidi cristalli del suo sesso, quasi obbligandola ad accettare l’aroma e la falsità di quella trilogia d’apparenze: l’orangutango, il collo di Diana e i suoi modi da gentiluomo.

Adesso guarda verso l’ultimo arrivato, rozzo, insensibile, estraneo. Lo guarda tuttavia fissando lo sguardo attraverso la vetrina dei panini – sette anni vedendo crescere le rughe e l’impertinenza del suo odore, lo stesso che il brancicamento di ogni notte- guarda suo marito, assaporando però le parole che sono maturate nella sua bocca: si è liberata di tutti e li vede partire come raggi di luce ogni volta più deboli, e si sente pazza. “Che importa!”, sa che alla fine, saranno solo macchie insignificanti nella sua memoria.

(Anticipo della traduzione italiana del libro Favola degli oracoli)