Il mio rapporto con l’ascensore – quella comodissima scatola per spostamenti verticali (che prende modernamente le mosse dalla “sedia volante” in legno realizzata, attorno al 1845, nella Reggia di Caserta, e prima ancora in quella di Versailles) – risale alla mia infanzia, quando abitavo al sesto e ultimo piano di un alto palazzo. A quel tempo non avevo paura di rimanere bloccato all’interno dell’abitacolo, sia per la spensieratezza dell’età, sia per il fatto che il nostro appartamento era vicinissimo alla cabina del motore, da cui avevo seguito alcune tranquille operazioni di salvataggio e sia perché normalmente entravo nell’ascensore con mamma o papà.

Un particolare ricordo legato all’uso di quel mio primo ascensore - molto nitido e vivo - risale esattamente alla tarda mattinata del 6 giugno 1968 quando, tornando da scuola, ormai giunto all’ultimo piano, mia mamma mi annunciò la notizia dell’attentato mortale di Robert Kennedy. Al di là dell’importanza dell’evento – di cui io, a quell’età, non ero certo in grado di valutarne la portata storica – mi è rimasto impresso nella memoria questo annuncio di mia madre: forse più gelosamente custodito proprio per la particolare ristrettezza dello spazio in cui è avvenuta la comunicazione.

L’amato pittore Michele Mainoli (1927-1991) ha saputo costruire – proprio sulle ridotte dimensioni spaziali dell’ascensore – una significativa opera (L’ascensore, olio su tavola, 1958) sul problema del dialogo tra uomo e donna. Nell’angusto spazio di quella cabina – dipinta con soffuse sfumature di tonalità marrone e giocata, fin dalle dimensioni della tavola, su una decisa verticalità ascensionale – si trovano un uomo e una donna nudi, posti uno accanto all’altra. L’estrema vicinanza dei corpi, nello spazio breve – seppur nella rapidità del “viaggio” – costringe i due ad una comunicazione più diretta e immediata (senza filtri e “protezioni” culturali e sociali). Tuttavia, a ben guardare (dal momento che le due figure non sfruttano nemmeno il poco spazio disponibile e si collocano, in modo ravvicinatissimo, nella sola parte destra del dipinto), la coppia ritratta sembra approfittare di quell’occasione per una breve e intensa intimità, richiamata dall’incrociarsi dei loro sguardi. L’ascensore diventa allora un luogo segreto per iniziare a ritrovarsi: partendo dalla sensualità dei corpi per salire fino all’intimità dell’anima.

Sempre sul filo della memoria, il ricordo più piacevole e prezioso della mia infanzia - in tema di ascensori - è quello legato al palazzo di Pegli, dove abitavano le mie due carissime zie Anna ed Elma (sorelle di mio padre). Il ricordo di quelle bellissime giornate al mare, vissute in un clima di straordinaria ospitalità e serenità, è per me un tesoro inestimabile.

Se socchiudo gli occhi risento ancora quel particolare odore che respiravo negli atri delle scale condominali, molto ordinate e ben conservate. I profumi che si condensavano erano quelli del legno pulito delle ringhiere, dei marmi lucidati delle scale e di quel mix di tenui e gradevolissimi sapori di cucina ligure che, di lì a poco, avrei ritrovato anch’io nella amata cucina della zia Anna (per me incantevole luogo di gioco). L’ascensore delle zie era di gusto tipicamente genovese: con le porte interne di legno, lo specchio grande ed una particolare atmosfera accogliente. Del resto, i liguri sono maestri nello sfruttare lo spazio, e nel rendere dei locali anche piccoli molto belli e confortevoli.

Di certo quell’amato ascensore non mi faceva salire soltanto alla casa delle zie; ma mi portava – ed ancora oggi mi porta col pensiero – ad un incantevole luogo dell’anima!