Il percorso verso la modernità dei costumi può essere visto dall’avvento di Napoleone Bonaparte e dal ripristino del classicismo imperiale di epoca romana.

Il concetto di estetica Neoclassica si esprime in icone di stile come Paolina Borghese e l’Imperatrice Giuseppina Bonaparte con il suo sarto: Louis-Hippolyte Leroy. In esse si codifica il modello a vita alta, in chiaro Stile Impero, del modello noto come Josephine: morbido e scivolato lungo i fianchi, privo del “Panier” de “La Robe a la française” e dunque delle sovrastrutture prerivoluzionarie.

Attraverso Il “Trattato della vita elegante” di Balzac si parla dell’avvento di Lord Brummel come immagine della moda maschile mentre le linee a trapezio raccontano la forma geometrica, triangolare, delle vesti e delle acconciature borghesi delle ricche dame dell’alta società.

Dell’avvento di Napoleone III, e della di lui consorte Imperatrice Eugenia, si delinea lo stile del II Impero dove si concretizza il concetto di Haute Couture come vera partenza del fenomeno attraverso l’arbitrariato del sarto e delle sartorie parigine: una su tutte Worth. Da questo momento il modellato della crinolina (sorta di gabbia steccata dalla forma e semisfera che regge la gonna e ne dà l’ampiezza) passa dalle visioni del couturier, il quale detta le regole del gioco.

L’ascesa borghese, attraverso la Restaurazione, imprime alla storia una nuova coscienza che è legata alle classi produttive le quali si raccontano con il proprio ingegno scollegato dalla tirannide dell’aristocrazia, di matrice feudale, passando dall’avvento della Rivoluzione Industriale come ulteriore conferma del fenomeno. In questo processo le sartorie divengono espressione di potere ed autorevolezza intorno alla metà del diciannovesimo secolo, applicandosi alla costruzione di un modellato costrittivo quanto espressione di potere e ricchezza di chi lo indossa.

A ideare le forme strutturate e rigide di questo stile ci pensa la mano di C.F. Worth, Couturier simbolo di tale fenomeno detto: Haute Couture. Della seconda metà dell’800 è la contaminazione Orientalista a farla da padrona: legata alle riaperture delle tratte commerciali con l’Asia e alla fruizione di costumi esotici inediti che contaminano il concetto di sovrastruttura come manifesto di potere, per fluidificare la figura femminile attraverso mantelli, tuniche e kimoni.

Su questa traccia opera Paul Poiret e il suo divenire anfitrione di una coordinazione comunicativa del messaggio moda senza precedenti. Se la “Prima etichetta” su di un abito è indicativamente di Worth, Poiret realizza le prime vetrine di un atelier, le prime sfilate e comunicazioni cartacee, crea la prima linea di profumi legata ad una maison di moda e anche una prima linea di arredamento.

Lo stile è quello dell’Art Nouveau e si personifica negli elementi esotici delle decorazioni e del modellato. A cavallo tra XIX e XX secolo il corpo della donna è rivelato e suggerito dai toni chiaroscurali delle plissettature, di ispirazione greca, attraverso la tunica nota come Delphos, ed ispirata all’Auriga di Delfi. Ideato da colui che più che couturier è stato scenografo e antesignano del concetto di “Designer”: Mariano Fortuny.

Parallelamente l’abito diviene il medium delle sperimentazioni orfiche dell’arte astratta e vivificato dalle tavole cromatiche di Sonia Delaunay, che opera attraverso mantelli e bidimensionalità nell’arte, e fa dell’abito e della scena, in cui esso si muove, il tramite del Cubismo Orfico che traccia nella simultaneità coloristica ed illuminotecnica la forza espressiva di un colore protagonista oltre la figurazione.

La liberazione del “Corpo di Eva” è suggerita anche a teatro dall’avvento nella capitale francese, nel 1909, dei “Balletti Russi” dell’impresario e coreografo Sergei Diaghilev. La sensualità animale emanata dal corpo di ballo, nella sua evidenza anatomica, è rivelata dai costumi di Léon Bakst, e produce una revisione del sentimento del corpo di chi lo interpreta.

In quegli stessi anni si afferma il fenomeno sociale, e politico, rappresentato da: “La Garçonne”. La pronunciata conferma caratteriale della donna in termini sociali e professionali avviene nelle battaglie per il suffragio universale e le tutele legate al lavoro ed alla salute, oltre al riconoscimento della maternità, e si manifesta nel capello corto, la gonna al ginocchio ed una certa spregiudicatezza nell’atteggiamento verso la sessualità.

Portavoce di questa frontiera estetica è certamente Chanel. Fisico asciutto, viso scavato, carré con nuca scoperta, uso di blazer e pantalone, e l’inserimento audace del jersey, un tempo adibito alla confezione dell’intimo maschile, che diviene tessuto della Haute Couture dalla Collezione Biarritz del 1916 in avanti.

La Grande Guerra fa da apripista alla modista di Rue Cambon ed alla sua produzione essenziale legata al nascente sportswear. Da Jean Patou a Lacoste, per il tennis, alla haute couture per l’infanzia, progettata da Jeanne Lanvin, la donna è sempre più emancipata e sceglie di apporre al suo stile la sua impronta digitale a titolo di diritto d’autore: Madeleine Vionnet.

Il Futurismo e la sua esperienza sintetica, legata alla funzionalità ed alla velocità, si connette allo sport e ben si racconta nella tuta di Thayaht dove, in un unico capo, con due cuciture, si riveste la persona con i materiali della working class dal fustagno al cugino denim, da sempre usato nelle tute da lavoro operaie. Sull’altro fronte, a rivaleggiare con il minimalismo di “Coco”, arriva l’arte che diviene mezzo espressivo della creatività del couturier attraverso le visioni oniriche e surrealiste di Elsa Schiaparelli in collaborazione con Dalì.

L’avvento della psicanalisi produce l’emersione dall’inconscio di quanto, a livello immaginativo, poteva contribuire alla creatività artistica e di conseguenza anche alla moda. Questa italiana, trapiantata a Parigi, diviene l’emblema del dialogo tra le due discipline.

La Seconda guerra mondiale spegne ogni velleità creativa e donne e uomini si devono misurare con tailleur dalla linea a scatola ed il concetto imperante di divisa. È con la fine del conflitto che il sogno può riemergere e questo avviene in maniera più che mai fastosa e scintillante, nel febbraio del 1947, attraverso la “Linea a corolla” di Dior e quello che sarà definito “New Look” dalla Redattrice Capo di Harper’s Bazar Carmel Snow.

Il soggetto floreale e la ripresa dello stile Luigi XVI faranno di Dior e del suo decennale governo, il sovrano indiscusso dello stile del dopoguerra. Dal 30 di Avenue Montaigne al n.10 di Avenue George V, a Parigi, il passaggio è breve ma l’abisso è profondo perché verte sulla semantica anatomica e sul linguaggio espressivo di due giganti dello stile; Dior e Balenciaga.

Se il ragazzo della Normandia parla di “Corset” e “Corolle”, il ragazzo di Getaria aggiunge la terza dimensione dei volumi occultando, o modificando, il punto vita. L’avvento di Cristobal Balenciaga processa il corpo in una conica visione che parte dalle cerate dei pescatori del paese natio (sorta di nido di volumetrica seta per la sera e di lana per il giorno) e attraverso di esso accentua il dietro come punto di fuga dello sguardo, ma anche di osservazione: dalle spalle dagli ampi volumi e dalle quali emerge la femminilità di collo e nuca, giunge sino alla “Punta della gamba”.

A fare addizione tra Balenciaga, Dior, di cui è stato delfino ed erede, Chanel, e Schiaparelli arriva Saint Laurent che dopo sei collezioni per la Maison di Avenue Montaigne, nel 1962, ne apre una sua. “Nude Look” e Smoking da donna, Jumpsuit da sera e Sahariana da città, passando per gli omaggi a Mondrian, all’Africa, ai Balletti Russi, per citare alcuni dei suoi primati espressivi e, non ultimo, la “Rive Gauche” come emblema del prêt-à-porter internazionale. Sue sono le prime donne di colore in passerella e nei servizi fotografici. Sua è la visione di una femminilità sfrontata, ed elegante, che si ispira agli anni ’40 interpretati da Paloma Picasso. Suo è lo sguardo all’androginia di Marlene Dietrich e dell’amica Betty Catroux. Suo è l’approccio piumato alla chilometrica lunghezza delle gambe di Zizi Jeanmaire e Josephine Baker.

Le muse, le icone, sono essenziali e se per Yves si pensa a Catherine Deneuve, e a film come“Belle de Jour”, nell’età d’oro di Hollywood i modelli erano Greta Garbo e Joan Crawford, Gene Harlow e Marlene Dietrich. Donne che si sono fatte sagomare l’immagine dai grandi costumisti di MGM e Paramount, come Adrian e Travis Banton, mentre negli anni ’50 il testimone è passato a Edith Head e Helen Rose che hanno esaltato figure come quelle di Grace Kelly ed oggi Milena Canonero, Gabriella Pescucci, Sandy Powel.

Negli anni ’60 il mondo si muove verso le grandi rivoluzioni culturali e politiche, il ’68, la guerra in Vietnam, Kennedy e Jackie, Martin Luther King e la questione razziale, la Pop Art di Andy Warhol e la consacrazione, nell’eternità, di Marylin Monroe, la minigonna di Mary Quant e la Swinging London di Twiggy e Biba, la musica dei Beatles e quella dei Rolling Stones, Audrey Hepburn, Tiffany e Givenchy. Emergono le prime figure di modelle iconiche come la già citata Twiggy e Verushka.

Gli anni ’70 sono dominati dallo “Street Style” e dalle “Zampe di Elefante”, dal Glam Rock di David Bowie, e dal Punk di McLaren e Westwood, lo stilismo di Walter Albini e Giorgio Armani, Halston, Kenzo Takada, Ottavio Missoni, Krizia, Miyake… Sono gli anni del divorzio, e dell’aborto. Le influenze dei viaggi aerospaziali che già nel 1965 troviamo in Courrèges ed in Cardin, ed ora si declinano in una estetica di scena che ha sul finire dei Sixties, in “2001 Odissea nello spazio” e “Barbarella”, i suoi influenti modelli di ispirazione. Nasce, dalle strade di New York, la voce nera della cultura Hip Hop.

Il mondo dell’editoria di moda si potenzia dagli anni ’50 agli anni ’60: magazine quali Vogue, sotto la direzione di Diana Vreeland, dettano legge nello stile e nel modo di raccontarlo, attraverso grandi fotografi quali Richard Avedon ed Irving Pen.

Gli anni ’80 si immolano sull’altare dell’edonismo e della forza muscolare di modelli politici ed economici contrapposti lungo la cortina di ferro: da un lato gli Stati Uniti e la loro democrazia consumistica, e dall’altro l’Unione Sovietica e lo spettro del comunismo, il tutto sotto la minaccia del nucleare.

Lo stilismo raggiunge l’apice della sua gloria e l’economia diviene centrale, più della produttività, attraverso i giochi di Borsa. Bret Easton Ellis racconta del grande flusso di denaro, del sesso e del potere ostentato di questi anni in un libro divenuto di culto: “American Psycho”. In esso l’uomo e la donna sono descritti negli aspetti più estremi della loro visione egocentrica: dal fitness estremo, ai lettini abbronzanti, all’uso copioso di lacche, gel e profumo. Film come “Wall Street, “Una donna in carriera”, “Top Gun” divengono le tracce narrative di modelli non solo cinematografici.

Nel 1982 il mondo si commuove per un piccolo alieno: “E.T. – L’extra terrestre”. Quincy Jones e Michael Jackson raggiungono i vertici delle classifiche mondiali e Madonna mescola verginità, religione e sessualità, negli anni del boom dell’Aids. Il papato vede in Giovanni Paolo II governo più lungo che la storia della Chiesa ricordi. Emerge agli onori della cronaca Diana Spencer, Principessa del Galles e moglie dell’erede al trono d’Inghilterra.

Sul fronte musicale il mercato europeo è dominato dalla musica inglese che rivaleggia con quella americana le due esperienze si incontrano a metà anni ’80 nel grande concerto evento per l’Africa: “Live Aid”.
Negli anni ’80 i creatori di moda sono gli stilisti come Franco Moschino e Christian Lacroix, Gianni Versace, e Gianfranco Ferré, Giorgio Armani, Jean Paul Gaultier e Fendi per la pellicceria.

Dall’Oriente arrivano, nel 1981, Rei Kawakubo, di Comme des Garçons, e Yohji Yamamoto con le loro risignificazioni acromatiche ed il concetto del vuoto come nuova espressione rispetto al pieno occidentale. Sempre dei primi anni Ottanta è il rilancio della Maison Chanel sotto la direzione creativa di Lagerfeld e la codifica del logo della doppia C nell’impronta aziendale.

Gli anni ’90 si incentrano sui grandi flussi migratori portati dalle guerre balcaniche e si aprono con la guerra nel Golfo del 1991. Nel 1992 “Basic Instinct” ci racconta di donne potenti, bisessuali, intellettualmente evolute e bellissime, che uccidono uomini, a colpi di eros e rompi-ghiaccio, in assenza di intimo. Il fronte socioculturale si delinea sotto il segno del “Grunge” e del sound dei Nirvana. Nella moda troneggiano Marc Jacobs, Calvin Klein, Tom Ford, Martin Margiela e Nicolas Ghesquiere, John Galliano, Alexander McQueen e gli “Antwerp Six”.

Il fashion comincia ad essere sempre più protagonista, oltre che per la sua semantica, anche per i vettori della medesima: la rivista Vogue, la pop music, le campagne comunicazione sempre più ridondanti, e le modelle che divengono Super Model.

Nel 1994 esplode il fenomeno erotico-sofisticato di Gucci/Ford e, di fatto, l’alta finanza entra nella moda con Bernard Arnault e la sua LVMH che a ruota rivoluziona il trono dei suoi brand dando origine al fenomeno della Direzione Creativa, storicamente personificato in Karl Lagerfeld dagli anni ’60, con Chloé e Fendi.

Emerge, dalle multinazionali del lusso, un accresciuto interesse verso gli accessori: borse e scarpe divengono il traino dei consumi.

Nascono le collaborazioni tra Vuitton e Murakami, la Lariat Bag di Balenciaga, la linea Prada Sport, legata all’imbarcazione di famiglia Luna Rossa e la celebre, purpurea, linguetta a identificarla, oltre al massiccio utilizzo di tela vela nelle collezioni di abbigliamento, la Baguette di Fendi ed un ritrovato potere al femminile che investe economia, glamour e sesso, il tutto raccontato dalla serie televisiva, prodotta da HBO: “Sex and the City”. In tale corrente, sul fronte musicale, s’impone un gruppo costruito a tavolino: le Spice Girls.

Le boy band sono un fenomeno degli anni ’90. Sono gli anni dove emerge la figura dello Stylist e del super fotografo. Prada detta legge nella sua proiezione del brutto ed attraente. Il concetto di ossessione della moda compie i suoi primi passi a suon di loghi e sneakers. Il concetto di “Sportswear” muta e diviene “Activewear”, preponderante nel ventunesimo secolo.

Gli anni 2000 si aprono con l’11 settembre e riportano il terrore nei confronti dello straniero ed il concetto di fronte religioso. La preponderanza del fenomeno del rilancio dei marchi storici del glamour ha diviso il mondo della moda in consolidate multinazionali del lusso. I social fanno il loro ingresso sulla scena internazionale ed il concetto di influenza passa all’agorà della rete con nuovi parametri qualitativi e più facilmente e simultaneamente fruibili.

L’Hip Pop trova in Kanye West e Jay-Z e Beyoncé i suoi imperatori e l’America si appresta a vivere la sua prima presidenza afroamericana. Lady Gaga rivaleggia con Madonna in quanto a camaleontiche trasformazioni e provocazione. Gli Influencer sono i nuovi Re Mida dello stile e l’avvento di Instagram e TikTok rende sempre più breve la durata di una prestazione nella memoria del pubblico.

I grandi gruppi del fast fashion riempiono di bisogni indotti il pubblico attraverso i media e l’emulazione dello stile delle grandi marche, con massicce campagne persuasive e il tema della sostenibilità diviene un’urgenza per il pianeta. La forza del logo come contenitore di valore supera la verità del contenuto in favore dell’immagine: esplode la logo-mania. Nuove forme di ossessione sono rappresentate dai marchi dello sportswear come Nike e Adidas e nascono le prime collaborazioni con il mondo musicale: Yeezy By Kanye West.

In questo vortice consumistico emerge la figura del Direttore Artistico ovvero colui che non avendo specifiche competenze nel settore dove opera riesce a coordinare e costruire un prodotto vincente. A rappresentare questa nuova figura è: Virgil Abloh, fondatore di OFF-WHITE e primo afroamericano a condurre lo stile di Louis Vuitton.

Questo giovane, originario di Chicago, laureatosi in ingegneria civile e con un master in architettura, ispirandosi al “Ready Made” di Duchamp, realizza la teoria del 3%, come fattore aggiuntivo, e variabile, alla realtà già in essere vedendo, in questa sua formula, il processo creativo più idoneo alle necessità odierne di sostenibilità e potenziale creativo rispetto alla storia.

Il nostro tempo parla di inclusività totale a prescindere da razza e genere e ben si sposa con l’ibridazione adolescenziale che veniva vista come “Quarto Sesso” e soggetto principe del domani, nell’omonima mostra, del 2003, tenutasi a Firenze per Pitti Discovery e curata da Raf simons e Francesco Bonami.

Ogni realtà oggi può processarsi lungo la strada del lusso, ed i social hanno reso fruibile il modello come gadget tangibile per una propria immediata fruizione, ma anche parlare di possibili vie per ricondividere le tracce di quanto già prodotto come attraente e fruibile.

La pandemia mondiale, del 2020, e l’attuale crisi energetica, unita al confitto bellico, nel cuore del Vecchio Continente, costringono a guardare all’uomo con nuovi parametri sempre più sconnessi dall’economia ed incentrati su un neoumanesimo che Abloh definiva: rinascita.