Il Po langue, sta soffrendo. Nei mesi estivi il caldo e la mancanza di piogge ne hanno fatto registrare le portate al di sotto dei minimi storici. Addirittura in alcuni tratti –dal Ponte della Becca (PV) alla località Mortizza (PC) e dalla valle della Conca di Isola Serafini (PC) alla località Papozze (RO)- il livello delle acque era così basso che ne è stata sconsigliata la navigazione a motore.

La siccità rischia di mutare l’immagine del fiume più lungo d’Italia. Da superbo corso d’acqua il Po pian piano si sta trasformando in un silente deserto di depositi sabbiosi, da cui riemergono brandelli di passato. Relitti della Seconda Guerra Mondiale, resti di villaggi medievali e fossili riaffiorano dall’arido greto a ricordarci che un tempo la fertile e vitale Valle Padana, ritenuta il cuore pulsante dell’agricoltura italiana, fu una savana abitata da ippopotami, elefanti e rinoceronti, poi una tundra e quindi una steppa simile a quelle della Siberia.

Indubbiamente di racconti da narrarci l’italico Padus o il greco Eridano come dir si voglia, ne ha infiniti.
Una delle tante vicende che vede protagonista il Grande Fiume si colloca nel Bassomedioevo e riguarda le pingui località rivierasche di Arena Po, Portalbera, Stradella, Soprarivo e Calendasco.

Questi borghi, nel Medioevo collegati dalla strata Romea o Via Francigena, erede della romana Via Postumia, sono situati alla confluenza nel Po del Ticino, dell’Olona e dei numerosi torrenti, che discendono dai primi contrafforti dell’Appennino ligure-emiliano.

Nella carta geografica dell’Italia settentrionale essi appaiono come minuscole terre di confine, affacciate sulla sponda destra, al limite delle province di Pavia e Piacenza.
Ascoltiamone la storia.

Nel ‘400 il Po costituiva una delle principali arterie di comunicazione del Ducato di Milano, in grado di assicurare i collegamenti da e per Venezia, l’Italia settentrionale e l’Oltralpe. I porti sul fiume nel tratto “milanese”, lungo 250 chilometri ed esteso dai confini del Monferrato a quelli del Mantovano, erano una trentina, la maggior parte dei quali costituiti da traghetti formati da pontoni o semplici navi, che effettuavano il trasbordo delle merci e delle persone da una sponda all’altra.

Gli attracchi dotati di installazioni stabili e moli erano pochi. Uno di essi si trovava ad Arena Po (PV). Vi era preposto un portonarius, che percepiva dalla comunità locale lo stipendio mensile di otto fiorini. Alle sue dipendenze lavoravano guardie incaricate di controllare il traffico sul fiume, eseguire gli ordini emessi dalla cancelleria del duca e dal capitano del Naviglio, residente a Pavia.

Il porto di Arena oltre a galeoni, galeoncelli, redeguardi, ganzerre, navi incastellate, piatti, navette e burchielli della flotta ducale, accoglieva altre imbarcazioni minori di varia denominazione e stazza. Le navi maggiori erano agli ordini di un connestabile, da cui dipendevano i navaroli, in numero diverso a seconda della grandezza dell’imbarcazione. Di solito connestabili e navaroli, considerati la parte essenziale dell’armata, erano reclutati a Pavia. Un buon numero di costoro, però, proveniva anche dai paesi rivieraschi del Po e, soprattutto, dalla stessa Arena, ove era facile reperire uomini esperti nella navigazione fluviale e profondi conoscitori dei fondali, perché traghettatori e cavatori di sabbia.

Oggi ad Arena Po si ammira il Maapo (Museo Arte Ambiente Arena Po), un museo a cielo aperto che, istituito anche grazie a una convenzione con l’Accademia milanese di Belle Arti di Brera, ha permesso l’istallazione nel borgo di quattordici opere d’arte contemporanea donate da artisti di fama internazionale, ma facciamo un passo indietro nel tempo.

La prima menzione del Comune di Arena che, munito di un castello, per la sua posizione “limitanea” e per il suo efficiente porto fluviale rappresentò l’estremo avamposto di Pavia ghibellina contro Piacenza, alleata di Milano, risale al 1246.

Due secoli dopo i Visconti finanziarono la ricostruzione del fortilizio, che assunse le odierne caratteristiche architettoniche, e gli Sforza trasformarono il porto in base militare.

Ad Arena, oltre al quattrocentesco maniero, è possibile visitare la chiesa di San Giorgio Martire. Costruita nel 1022 nei pressi di una sottile spiaggetta a una certa distanza dal paese, documenta un paradigmatico esempio di pieve appartenente alla diocesi di Piacenza nel 964, passata nell’ordinamento diocesano pavese nel XI secolo e attribuita alla diocesi di Tortona nel 1817.

Seguendo il percorso della Via Francigena non distante da Arena troviamo la basilica di San Marcello di Montalino. Abbarbicata come la Rocca superiore sul Montalino, lo sperone collinare che, ricoperto da armoniosi filari di vite, sovrasta l’attuale cittadina di Stradella, è un gioiello dell’architettura romanica. La sua struttura, semplice ed elegante, si colloca tra la fine del XI e l’inizio del XII secolo. L’interno, suddiviso in tre navate separate da archi a tutto sesto sostenuti da pilastri con capitelli incisi, richiama le chiese romaniche distribuite nel Comasco e può ritenersi opera di un solo architetto, forse un Maestro Campionese.

Incuriosisce i visitatori un’originale decorazione in terracotta che, collocata sul lato meridionale esterno, raffigura un uccello con un ramo fiorito nel becco, simbolo dei nobili Malaspina, feudatari nel XI secolo della zona e forse pure committenti del luogo di culto innalzato, come si evince dalle pietre incastonate nel pavimento, sui resti di un precedente edificio sacro, secondo la tradizione eretto nell’VIII secolo per volontà del re Liutprando.

Lasciata la provincia di Pavia, continuiamo il nostro viaggio alla scoperta dei borghi fluviali a sud del Po in provincia di Piacenza.

Le fonti documentarie sono piuttosto avare di notizie sulle tappe emiliane della Francigena, nel Medioevo snodo centrale delle grandi vie della fede dirette a Gerusalemme, Santiago de Compostela e Roma; fa eccezione Calendasco, la nostra prossima meta.

A citarla per la prima volta nel 1056, in un documento riguardante una permuta di terreni, è la badessa del monastero di San Sisto, Adeleita.

Nel 1140, accanto ad alcuni grandi proprietari terrieri laici, il monastero di San Sisto risulta ancora tra i più cospicui possessori di beni lungo il Po, nel tratto tra Piacenza e Castel San Giovanni.

A partire dal X secolo un vasto processo di incastellamento cambiò progressivamente il paesaggio delle campagne piacentine. Castra e castella, destinati a proteggere la popolazione da minacce di eventuali assalitori e divenuti ben presto espressione della volontà di dominarla, furono edificati pure negli abitati disseminati tra i boschi, gli argini e i canneti nei pressi del Po. Il castello di Calendasco ne è una sopravvissuta testimonianza.

Infatti il suo nucleo originario risale al Mille e rimanda al ricetto, costruito dal vescovo-conte di Piacenza non solo per proteggere contadini e prodotti agricoli, ma anche per assicurare la guardia armata e la riscossione delle gabelle in tre importanti porti sul Grande Fiume: quello del Botto -tra le odierne località di Masero e Bosco-, quello di Cotrebbia Vecchia, dove si trovava un’abbazia benedettina proprietà del monastero femminile di San Sisto, e il Transitum Padi.

La storia di quest’ultimo guado, situato a Soprarivo, a qualche chilometro dal castello di Santimento, è un interessante intreccio di avvenimenti ufficiali e oscuri episodi di cronaca locale, grandi personaggi e una lunga galleria di pellegrini anonimi, ma non per questo meno reali. Fu qui che negli anni 612-615 approdò il monaco irlandese Colombano, diretto a Bobbio per fondarvi il proprio cenobio e da qui tra il 990 e il 994 transitò Sigerico, l’arcivescovo di Canterbury recatosi a Roma dal papa Giovanni XV per ricevere il pallio.
Dal 1994, su decisione del Comitato della Cultura del Consiglio d’Europa, il guado di Sigerico è inserito tra le 44 tappe della Via Francigena e, oltre a essere la prima sosta in Emilia, costituisce l’unico attraversamento fluviale dei 2mila chilometri di cammino affrontati dai pellegrini per giungere a Roma.