Poesia come linguaggio primario. Uno stream of consciousness in cui la realtà si manifesta nel momento di massimo abbandono, quello del sonno. Un ritmo di immagini e parole che il risveglio fa dimenticare, ma che riemerge poi prepotentemente in tutta la sua forza reale. Lo spiega così, Sonia Gentili, poetessa, scrittrice, lo spirito creativo che la guida verso la parola in versi.

Ispirata nel poetare dal grande flusso simbolista delle “Illuminazioni” di Arthur Rimbaud, Gentili apre la porta al suo mondo intimo e ci racconta la genesi di una scrittura personale e fervida d’immaginazione poetica. Un declinare ipnotico e potente a partire da un’intuizione quasi onirica, misteriosa e assolutamente personale.

Per “vedere” le poesie di Sonia Gentili, racchiuse in video installazioni con testo dinamico , basta recarsi al Museo Carlo Bilotti per visitare “Cosmogonia”, l’esposizione a due voci realizzata insieme all’artista Daniela Monaci e al Collettivo L’uomo che non guarda, di cui Gentili è parte.

L’esposizione inaugurata il 15 giugno 2022 è stata prorogata, per il suo successo, all’8 gennaio 2023.

Come nasce il verso di Sonia Gentili, quale è il processo creativo ed emotivo che sta alla base?

Per me la poesia è, da sempre, il linguaggio legato ai sensi. E’ il linguaggio della percezione sensibile e sensoriale della realtà. Un processo che si alimenta di suoni e immagini. La poesia è nata per me col linguaggio, esattamente nello stesso istante. Direi che la poesia è l’intuizione infantile del linguaggio, è il primo nome dato alle cose.

Questo linguaggio primario intraprende una lotta con la realtà per manifestarsi, poi per nascondersi, poi per riapparire. E’ una sorta di cetaceo la cui natura è inabissamento e riemersione.

L’emersione è un concetto che ritorna spesso.

Sì, ma voglio chiarire che l’emersione della poesia non comporta una mistica o una metafisica della parola: penso che si tratti di una semplice emersione psicanalitica del profondo. Si delinea in una fase del dormiveglia, di allentamento della coscienza in cui emergono catene di suoni, formule, echi, ritornelli: tutto si addensa in una chiave musicale e ritmica. La poesia non è che un deposito di realtà, poiché la realtà ha molte più dimensioni, molte più frecce al suo arco di quante gliene attribuiamo. La visionarietà più illimitata non è che realtà.

Proviamo ad addentrarci in questo processo creativo quasi inconsapevole. In questa danza di suoni e immagini.

Il meccanismo è sempre lo stesso. Emerge una sorta di battito, la percezione di un ritmo dell’esistenza, e la passività che questo processo richiede a chi lo vive è una liberazione dalla soggettività. Per percepire devo diventare debole, devo diventare un campo di battaglia.

Al risveglio non c’è nessuna memoria della battaglia: ma proprio quando la giornata ha raggiunto il punto più convenzionale, più pratico, più lontano dall’immaginazione il ritmo di quello che si è celato riemerge ed io mi pongo in ascolto: scrivo. Scrivo rigorosamente al computer: mi sono resa conto di avere ormai una dipendenza dalla dimensione estetica dello schermo, che concretizza di nuovo e rende visibile, per me, il processo di emersione, di addensamento: la luminosità dello schermo è un cielo o un plasma primordiale in cui parole e ritmi prendono forma, divengono architettura.

Questo “plasma primordiale” rimanda alle video installazioni con testo dinamico nella mostra “Cosmogonia”.

Mi specchio in questa specie di plasma, di mare, di cielo, di trasparenza e di vuoti in cui non c’è né prima né poi, ma un’assoluta libertà percettiva. Quando scrivo ho bisogno di una pagina - luce (quella del monitor) completamente pulita. In questa luminosità diafana la poesia svela le sue catene ritmiche come processo, come movimento verso la forma.

Una metrica, anche questa, che si forma senza schemi.

Il verso è completamento libero e senza schema ma l’elemento musicale è primario: è un ritmo che fonda e forma se stesso. L’elemento musicale si autodetermina e determina la parola in quanto ritmo.

Quanto conta poi l’affinamento del verso?

Il momento della correzione, per me secondario, è autentico e fecondo se è esso stesso un nuovo, ulteriore flusso di coscienza e non una limatura di tipo tecnico. La correzione comporta un processo rabdomantico, una nuova individuazione di sorgenti ritmiche misteriosamente ma chiaramente legate a quella che si è manifestata all’inizio: affluenti, vene secondarie, piccoli fiumi carsici che scorrevano, invisibili, e che vengono trovati.

Un’alchimia, quella del processo creativo, che ha portato alla collaborazione per “Cosmogonia” con Daniela Monaci.

Userei per l’incontro con Daniela la nozione della somiglianza nel senso dato alla parola da Milo De Angelis nel suo “Somiglianze” (Guanda, 1976 n.d.r.), una raccolta che rinovò la storia della poesia di fine Novecento con un’idea arcaica: l’analogia tra forme, parte essenziale della percezione poetica della realtà, che svela non rapporti di tipo logico ma di tipo analogico. Le opere di Daniela Monaci che mi riguardano di più evidenziano analogie che definiscono il tempo umano e la soggettività: le figure che sembrano rincontrano se stesse nella serie Smarrimenti e lo svettare di un io arcaico, remoto e solitario incarnato dagli alberi della serie Vertigine . E’ un’estetica molto vicina a me proprio per questo metamorfismo, il tema di riconoscersi in una forma o nell’altra e che ho percepito come punto di contatto.

Sonia Gentili, cosa sta scrivendo di nuovo?

Sono concentrata sulla realtà del tempo umano. Sto scrivendo piccoli episodi, quadri, situazioni umane narrative in forma poetica. L’ambientazione è Roma. Col Collettivo L’uomo che non guarda stiamo scrivendo una sorta di ‘racconto romano’, utilizzando i miei testi poetici – delle scene, degli short cuts di personaggi e situazioni nella città - e gli scatti di Ambrogio Palmisano. Adesso sento di dover seguire le strade della poesia attraverso la realtà, i frammenti di esistenza nella loro nudità. Semplicemente il momento, senza un prima che lo determini o un dopo che lo salvi.

C’è un verso tratto da “Il ponte” dalla raccolta “I quattro gesti della creazione” che mi affascina e rivela il suo mondo: “I segni sono muti e questo è il ponte…”

Si, capisco. Kafka scrisse: ‘C’è una meta ma non c’è una via; quella che noi chiamiamo via è solo esitazione'. Il verso che lei cita rovescia la sentenza kafkiana in questo modo: c’è una via ma non c’è una meta; quella che noi chiamiamo meta è soltanto esitazione.