Senza poter affrontare in questo mio articolo temi cruciali di teologia, di diritto canonico e di storia della Chiesa, vorrei tentare di proporre alcune riflessioni che ci orientino non soltanto a meglio capire il tempo presente, ma anche alcuni basilari principi di ecclesiologia e di vita spirituale e religiosa. Come è noto Papa Francesco ha aperto la XVI Assemblea Generale del “Sinodo dei Vescovi” il 10 ottobre del 2021, sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione partecipazione e missione”. Dunque, non soltanto un Sinodo che rifletta sul sinodo, ma un Sinodo che promuova e rifletta sulla natura “sinodale” della Chiesa. Queste le tre tappe previste (con modalità e fasi inedite che coinvolgono tutti i cinque Continenti): la prima – che si svolgerà dal 17 ottobre 2021 all’aprile 2022 – riguarda le singole Chiese di tutte le Diocesi; la seconda – che riguarderà la fase continentale (dal settembre 2022 al marzo 2023) - concerne la discussione del testo del primo documento sinodale (c.d. “Instrumentum laboris”); infine, l’ultima fase – che è quella della Chiesa universale (ottobre 2023) – vede la celebrazione vera e propria del Sinodo dei Vescovi, che approverà un documento finale, cui farà seguito la fase attuativa che coinvolgerà nuovamente tutte le Diocesi del mondo. Va anche sottolineato come l’obiettivo della prima fase diocesana sia quello della più aperta consultazione del Popolo di Dio, affinché il processo sinodale si realizzi proprio nell’ascolto della totalità dei battezzati.

Prima di tutto occorre ricordare – più in generale - come, all’indomani del Concilio Vaticano II, i Padri conciliari desiderassero mantenere vivi i rapporti tra di loro, interpretando l’esigenza di vivere un maggior spirito di “collegialità episcopale” (per il quale ciascun vescovo non vive da solo nell’ambito della responsabilità della propria diocesi, ma esercita il suo ministero in piena comunione con il Papa e gli altri vescovi, in modo particolare quelli appartenenti alla propria “circoscrizione ecclesiastica”; in tal senso, il “vescovo non presiede la chiesa particolare che gli è stata affidata a titolo individuale ma in quanto membro del collegio episcopale, successore del collegio apostolico”, così Giorgio Feliciani, “Le basi del diritto canonico”, il Mulino 1979, pag. 93). A tale scopo Papa S. Paolo VI (con il “motu proprio” “Apostolica sollicitudo” del 15 settembre 1965) istituì il “Sinodo dei Vescovi” per la Chiesa universale. Nel documento citato il Papa chiarisce che “il Sinodo dei Vescovi, per il quale vescovi scelti nelle varie parti del mondo apportano al supremo pastore della Chiesa un aiuto più efficace, viene costituito in maniera tale che sia: una istituzione ecclesiastica centrale; rappresentante tutto l'Episcopato cattolico; perpetua per sua natura; quanto alla sua struttura, svolgente i suoi compiti in modo temporaneo ed occasionale”. Come ricorda, poi, Papa Francesco (nella Costituzione apostolica “Episcopalis communio” del 15 settembre 2018) il Sinodo costituisce “una delle più preziose eredità del Concilio Vaticano II...

Da allora in poi il Sinodo, nuovo nella sua istituzione ma antichissimo nella sua ispirazione - aggiunge il Papa - presta un’efficace collaborazione al Romano Pontefice, secondo i modi da lui stesso stabiliti, nelle questioni di maggiore importanza, quelle cioè che richiedono speciale scienza e prudenza per il bene di tutta la Chiesa”. Ricordo che il “Sinodo dei Vescovi” approva un documento finale (“ricercando nella misura del possibile l’unanimità morale”, così § 3 dell’art. 17 della Costit. Apost. “Episcopalis communio”) che deve essere offerto (come “parere consultivo”) al Pontefice, che decide della sua pubblicazione. Se viene approvato espressamente dal Papa, tale documento finale partecipa del Magistero ordinario (cioè dell’insegnamento ufficiale) del Successore di Pietro; a parte la possibilità (stabilita dal can. 343 del Codice di Diritto canonico) che il Romano Pontefice abbia concesso all’Assemblea del Sinodo “potestà deliberativa”, nel qual caso il documento finale partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro una volta da lui ratificato e promulgato, venendo infine pubblicato con la firma del Papa e dei Membri del Sinodo (§ 2, art. 18 della Costit. Apost. “Episcopalis communio”). Per completezza, aggiungo che il Collegio dei Vescovi – a norma del can. 337 – esercita in modo solenne la potestà sulla Chiesa universale nel Concilio ecumenico, nel quale i Vescovi hanno il diritto e il dovere di partecipare con “voto deliberativo” (ai sensi del can. 339), al di là della partecipazione di altri esperti e fedeli, e con l’ulteriore precisazione che deve esserci il voto concorde del Papa, ai sensi del can. 341, § 1 (un primo Concilio – di Gerusalemme – viene raccontato negli stessi Atti degli Apostoli, 15,1-35). Il Concilio però deve essere convocato dal Papa, il quale deve anche stabilire le questioni da trattare (can. 338). Sono anche previsti un Concilio della medesima Conferenza episcopale (che raggruppa i Vescovi di una Nazione); ed il Concilio provinciale, per le diverse Diocesi che formano la medesima provincia ecclesiastica (a norma dei cann. 439 e 440).

Occorre, infine, ricordare la lunga tradizione dei Sinodi diocesani (oltre ai “Consigli pastorali” parrocchiali e diocesani, a norma rispettivamente dei cann. 536 e 511) che, a norma del can. 460, è l’assemblea dei sacerdoti e degli altri fedeli della Chiesa diocesana, scelti per prestare aiuto al Vescovo in ordine al bene di tutta la comunità cristiana della diocesi (considerata come “porzione del Popolo di Dio, che è affidata alle cure pastorali del Vescovo coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore e da lui per mezzo del Vangelo e della Eucarestia unita nello Spirito Santo, costituisca una Chiesa particolare, nella quale è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, Una Santa, Cattolica e Apostolica”, così il decreto del Concilio Vaticano II “Christus Dominus”, del 28 ottobre 1965); con la precisazione – a norma del can. 466 – che nel Sinodo diocesano l’unico legislatore è il Vescovo, mentre tutti gli altri membri hanno “voto consultivo”.

Così sommariamente richiamata la disciplina ecclesiastica dell’attività specifica della “sinodalità ecclesiale” (articolata nelle varie strutture centrali e periferiche), bisogna riflettere un poco sul suo fondamento teologico. Prima di tutto – come ha affermato Papa Francesco nel discorso di apertura alla 73a Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana del 20 maggio 2019 - “anche il nuovo documento della Commissione teologica internazionale, sulla sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, afferma che la sinodalità, nel contesto ecclesiologico, indica lo specifico modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice”.

Ed ancora Papa Francesco (nel discorso al Consiglio nazionale dell’Azione Cattolica del 30 aprile 2021) precisa che “la sinodalità non è cercare una maggioranza, un accordo… Solo questo non è sinodalità; questo è un bel ‘parlamento cattolico’, va bene, ma non è sinodalità. Perché manca lo Spirito. Quello che fa che… la ricerca delle cose diventino sinodalità è la presenza dello Spirito: la preghiera, il silenzio, il discernimento di tutto quello che noi condividiamo. Non può esistere sinodalità senza lo Spirito senza la preghiera. Questo è molto importante”. A questo riguardo è esemplare quell’espressione famosa usata negli Atti degli Apostoli, che sottolinea l’incontro tra la libertà umana e la ricerca/ascolto dello Spirito di Dio: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi…” (Atti degli Apostoli, 15,28). Sempre Papa Francesco si è soffermato poi sui tre verbi del Sinodo: incontrare, ascoltare, discernere. E, riguardo al primo, ha indicato la necessità di prenderci del tempo per incontrare il Signore e favorire l’incontro tra di noi. “Un tempo per dare spazio alla preghiera, all’adorazione, a quello che lo Spirito vuole dire alla Chiesa; per rivolgersi al volto e alla parola dell’altro, incontrarci a tu per tu, lasciarci toccare dalle domande delle sorelle e dei fratelli, aiutarci affinché la diversità di carismi, vocazioni e ministeri ci arricchisca… E ogni incontro – lo sappiamo – richiede apertura, coraggio, disponibilità a lasciarsi interpellare dal volto e dalla storia dell’altro”.

Pertanto, una Chiesa sinodale (tenendo conto che la stessa parola “sinodo” etimologicamente vuol dire “essere in cammino”, “camminare insieme”) è una Chiesa dell’ascolto profondo di Dio e dell’altro, il quale (dal momento che lo Spirito, come il vento, soffia dove vuole, v. Giovanni 3,8) può suggerirci una ulteriore voce di comprensione della Parola di Dio. Ecco perché in virtù del Battesimo noi diventiamo “discepoli-missionari” (discepoli, perché tutti riceviamo la fede; missionari, perché tutti la dobbiamo trasmettere agli altri), chiamati a portare il Vangelo nel mondo; ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione... Perché – questo è il punto – “tutti nella Chiesa siamo discepoli, e lo siamo sempre, per tutta la vita; e tutti siamo missionari… Anche i Vescovi e il Papa devono essere discepoli, perché se non sono discepoli non fanno il bene, non possono essere missionari, non possono trasmettere la fede” (cfr. Esortazione apostolica “Evangelii gaudium” n. 120, del 24 novembre 2013 e Udienza Generale di Papa Francesco del 15 gennaio 2014). I principi di unità, collegialità e corresponsabilità rappresentano i poli dinamici della struttura costituzionale della Chiesa, e dal rapporto tra di loro deriva la concreta distribuzione delle potestà di governo (così Carlo Cardia, “Il governo della Chiesa”, il Mulino 1984, pag. 211). In realtà è come se tutto si giocasse nell’equilibrio e nella conciliazione tra il primato petrino (“Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”, Matteo 16,18), la responsabilità ecclesiale (“Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”, Matteo 10,40 e “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”, Giovanni 20,22), e l’umiltà filiale (“Non fatevi chiamare maestri, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli”, Matteo 23,8). Noi siamo tutti fratelli (uniti nel “corpo mistico” di Cristo, 1 Corinzi 12,12-31), e vivificati dall’amore di Dio (perché “Dio è amore”, 1 Lettera Giovanni 4,8), nella consolazione dello Spirito. Di certo, il fatto di essere stati creati da Dio a sua immagine – che per noi cristiani è un Dio unico ma trinitario – ci trasmette nel nostro “dna” una naturale (e ontologica) propensione alla vita di relazione (del resto, “Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme”, Salmo 132,1). Dobbiamo recuperare appieno il “noi” della fede (“Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”, Matteo 18,20), riflettendo sul fatto che “la nostra fede è veramente personale, solo se è anche comunitaria… Solo se è la nostra fede, la comune fede della Chiesa unica… La Chiesa è la Madre di tutti i credenti. Nessuno può dire di avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa come Madre. Quindi la fede nasce nella Chiesa, conduce ad essa e vive in essa” (Papa Benedetto XVI, Angelus del 28 ottobre 2012).

Richiamati questi essenziali punti sulle profonde radici della sinodalità (che diventa sinonimo di Chiesa), due sono i frequenti opposti rischi: quello del clericalismo e quello dell’autoreferenzialità. Sul primo punto, l’essere sacerdoti non deve essere il “fine”, ma il “mezzo” per aiutare gli altri nella fede, nella speranza e nella carità. Perciò vale l’esempio di San Giovanni Battista, che apre la strada a Cristo mettendosi poi da parte (“Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo… Egli deve crescere e io invece diminuire”, Giovanni 3,28-30). Per questo Madre Teresa di Calcutta ha detto che il cristiano deve diventare come un vetro pulitissimo, di perfetta trasparenza, in modo che si veda la luce di Cristo. Senza contare la raccomandazione evangelica di concepire il “potere” unicamente come “servizio” (“coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il loro potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore”, Marco 10,42-43).

Sul secondo punto (che potrei anche definire di “anarchia spirituale”), bisogna tener presente che nella fede non vale il “fai da te”, che riduce Dio nello spazio ristretto delle proprie convinzioni e desideri (così Papa Francesco nella Udienza Generale del 7 settembre 2016); occorre riconoscersi “in cammino” con gli altri e per gli altri, in una visione di Chiesa comunitaria e sacramentale nella quale dobbiamo continuamente crescere. “C’è chi ritiene di poter avere un rapporto personale, diretto, immediato con Gesù Cristo al di fuori della comunione e della mediazione della Chiesa. Sono tentazioni pericolose e dannose… Non siamo isolati e non siamo cristiani a titolo individuale, ognuno per conto proprio, no, la nostra identità cristiana è appartenenza! Siamo cristiani perché apparteniamo alla Chiesa”. (Papa Francesco, Udienza Generale del 25 giugno 2014). Infatti, “la Chiesa non è nata in laboratorio, non è nata improvvisamente. È fondata da Gesù ma è un popolo con una storia lunga alle spalle” (Papa Francesco, Udienza Generale del 18 giugno 2014). Ben sapendo tuttavia che “la Chiesa è un mistero, nel quale ciò che non si vede è più importante di ciò che si vede, e può essere riconosciuto solo con gli occhi della fede (Papa Francesco, Udienza Generale del 29 ottobre 2014).

Vorrei adesso proporre alcune considerazioni relative al “funzionamento” delle tipiche strutture sinodali sopra richiamate, per tentare di scorgere una via che ci permetta di vivere con maggior coerenza e utilità questi importanti organismi. In altre parole, vorrei passare dalla teologia al diritto, per valutare modalità più idonee per vivere appieno la sinodalità (premesso che la giuridicità nella Chiesa non è incompatibile con la sua profonda spiritualità, dal momento che – come magistralmente affermato dal Concilio Vaticano II, nella Costituzione “Lumen gentium” del 21 novembre 1964, n. 8 – va respinta qualunque separazione o contrapposizione tra aspetto “visibile”, “terrestre”, “sociale” della Chiesa ed aspetto “spirituale”, “celeste”, “personale”: essendo la Chiesa “una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino”).

Per questo motivo, pur condividendo perfettamente l’idea secondo cui è fondamentale l’ascolto reciproco che “mira a un consenso ecclesiale ampio, frutto di molte riformulazioni piuttosto che di frettolose votazioni”; non sono convinto (salvo negare la funzione del diritto, e in particolare di quello canonico) che sia necessario “uscire da una procedura in cui le decisioni sono semplice frutto della conta dei pareri favorevoli e contrari” (così Francesco Patton, La via sinodale – Potere, autorità e partecipazione, in “L’Osservatore Romano” del 5 marzo 2022, pag. 10). Pur capendo l’auspicio etico dell’Autore, ritengo di osservare che non sarà poetico, non sarà sufficientemente mistico (e teniamo anche conto che ci fu l’eresia dei “catari”, i quali – nel seguire la dottrina dualistica tra materia e spirito – propugnarono una impensabile Chiesa dei perfetti!), ma giuridicamente è indispensabile procedere ad una qualunque forma di votazione per registrare la volontà dei membri di un organismo collettivo.

Fatta questa premessa, non tanto a difesa del diritto - non necessaria, in quanto la giustizia è non soltanto una “virtù cardinale” ma esprime il volere stesso di Dio (“Di ogni cosa perfetta ho visto il limite, ma la tua legge non ha confini”, Salmo 118,96; mai disgiunta però dalla sua infinita misericordia: “Paziente e misericordioso è il Signore, lento all’ira e ricco di grazia. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature”, Salmo 144,8-9) – ma per una visione realistica della realtà umana, vorrei riprendere il discorso sulla funzione degli organismi ecclesiali. Come magistralmente affermato (in alcuni articoli e, da ultimo, nell’interessante libro-intervista “Sinodalità ecclesiale ‘a responsabilità limitata’ o dal consultivo al deliberativo?”, Libreria Editrice Vaticana 2021) dal Cardinale Francesco Coccopalmerio (insigne canonista, già Vescovo ausiliare di Milano e Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi), l’attività specifica della sinodalità ecclesiale in seno ai vari organismi è formata da due atti: uno di “intelligenza-conoscenza” (che consiste nel ricercare e quindi conoscere quale possa essere il bene della Chiesa; con l’avvertenza che, ricordiamo, la legge suprema nella Chiesa è la “salus animarum”, cann. 747 e 1752); e l’altro di “volontà-decisione” (che consiste nell’assumere la decisione per dare attuazione al predetto bene della Chiesa). Il passaggio dal primo atto (di intelligenza-conoscenza) al secondo (di volontà-decisione) può essere definito “percorso di deliberazione” (Coccopalmerio, op. cit., pagg.36-37). “L’identità specifica di tale attività sinodale dovrebbe essere la comunione tra pastori e fedeli: tuttavia, mentre nello “schema del consultivo” – che è quello vigente - i fedeli partecipano soltanto alla prima fase, relativa all’atto di conoscenza, ed il pastore, invece, compie sia questo primo atto di conoscenza che quello di decisione (quest’ultimo in solitudine, in quanto riceve i consigli - vale a dire il “parere consultivo” - dei fedeli e poi decide se accettarli o meno); al contrario, nello “schema del deliberativo” – che è quello auspicato - sia i fedeli che il pastore compiono insieme i due atti (il primo di conoscenza ed il secondo di decisione). “Ciascuna delle persone componenti la struttura di sinodalità, cioè precisamente ciascuno dei fedeli e il pastore, compie un atto di volontà e lo esprime attraverso un voto, così che dalla maggioranza dei voti si forma una volontà unitaria, la quale è precisamente la volontà dell’unico soggetto e quindi la decisione dello stesso” (Coccopalmerio, op. cit., pag. 40). Tuttavia, in considerazione del fatto che il pastore ha una “posizione superiore”, dal punto di vista gerarchico, a quella degli altri fedeli, “ha cioè la posizione di capo, dobbiamo logicamente affermare che il voto del pastore ha un valore superiore a quello del voto degli altri fedeli” (Coccopalmerio, op. cit., pagg. 40-41).

Pertanto, si prospetta questa soluzione: la decisione consiste sì nella maggioranza dei voti, “nella quale maggioranza, però, deve essere contenuto il voto concorde del pastore, da lui liberamente espresso nella sua qualità di capo”. Dunque, non esiste maggioranza senza il voto conforme del pastore (Coccopalmerio, op. cit., pag. 41). Si verificherebbe così una salutare “sinodalità a responsabilità piena”, e la struttura sinodale assumerebbe (secondo la felice intuizione del Cardinale Coccopalmerio) la qualificazione di “soggetto comunionale deliberante”, “nel quale pastore e fedeli insieme compiono l’attività di ricercare e quindi conoscere quale è il bene della Chiesa e sempre insieme arrivano ad assumere la decisione di dare attuazione al bene stesso” (Coccopalmerio, op. cit., pag. 63). Va sottolineato con chiarezza che questo “deliberativo ecclesiale” si differenzierebbe dal “deliberativo civilistico”, perché – affinché ci sia valida decisione del “soggetto comunionale” – non sarebbe sufficiente la maggioranza dei voti espressi, dovendo risultare l’ulteriore essenziale requisito che “nella maggioranza dei voti sia contenuto il voto concorde del pastore, da lui liberamente espresso nella sua qualità di capo” (Coccopalmerio, op. cit., pag. 78).

Così delineata questa auspicata “logica comunionale deliberativa” (mi permetto anche di rinviare ad un mio studio – data la scarsità di dottrina sul punto specifico – R.C. Delconte, “L’episcopato davanti alle sfide del governo pastorale – L’insostenibile leggerezza del potere spirituale”, in “Revista Iustitia” – Università di Pavia, n. 9, maggio 2021), che con maggior coerenza vuole meglio esprimere una più matura e partecipata sinodalità, va osservato che per la sua adozione si renderebbe necessaria una semplice (quanto epocale) modifica alla normativa canonistica (nei vari canoni dove viene previsto il mero “voto consultivo” dei membri, e con l’ulteriore previsione del necessario voto conforme del “capo” del “Collegio”, che potrà essere il Papa per il Sinodo dei Vescovi; il Vescovo per il Sinodo diocesano, per il Consiglio presbiterale e per il Consiglio pastorale diocesano; il Parroco per il Consiglio pastorale parrocchiale). Interessante, poi, notare che tale nuovo indirizzo ecclesiale sarebbe anche in linea con quanto suggerito nel Documento finale del “Sinodo sull’Amazzonia” del 26 ottobre 2019 dove, ad esempio, si parla “di partecipazione effettiva dei laici nel discernimento e nella presa di decisioni, potenziando la partecipazione delle donne” (n. 92); oppure di ampliare la partecipazione del laicato, “sia nella consultazione come nella presa di decisioni, nella vita e nella missione della Chiesa” (n. 94). Inoltre, vi sarebbero altri due argomenti a favore di tale cambiamento segnalati dal Cardinale Coccopalmerio (op. cit. pagg. 74-76). Il primo, si basa sull’interpretazione ampia dell’espressione “manifestare ai pastori il loro pensiero” (dal confronto del can. 212, § 3 con il testo di “Lumen gentium” n. 37,1), che coprirebbe sia il dovere e il diritto dei fedeli di offrire ai pastori i loro consigli, e sia la facoltà di esprimere con i pastori i loro voti. Il secondo, consiste nell’assumere come “modello” la disciplina relativa alla decisione del Concilio ecumenico, la quale consiste “nella maggioranza dei voti la quale deve contenere il voto concorde del Papa, da lui liberamente espresso nella sua qualità di Capo, cfr. can. 341, § 1” (Coccopalmerio, op. cit., pag. 67).

Concludendo queste mie note (spero non troppo disordinate, anche per la vastità e complessità della materia), vorrei soffermarmi su due possibili obiezioni relative alla “ricaduta pratica” (o, per meglio dire, pastorale) dello “schema deliberativo”. Questo il problema: cosa cambierebbe qualora un parroco – recependo il consiglio ricevuto – decidesse di assumerlo, rispetto all’ipotesi di una votazione a maggioranza con anche il suo voto favorevole? (dal momento che il risultato positivo parrebbe uguale). Oppure cosa cambierebbe se lo stesso parroco non recepisse i consigli offerti dai fedeli, oppure non esprimesse il proprio voto a favore dell’indirizzo espresso dalla maggioranza del Consiglio? (dal momento che anche qui il risultato sarebbe comunque negativo). Io ritengo ci sia comunque una significativa differenza.

Nel primo caso (positivo) il modello suggerito (a responsabilità piena) aumenterebbe il senso di corresponsabilità di tutti i membri e sicuramente garantirebbe meglio la successiva esecuzione della decisione presa (con minori possibilità di fraintendimenti, rinvii, reciproche inattività e scarsa collaborazione tra pastori e fedeli).

Nel secondo (negativo), il voto isolato del parroco dovrebbe spingerlo ad ulteriori verifiche del proprio pensiero, mentre i laici – che comunque hanno potuto esprimere il loro pensiero attraverso un “voto ufficiale” – dovrebbero sentirsi ancora coinvolti, riconosciuti e valorizzati nelle loro capacità e non demoralizzati nel continuare la loro attività. In ogni caso, compito del diritto canonico non è quello di agevolare la spartizione di un potere, né quello di ridurre a semplice procedura operativa l’ecclesiologia di comunione, ma quello di favorire ed educare tutti ad una efficace e reale “corresponsabilità”, come unica via per una profonda e feconda sinodalità, evitando che si affermino principi in modo evanescente perché non incarnati in concrete opportunità di vita, individuale e sociale (non sottovalutando la nobile funzione del diritto, né forzandone la sua portata).

Se poi è vero che il sessanta per cento delle parrocchie non ha il Consiglio pastorale, non è un modo serio di promuovere la partecipazione dei laici quello di invitarli a riunioni per ratificare decisioni già prese; dimenticando che il Papa per primo “non sta da solo, al di sopra della Chiesa, ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il Collegio episcopale come vescovo tra i vescovi, chiamato al contempo – come successore dell’apostolo Pietro – a guidare le Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese” (v. Lorenzo Baldisseri, “Il quid, il quis e il quomodo della sinodalità”, in “L’Osservatore Romano” del 23 febbraio 2020, pag. 7). Di certo, il pastore (come suggerisce Coccopalmerio, op. cit., pag. 85) dovrebbe evitare di far conoscere, all’inizio della discussione, il proprio intendimento ed ascoltare attentamente le varie proposte che emergono; sapendo, poi, che tali proposte verranno formalizzate in un voto finale (e non in un semplice consiglio) questo dovrebbe spingere naturalmente tutti ad un maggior impegno personale e ad una maggior attenzione alle opinioni altrui, da qualunque parte provengano; perché – come indica la Regola di San Benedetto – bisogna consultare tutta la comunità, in quanto spesso “è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore” (cit. da Francesco Patton, op. cit.).