La capacità più importante, quella che ci fa umani, è l’immaginazione. Una facoltà sviluppata 70 mila anni fa1. Per immaginare è necessario far funzionare la percezione al contrario. Nell’esperienza quotidiana il flusso informativo procede dai sensi al cervello. Quando immaginiamo, l’informazione procede in direzione opposta. È il cervello a dire ai sensi quale forma dare alle emozioni, ai desideri e alle paure che agitano il mondo interiore. Le opere che ammiriamo ai concerti, ai musei, al cinema o a teatro sono i risultati più limpidi della capacità immaginativa. Ma non sono i soli. L’immaginazione è presente in ogni forma che siamo in grado di inventare. Anche le punte di selce scheggiate dei nostri antenati del Paleolitico dovevano essere prima immaginate e poi realizzate.

Legrenzi, analizzando un’opera di Pollock, la Number 1A del 1948, realizzata con la tecnica del dripping, che consiste nel far colare il colore sulla tela disposta orizzontalmente, osserva che l’assenza della figurazione enfatizza il peso emotivo:

Restano segni astratti per comunicare emozioni, null’altro che emozioni.

(Legrenzi, P. (2017), Regole e caso, Bologna, Il Mulino)

I segni astratti sono super-stimoli che parlano direttamente al cervello visivo, eludendo la tirannia del cervello verbale, che, privato di appigli figurativi, rimane letteralmente privo di parole. Una capacità già sperimentata dai cacciatori-raccoglitori che disegnavano linee e punti sulle pareti delle caverne per dare forma alle proprie emozioni2.

La straordinaria capacità del cervello visivo di dare una forma visibile al mondo delle emozioni viene da lontano. Il cervello, con un suo primitivo apparato visivo, ebbe origine 500 milioni di anno fa, nel periodo Cambriano, per consentire agli organismi di far fronte alla estrema variabilità delle condizioni ambientali. Molto più tardi, circa 200 mila anni fa, appare l’Homo Sapiens e, con esso, il linguaggio articolato e il pensiero simbolico. Dunque, quando si sviluppa il cervello verbale, i meccanismi dell’evoluzione, nel corso di milioni di anni, avevano già dotato il cervello visivo di sorprendenti abilità.

Ecco un esempio di cosa sa fare il cervello visivo:

Pensate, ad esempio, al processo mentale insito nel colpire una palla di baseball, un’azione pressoché impossibile stando ai numeri: un tipico lancio da major league impiega circa 0,35 secondi per arrivare dalla mano del lanciatore al piatto del battitore. È l’intervallo medio tra due battiti cardiaci umani. Purtroppo per il battitore, ci vogliono 0,25 secondi perché i suoi muscoli comincino a muoversi, lasciando al cervello un misero decimo di secondo per decidere cosa fare. Ma questa stima è ancora troppo generosa. Ci vogliono alcuni millisecondi perché le informazioni visive viaggino dalla retina alla corteccia visiva; quindi, in realtà il battitore ha meno di cinque millisecondi per percepire il lancio e decidere il da farsi. Ma un uomo non può pensare così in fretta; anche in condizioni ottimali, il cervello impiega circa venti millisecondi per rispondere a uno stimolo sensoriale.

(Leher J. (2009), Come decidiamo, Torino, Codice Edizioni, pag. 22)

Come fa il giocatore di baseball a colpire la palla? Il cervello visivo comincia a cercare informazioni prima che la palla lasci la mano del lanciatore. Lunghi mesi di allenamento lo hanno addestrato a cercare indizi premonitori: la torsione del polso, l’angolo tra gomito e spalla, la posizione delle dita sulla palla. Poi il cervello ha correlato questi indizi al tipo di lancio: palla dritta e veloce, oppure palla ad effetto, o, ancora, palla bassa, palla alta, palla centrale. Tutto è avvenuto inconsapevolmente, grazie a migliaia di ore di esercizio. Durante quelle ore il cervello, grazie alla sua plasticità, si è modificato, riconfigurando le connessioni tra i neuroni e ha imparato a padroneggiare i lanci della palla. D’altra parte, con mezzo miliardo di anni a disposizione, non sorprende che il cervello visivo sia diventato un organo estremamente sofisticato nell’esplorare il mondo circostante, fare previsioni, e apprendere nuove abilità.

Molto più arduo è addestrare il linguaggio a comprendere il nuovo. Dal punto di vista dell’evoluzione, 200 mila anni sono un battito di ciglia. Ancora oggi il cervello verbale è una assoluta novità evolutiva. Quindi, è abbastanza ovvio che sia impacciato difronte a nuove esperienze.

Il che non è un problema di poco conto, perché abbiamo bisogno delle parole per diventare consapevoli delle sensazioni e delle emozioni che agitano il nostro mondo interiore. E, se il cervello verbale non ci parla, non possiamo conoscere le nostre esperienze, né possiamo condividerle con gli altri, né, tantomeno, possiamo immaginare un mondo nuovo.

Immaginare il nuovo con le parole è un processo lento e faticoso: può prendere giorni, mesi, talvolta decenni. Un esempio di questa difficoltà ci viene dalla reazione della cultura europea alla scoperta dell’America. Un evento traumatico che metteva in discussione millenni di certezze politiche, religiose, scientifiche. Era quasi impossibile che le parole riuscissero a liberarsi dalla griglia culturale che rinserrava il nuovo entro il già noto.

Colombo, sbarcato nel continente ignoto va in cerca di tracce “di tutte le leggende e le menzogne lette negli antichi testi di geografia e nei romanzi cavallereschi”3. I miti, la religione e le conoscenze della cultura europea si sovrapponevano e si appropriavano dei dati dell’esperienza. Ne sono testimonianza i nomi attribuiti da Colombo ai luoghi scoperti, che fanno riferimento alla religione (San Salvador, Trinidad), ai reali di Spagna (Ferdinandina, Giovanna, Hispaniola), o a qualcosa che ricordava una esperienza passata (Selva di lauri, Campo di cedri, Isole delle Perle)4. E va ricordato che per lungo tempo gli europei andranno alla ricerca del Paradiso Terrestre, delle Amazzoni, dei Giganti, della Fontana della Giovinezza, dell’Eldorado, delle Sette Città di Cibola e dei tetti d’oro di Cipango.

Il problema è che l’interpretazione verbale dell’esperienza esige una coerenza con il passato, e ha difficoltà ad accettare il difforme, il paradosso, il diverso. Piuttosto, è incline a decretare che ciò che non può essere assimilato vada eliminato.

Per immaginare il nuovo con le parole non abbiamo che due possibilità: inventare parole nuove o attribuire alle parole esistenti nuovi significati e costruire nuovi discorsi. Cose difficili, che richiedono un nuovo modo di pensare il mondo.

Dunque, per imparare a pensare cose nuove bisogna allenarsi. Un po’ come suggerisce la Regina Rossa ad Alice:

Alice rise: «È inutile che ci provi», disse; «non si può credere a una cosa impossibile.» «Oserei dire che non ti sei allenata molto», ribatté la Regina. «Quando ero giovane, mi esercitavo sempre mezz'ora al giorno. A volte riuscivo a credere anche a sei cose impossibili prima di colazione.

(Carroll L. (2002), Attraverso lo specchio, Milano, Rizzoli)

Io, non riuscendo ancora a pensare cose impossibili prima di colazione, mi sono scelto due trainer eccezionali. Mi sono affidato ai poeti, che mi insegnano a scoprire le inaspettate ricchezze delle parole. E mi lascio guidare dagli artisti, che, esplorando le misteriose capacità del cervello visivo, riescono a dare forme sorprendenti al nuovo che appare all’orizzonte.

Note

1 Harari, Y.H. (2014), Da animali a dei, Milano, Bompiani.
2 Legrenzi riporta il disegno di una testa di bisonte circondata da segni disposti a raggiera, realizzato su una roccia in un bosco della Bretagna (Francia) circa 14.000 anni fa, ripresa da Naudinot N. et al. (2017) “Divergence in the evolution of Paleolithic symbolic and technological systems: The shining bull and engraved tablets of Rocher de l'Impératrice”, Plos One, 3 marzo 2017. Gli autori mettono in evidenza la relazione tra i cambiamenti nell’espressione artistica, la maturazione cognitiva e i cambiamenti sociali: “We also argue that eventual change in symbolic expression, which includes the later disappearance of figurative art, provides new insight into the probable restructuring of the societies”.
3 F. Cardini (1987), “Gli orizzonti mitici dei conquistadores”, in AA.VV, Le Americhe. Storie di viaggiatori italiani, Milano, Nuovo Banco Ambrosiano, pp. 92.105.
4 M. Cortellazzo (1987), “I nomi dell’America”, in AA.VV, Le Americhe. Storie di viaggiatori italiani, Milano, Nuovo Banco Ambrosiano, pp. 84-89.