Era l'estate del '93 quando incontrai in Rwanda per la prima volta il console italiano Pierantonio Costa. Stava indaffarato dietro un bancone di ferramenta del suo emporio nel centro di Kigali. Arrivai con mia moglie Paola emozionati e spaesati in una capitale chiassosa e sudata.

Aspettammo che il console ci dedicasse un paio di minuti ma non li aveva. Fece cenno a Giandomenico Colonna (anestesista del Rizzoli di Bologna in servizio a Rilima) di accomodarci al primo piano che v'era Renata che ci stava aspettando. Salimmo e io ero già un po' preoccupato per tutti i bagagli lasciati incustoditi nella jeep e lo esternai a Renata Tomini che con un sorriso mi rincuorò che il parcheggio è sicuro.

Compilammo le schede per l'iscrizione all'AIRE (Associazione Italiani Residenti all'Estero) e ci capitò Pierantonio alle spalle che con una battuta ci disse: “Meglio essere iscritti altrimenti se succede qualcosa dove vi vengo a cercare?” Ad onor del vero lo disse in mezzo dialetto veneto per sottolineare il suo piacere di avere un suo conterraneo in Rwanda (sono originario di Padova ma ho passato la mia infanzia a Piove di Sacco che poi non è così lontano da Mestre dove nacque Pierantonio). Sorrisi ma in realtà ero stanco di tutte le raccomandazioni e le formazioni che l'ONG “Fondazione Tovini di Brescia” ci aveva fatto in caso di disordini e guerre. Il dott. Loda, noto ortopedico di Montichiari (BS) con una lunga esperienza in Africa ci aveva anche dettato un decalogo delle cose da fare e non fare in caso di caos.

Finite le formalità Renata prese le nostre schede e le mise dentro lo schedario grigio con cassettoni a carrello. Studi di “relazioni internazionali” m'insegnarono che tutti i territori delle ambasciate sono protetti mentre solo gli schedari nei consolati. Lo chiuse con una chiavetta minuscola che si acquista facilmente al bancone di ogni ferramenta e, a quel punto, mi chiesi se ho fatto bene o meno aver scelto un progetto proprio in Rwanda.

Prendemmo una limonata con il console prima di salutarci e con l'autista André (un religiosissimo omone di 120 kg che ha conosciuto diverse guerre nei grandi laghi) ci prestammo a raggiungere Rilima dove stava l'ospedale ortopedico e dove avremmo dovuto avviare il servizio e la scuola di fisioterapia.

André farfugliò qualcosa misto francese kinyarwanda con il console e decise di fare una strada anziché un'altra per bypassare un paio di “posti di blocco”. Nonostante questo, almeno ad un paio di “alt polizia” abbiamo dovuto sostare con una calenda di almeno 40 gradi sulla Pajero e i passaporti in mano.

Il mio secondo incontro con Costa fu sempre a Kigali assieme al Nunzio Apostolico Mons. Giuseppe Bertello. La scuola di fisioterapia si poteva aprire solo dopo un iter con i Ministeri dell'Istruzione e della Sanità del Rwanda e il console con il nunzio erano le persone giuste per aprirci le porte e farci incontrare le dirigenti. Cosa che fecero in breve tempo; il tutto mi stupì in quanto ero un po' abituato alle liturgie ministeriali italiane.

Onnipresente nel discorso dei due uomini c'era la tragedia di suor Antonia Locatelli che fu uccisa l'anno prima a Nyamata (pochi chilometri da Rilima dove stavo) perché testimone di un'uccisione di massa di persone di etnia tutsi.

Le due personalità viaggiavano spesso assieme tant'è che li ritrovai, dopo un paio di mesi, a Rilima in visita al nostro progetto. La cosa ci fece enorme piacere perché nella regione del Bughesera non v'erano attrazioni ma solo laghi pescosi e mercati chiassosi.

Il 10 luglio 1993 vi fu una grande festa nel vicino Burundi per l'elezione di Melchior Ndadaye che, peraltro, fu uno studente modello al liceo di Rilima. Il Fro.de.bu (fronte democratico burundese) sfondò con una percentuale incredibile tant'è che il settimanale più diffuso in Africa (ma stampato a Parigi) parlò di “risorgimento africano”. Non riuscii a trovare sia tra il console che il nunzio alcun consenso o segno di felicità in quanto temevano già il peggio che arrivò puntualmente il 21 ottobre del 1993 con l'uccisione, in un golpe militare, del Presidente Ndandaye. Da lì a poco l'ecatombe. La protesta del Fro.de.bu e la reazione violentissima dell'esercito a maggioranza tutsi che creò un esodo importante di profughi dal Burundi al Rwanda. Questi si accamparono per lo più nella regione del Bughesera. Il nostro piccolo ospedale ortopedico era il luogo più vicino ai campi di rifugiati e fu subito coinvolto nelle operazioni di soccorso grazie alla capacità di produzione di acqua potabile. La tragedia portò più volte sia il console che il nunzio a Rilima. La Nunziatura Apostolica, infatti, stava tentando di evitare il peggio anche in Rwanda in quanto avere al confine 25 campi profughi con 300.000 sfollati e affamati di una sola etnia rappresentava un serbatoio di violenza inaudita. Le nunziature apostoliche in Africa, assieme alle ambasciate francesi, rappresentano il luogo fisico dove tentare le mediazioni e i conseguenti successi o fallimenti.

I due che per motivi di sicurezza viaggiavano ancor più spesso assieme non erano più interessati ai nostri progetti in ambito sanitario ma a prevenire un'ecatombe.

Un pomeriggio Costa sbottò e gli sfuggì una frase: “Qui rischiamo la guerra”! Non gli detti troppo peso ma da lì a poco appresi che il vicepresidente del Rwanda lanciò un appello a prendere le armi per eliminare il nemico che è in mezzo a noi. Il fiume Nyabalongo, nel frattempo, si tingeva di rosso e per la prima volta vidi persone crocifisse o decapitate galleggiare.

Costa continuò con le sue raccomandazioni. Che scatole. Ero giovane e la litania delle raccomandazioni mi stavano francamente annoiando però quest'ultima la seguii con attenzione in quanto, guidando io l'auto spesso in autonomia, mi riguardava. “Quando guidi verso la capitale ti troverai la strada sbarrata da banditi con una flebo in mano (dentro c'è sangue infetto da AIDS). Non devi in alcun modo decelerare ma accelerare come li volessi investire. Non preoccuparti. All'ultimo momento si scosteranno. Fidati”. Mi chiesi se mai sarei stato capace di un'azione del genere essendomi cimentato per decenni in letture di Gandhi e Luther King. Venne novembre e Caritas Rwanda diretta dal bravissimo Michael André mi chiese di abbandonare il progetto sanitario dove Paola era impegnata per dedicarmi al rifornimento di acqua potabile dei campi profughi gestiti da MSF (Medici Senza Frontiere). Lo feci dopo un confronto con il Console Costa che necessitava sempre più sapere dei nostri spostamenti. Lui acconsentì; anzi, lo auspicò.

Ad inizio 1994 ricevemmo la bellissima notizia che Paola e io stavamo per diventare genitori. Una gioia e una responsabilità visto dove abitavamo. Venne a farci visita sia la cugina che la mamma di Paola che, probabilmente, l'avrebbe voluta più a Trento che a Rilima. Passammo momenti sereni assieme sin tanto che arrivò il giorno del loro rientro in Italia. Metà febbraio 1994.

La sala operatoria era ormai a pieno regime, la palestra di fisioterapia anche e il rifornimento d'acqua potabile non conosceva sosta. Decidemmo di lasciare le chiavi ai nostri collaboratori locali per goderci qualche giorno in capitale prima del volo di ritorno dei parenti.

Il mattino eravamo carichi come la jeep. Meta Kigali, la capitale. Quando il guardiano Edoardo ci vide partire ci consigliò prudenza. Radio mille colline stava trasmettendo musica classica. Non capii. Attraversai il Nyabalongo e raggiunsi la strada asfaltata. Non c'erano né posti di blocco e né traffico. In lontananza un gruppo di miliziani occupano la carreggiata con la flebo di cui parlò il console Costa. Mi si raggelò il sangue ed ero pronto ad accelerare quando li vidi scomparire anzitempo. Dietro di me una camionetta di militari che si affiancò alla nostra jeep; un soldato, con un sorriso sornione, ci invitò a non passare per il centro storico. Prendemmo la circonvallazione o, meglio, qualcosa che gli assomigliasse, e vedemmo una jeep della Banca Mondiale ribaltata e alla rotonda successiva un pestaggio di un povero contadino “scarafaggio tutsi” da parte della polizia (così veniva chiamata la minoranza etnica). Immaginavamo di soggiornare dai Padri Bianchi - i primi missionari nella regione dei Grandi Laghi presenti già ad inizio '900 - che stanno ancora sotto la Cattedrale ma cambiammo programma: salesiani. Stavano infatti in periferia in un posto un po' più defilato. La casa dei volontari che sorgeva a fianco le officine e le falegnamerie ci ospitò per tre giorni. La città era in guerra e vi furono sole due persone che ci fecero visita: Guido Acquaroli, responsabile FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario) d'area e il Console Costa che ci avvisò che ci avrebbe accompagnato sotto scorta da lì a un paio di giorni sino all'aeroporto.

Il cibo iniziava a scarseggiare e il nervosismo tra i volontari a salire. La radio ci comunicò che un ministro è venuto a mancare. Il giorno dell'imbarco il console arrivò scortato dall'Onu. Una Jeep ben armata davanti e una dietro la sua Pajero. Montammo in fretta e ci spiegò che avremmo raggiunto l'aeroporto internazionale a velocità sostenuta in modo che i cecchini non possano colpirci. Arrivammo con le auto a luci spente in un quartiere spento. L'aereo decollò con le luci spente in una pista illuminata al minimo. Il magone di Ersilia (la mamma di Paola) di lasciarci in quel buio pesto.

La strada del ritorno. Costa rientrò presso la sua abitazione scortato con la seconda auto dell'UNAMIR (la Missione di assistenza delle Nazioni Unite per il Ruanda) mentre noi seguimmo la seconda auto dell'Onu. Le ultime raccomandazioni del console di bypassare il centro sono state puntualmente disattese dai ragazzi dell'Onu. Era fine giornata, erano stanchi e tentarono di raggiungere i salesiani passando proprio per il centro storico. Infelice decisione; ci trovammo in una città a ferro e fuoco. Ricordo copertoni bruciati e alberi abbattuti in mezzo alla strada. Persone con il machete a destra e a sinistra della carreggiata. “Tenetevi forte” diceva l'autista dell'auto che ci faceva sobbalzare ad ogni tronco. Gli assembramenti venivano diradati con qualche sparo in aria. Via radio ci informarono che non era il caso di proseguire ed era meglio riparare in un rifugio Onu a metà strada. Arrivammo in un magazzino nel retro di una villa privata. Il comandante ci invitò ad entrare ma Paola era troppo scossa e disse: “Scusate, ma io aspetto qui”. Il militare ribatté che con l'arrivo delle granate forse era meglio stare dentro il magazzino. Paola acconsentì. Cenammo con i Caschi Blu che non furono in grado di cucinare un piatto di spaghetti decente con i pelati versati sopra la pasta scotta e giù risate sulla cucina italiana. Mi colpì vedere miei coetanei già assuefatti al conflitto; il dopocena fu allietato da un filmato sui monti Virunga che furono abitati dalla zoologa Dian Fossey protettrice dei gorilla di montagna. Fuori si sentivano spari e urla. Passammo la serata con i Caschi Blu alcuno dei quali, purtroppo, sopravvisse il 7 aprile '94 con l'arrivo del genocidio. Furono incaricati alla protezione del Primo Ministro Agathe Uwilingiyimana.

Nottetempo il comandante ci svegliò con un “Forza ragazzi, si va a casa. Hanno trovato un accordo”. E così fu. All'alba le strade venivano liberate e i miliziani se ne tornavano a casa. Si poteva circolare come se nulla fosse accaduto. Radio mille colline riprese i suoi programmi e musica afro. A metà mattinata intravvidi il console al suo lavoro nell'emporio; dietro al bancone. Come se nulla fosse. Sapeva già tutto e sorrise. La notte prima avevamo attraversato assieme Beirut e Saigon. Abbiamo visto case incendiate e devastate e lui lì, ora, a vendere materiali per la ricostruzione. Per ricominciare.

Rifocillammo i salesiani con una spesa di alimentari e tornammo a Rilima; al nostro lavoro. Mai più in capitale sino a fine aprile 1994 quando lasciammo, nostro malgrado, il Rwanda. Venne l'esercito belga a portarci fuori dall'inferno previo accordo con il Ministro degli Esteri Nino Andreatta e, naturalmente, Pierantonio Costa. Mentre ci imbarcavamo sull'aereo tra il fuoco incrociato di FAR (Forze Armate Rwandesi) e FPR (Fronte Patriottico Rwandese) vedemmo il Console Costa ripartire per le strade sterrate in cerca di un paio di italiani “negazionisti” che non vollero iscriversi all'AIRE. Anche se disobbedienti... erano comunque nostri concittadini. Andavano in qualche modo recuperati.

Poi il ritorno di Pierantonio Costa in Italia e la Medaglia d'Oro da parte della Presidenza della Repubblica. Lui disse di aver fatto null'altro che il proprio dovere. A fine genocidio e ristabilita la pace se ne tornò dietro il bancone del suo ferramenta a Kigali. Al suo posto.