Nel 2012 Sylvie Guillem, una delle più grandi ballerine di tutti i tempi, in occasione del conferimento del Leone d’Oro alla carriera, ha raccontato di come ai suoi esordi la scelta di continuare a danzare fosse stata motivata non da quanto aveva visto in teatro ma, piuttosto, da quel “qualcosa” che, trovatasi per la prima volta su di un palcoscenico, aveva sentito. La differenza tra “vedere” e “sentire” non è un dettaglio da poco e può aiutarci a comprendere molto sul pregiudizio che nei secoli ha accompagnato l’arte coreutica.

Ha più di milleottocento anni il dialogo Sulla danza, non proprio celebre, dell’invece assai noto Luciano, autore greco del secondo secolo d.C. In esso, Licino, probabile alter ego letterario dello scrittore, mette tutta la sua passione retorica nel dissuadere Cratone, “colui che ha la meglio”, dal disprezzo della danza e per convincerlo ad accettarne l’assoluta e metafisica grandezza. Costui infatti si fa beffe di un’arte che a parer suo induce in chi la pratica “contorsioni effeminate” tipiche di “donnette innamorate”.

Non ci stupisce. La sagacia di Luciano coglie un dato fondamentale destinato a percorrere la storia occidentale con straordinaria tenacia, additando nel personaggio di Cratone, pur redento alla fine del dialogo, un atteggiamento mentale che da secoli declassa ad orpello l’arte tutta ed in particolare quella “muta” al linguaggio verbale.

Licino fa notare innanzitutto a Cratone che egli è probabilmente inesperto di ciò che tiene in tanto spregio e che il pervicace pregiudizio con cui sottovaluta la danza è stato probabilmente generato in lui dalla “doxa”, dall’opinione che penetra dal di fuori in chi non ha saggiato con la propria esperienza quanto si illude di conoscere.

La civiltà contemporanea ha il volto di Cratone. Continuiamo, ad esempio, ad usare impunemente il nome delle cariatidi per indicare donne attempate o non al passo con i tempi, solo per aver sovrastimato l’autorità di Vitruvio che le vuole schiave soggette al peso dei popoli sconfitti. In realtà, ci racconta Luciano - e non solo lui - le donne di Carie erano innanzitutto danzatrici, donne dedite al culto di Artemide Karyàtis, la dea dell’albero del noce, la kârýa.

Non ha grande rilevanza per le esegesi contemporanee più erudite, ma la stessa guerra di Troia, ci ricorda l’autore, fu vinta grazie a Pirro Neottolemo, l’inventore della danza armata con cui il guerriero chiuse i giochi uccidendo Priamo e il figlio di Ettore, Astianatte.

Scarsa importanza riveste oggi il fatto che Zeus danzasse tra gli dèi, egli stesso a sua volta salvato dalla danza dei Cureti, sacerdoti della madre Rea, che coprirono le sue urla per sottrarlo alla vista del padre Crono, il Tempo che tutto divora. Nelle austere biografie non ne resta traccia, ma il grande poeta tragico Sofocle si esibì in una danza nuda per celebrare la battaglia di Salamina. E tutto tace sulla fama dei Dioscuri che avevano dato il dono della danza proprio agli Spartani.

Non è un mistero infatti che sulle pagine che narrano la storia di Sparta campeggia oggi come protagonista assoluta la guerra, orfana del tutto ormai della sorella a cui anticamente si accompagnava. Gli spartani, ci dicono infatti le fonti, vincevano le battaglie proprio perché, accompagnati da ingegnosi strumenti musicali, le conducevano a passo di danza.

E infine, aggiungiamo noi, c’è Pallade Atena. Anzi solo Atena. Pallade, la compagna di giochi che è cresciuta con lei come una sorella, è stata accidentalmente uccisa proprio da Atena durante un combattimento. Ce lo racconta Apollodoro. E Platone ci spiega che Pallade viene da pállein, che significa non solo “sollevare in alto” sé stessi o gli altri, ma anche “danzare”. Atena infatti è la “danzatrice in armi”, già in azione dopo il parto difficile che l’ha estratta dalla testa di Zeus per incarnare l’intelligenza che si muove in modo sapiente. L’aver ucciso la compagna ha procurato in lei una tale contrizione da indurla a adottarne il nome come proprio. E di lei quello è quanto resta.

Nelle tante effigi della dea, nei suoi poderosi e imponenti simulacri, quello che noi possiamo oggi “vedere” è infatti solo Atena. La sua lunga lancia che ai piedi ha un serpente; l’egida con la testa di Medusa che serve a stornare i nemici insipienti; l’elmo crestato e la posa eretta di chi minaccia punizione imminente. Non c’è traccia di Pallade. L’Occidente post-pelasgico l’ha sommersa insieme al mito pre-ellenico di Eurinome, dea che trasse l’universo dalla danza, dando vita al rinomato Ofione, il serpente dell’origine; l’ha obliata insieme al ricordo delle danzatrici di Carie e ai “piedi” della difficile metrica greca che in principio replicavano il movimento di abilissimi ballerini, in quell’alba dei tempi in cui il Ritmo era il vero sovrano del Mediterraneo.

Il pensiero fissato in modo ossessivo sul verbo “vedere” ha perpetuato già nell’Occidente greco il pregiudizio di Cratone che, diversamente dalla chiusa di Luciano, nella storia della nostra civiltà “ha avuto la meglio”. L’attenzione sbilanciata dalla parte di questo globo che, come vuole la sua radice (Sol occidit), fa cadere il sole al di sotto dell’orizzonte, ha infatti programmaticamente diviso le contendenti, separato le sorelle, sciolto la lotta dalla danza distinguendo in divinità opposte quelle che all’alba del loro culto erano un’unica forza.

Noi oggi vediamo la statua di Atena e possiamo continuare a vederla per sempre, nei musei, nei teatri, sui libri, nelle piazze. Ne vediamo l’elmo, lo scudo, la lancia. Ma Pallade non c’è più. Ciò che vale per la danza, vale infatti per tutto ciò che più conta nell’esistenza umana. Il verbo vedere non basta. Serve sentire.