Uomini con tanto di cappello seduti in fila su comode poltrone leggono il giornale mentre la metropolitana - o l'autobus - li accompagna al lavoro. Una donna nel fiore degli anni, capelli corti, trucco evidente, orecchini, collier e scollatura, aspetta di attraversare la strada davanti alla biblioteca pubblica di New York ad un'ora qualsiasi di un giorno qualsiasi. Un'anziana signora con cappellino nero, guanti bianchi, spilla ed occhiali sembra ferma ad un semaforo pedonale in mezzo ai grattacieli di Chicago, visibilmente stizzita di fronte all'obiettivo fotografico. Incuriosito, invece, il vecchio con cravatta su colletto sbottonato e pantaloni ascellari tenuti da qualche bretella. Divertite le bambine, forse in posa davanti a un muro scalcinato.

Eccoli, sono loro i personaggi di un teatro fin troppo vero, che ci arrivano dai marciapiedi di New York e Chicago dopo un viaggio durato oltre cinquant'anni, da un mondo senza computer e senza telefonini, quando le sirene e i rumori assordanti delle strade sembravano gli araldi della nuova civiltà. Certamente non sono soli. Con loro troviamo altre migliaia di attori senza scrittura per uno spettacolo che parla di emarginazione dentro quell'America 'invincibile' che regalava a tutti l'utopia del benessere. Strana sorte per chi vive una vita ordinaria ai margini della società ritrovarsi adesso al Museo del Lussemburgo, in pieno centro di Parigi, con centinaia di visitatori in fila per guardarli, conoscerli, studiarli. E ancora più strano è che l'apparecchio fotografico che li ha immortalati a loro insaputa fosse appeso al collo di una donna, quando la nuova tecnica delle immagini era in realtà appannaggio di soli uomini. Lei, la temeraria reporter senza giornale, in realtà è imponderabile. Decisa, ma anche discreta; rude e insieme timida, capace di puntare sfrontatamente la sua Rolleiflex in faccia agli sconosciuti e nello stesso tempo nascondersi dietro la sua stessa ombra in autoritratti singolari, in cui afferma la sua presenza, purché non disturbi troppo.

Lei è Vivian Maier, letteralmente sconosciuta fino a dieci anni fa e oggi assunta a pieno titolo nell'Olimpo della fotografia. Una grande mostra al Museo del Lussemburgo ce la mostra nella completezza della sua opera, ci racconta una storia che comincia all'inizio degli anni Cinquanta a New York e termina alla fine degli anni Ottanta a Chicago, passando dai gesti, ai ritratti e agli autoritratti e ancora dalle foto in bianco e nero a quelle a colori, fino ad approdare ad un vero e proprio linguaggio cinematografico. “Penso che tutte queste immagini funzionino insieme”, spiega Anne Morin, curatrice dell'esposizione. “C'è un'unità, un tessuto, una storia, quella di uno sguardo che ha attraversato la seconda metà del secolo. È uno sguardo estremamente preciso, rapido, esperto, agile, degno dei più grandi fotografi del XX secolo”.

Certo, tutto è strano in questa storia. Anche perché Vivian, per vivere, non faceva la fotografa, ma la bambinaia. Nessun fidanzato, nemmeno un amico, ma quando era libera setacciava i marciapiedi delle grandi città in cui viveva e, prima con la Rolleiflex, poi con la Leica, “rubava” sguardi, gesti, situazioni, fissando momenti che passano inosservati, che durano appena il tempo di uno scatto e poi scompaiono nel fluire quotidiano. Una sorta di ossessione, la sua, quasi un motivo di sopravvivenza quella continua “fame” di volti, segni e persone. Sono più di 120.000 le foto che ci sono arrivate, oltre alle pellicole e ai giornali che collezionava meticolosamente. Eppure, a nessuno mostrava quelle immagini. Non solo: nessuno sapeva cosa facesse e dove andasse quando prendeva il treno da Highland Park, sulla riva Nord del lago Michigan, a Chicago, dove ha vissuto per oltre dieci anni come nanny dei tre figli della famiglia Gensburg. Per loro, per la famiglia Gensburg, che ne apprezzava la cultura, la vivacità e l'inventiva, Vivian era un po' come Mary Poppins. Altri, invece, notavano di più gli aspetti introversi del suo carattere, certe sue durezze, che la rendevano quanto di meno somigliante ci possa essere con l'amena signora Poppins. Intervistati al momento della scoperta delle numerose casse contenenti pellicole, alcuni che, pur non conoscendola, l'avevano vista spesso passeggiare nei quartieri operai scattando foto, hanno detto di aver pensato che fosse una spia.

La verità è che Vivian Maier aveva alle spalle una triste storia. Abbandonata dal padre, saltuari rapporti con la madre, conclusi definitivamente in giovane età, probabilmente mai andata a scuola, un fratello maggiore, Carl, che divideva la sua esistenza tra la galera e l'ospedale psichiatrico. È una storia di cui lei non vuol parlare, che addirittura nasconde abilmente e che dunque la rende fredda e poco loquace con tutti. Nella Rolleiflex aveva trovato finalmente un amico e con le fotografie guardava la vita e colmava il suo vuoto affettivo riempiendolo di segni umani. Non ci sono dubbi sulla sua vicinanza al mondo dei poveri e degli emarginati. I bambini sporchi che giocano sui marciapiedi, i vecchi che si addormentano sulle panchine, quelle mani che da sole raccontano storie di vita dolorosa dimostrano la sua empatia verso gli ultimi, di cui lei stessa sapeva di far parte. Ma volentieri si sposta anche nel territorio contrario, quello dei ricchi, della moda e del benessere. E alla malinconia velata sostituisce l'ironia divertita. Come quando fotografa i cappellini o le capigliature elaborate di sofisticate lady.

“Però non sono sicura che si possa parlare di malinconia”, sottolinea la curatrice della mostra, Anne Morin. “Io penso che Vivian Maier fronteggi una realtà, quella di una società a due velocità, una società con una polarizzazione ben marcata, agli antipodi una dall'altra. Lei documenta l'opposto del decoro, la faccia nascosta del sogno americano, la zona nera di un mondo emergente che brilla fino all'eccesso. È un documento sulla classe sociale degli invisibili, ma non credo che lei si impietosisca sulla loro sorte. Lei li guarda e li fa esistere”. Di sicuro, comunque, la Maier non si lascia trasportare dai sentimentalismi e sono rare le immagini in cui ritrae qualche affettuosità. Non fa sconti, Vivian, neanche a se stessa. I suoi molti autoritratti restano sicuramente la parte più enigmatica della sua opera in cui delega la sua immagine alle vetrine, alle ombre, ai riflessi e agli specchi, senza mai farsi dire che è bella.

L'epilogo della sua vita non è migliore della parte iniziale. A partire dalla metà degli anni Ottanta non trova più lavoro come bambinaia e cade in povertà. Non ha soldi per dedicarsi alla fotografia, non ha casa, ma solo decine di casse piene di pellicole e pile di ritagli di giornale che finisce col collocare in un box, per cui paga un affitto. Dopo qualche anno, i tre fratelli Gensburg, John, Lane e Matthew, di cui si era occupata per 11 anni, la rintracciano e le offrono una sistemazione dignitosa. Nel 2007 cade e batte la testa. Non si riprenderà mai completamente e muore nel più completo anonimato il 21 aprile 2009 in una casa di riposo a Chicago.

Questa è la storia. Ma il destino è cinico e baro e qualche volta riserva sorprese. Nel 2007 il contenuto del box è venduto all'asta per mancato pagamento dell’affitto. Lo compra per 380 dollari un giovane agente immobiliare, John Maloof, alla ricerca di notizie sul quartiere per cui si apprestava a scrivere un libro. Si trova davanti a una miniera di informazioni misteriose. Cerca di scoprire l'autore di quelle immagini, ma il solo nome che trova è quello di Vivian Smith, con cui erano firmate le ricevute del pagamento di alcune stampe. Nessuno a Chicago risponde a questo nome. Il mistero si scioglie quando John Maloof si imbatte nel necrologio che i tre fratelli Gensburg avevano pubblicato nell'aprile 2009 parlando di una certa Vivian Maier come di una “fotografa straordinaria” e “critica cinematografica”.

Così, il giorno dopo la sua morte, lei comincia un'altra vita. Le sue immagini stanno facendo il giro del mondo, il suo nome è scritto a chiare lettere nella storia della fotografia, la sua “avventura” è ormai un'icona nel mondo amatoriale. Lo dimostrano le lunghe code al museo del Lussemburgo, che offre i suoi spazi solo ai grandi dell'arte e della storia. Se qualcuno si domanda come si fa a restare vivi anche dopo la morte, lei è un fulgido esempio. Forse per caso, ma c'è riuscita. Nonostante tutto.