Negli articoli precedenti pubblicati su Wall Street International Magazine, i quali costituiscono ormai veri e propri capitoli di un lungo saggio sui generis concernente il piacere di leggere e scrivere libri di narrativa, ci siamo chiesti perché si scrivano storie e perché si leggano storie e per quale ragione io personalmente, proprio io che sto scrivendo queste parole, le legga e le scriva, tali storie, e riguardo quest’ultima domanda c’è una questione assai gravosa che pende implacabile su pressoché tutti coloro che leggono e scrivono opere di finzione narrativa ovvero: perché scrivere storie se queste storie, le tue storie, arriveranno a pochissimo pubblico?

Intanto, come lettore accanito, mi verrebbe subito da rispondere che ho sempre letto libri di autori poco conosciuti o non conosciutissimi. Anzi, uno degli autori che ho citato più spesso all’interno di questi articoli è Jack Higgins, un maestro del genere thriller certamente insuperabile e altrettanto certamente non conosciuto come altri autori pur molto, molto bravi. Altro autore che sto compulsivamente leggendo è il grande autore tedesco Heinz G. Konsalik (un vero colosso delle bancarelle che vendono libri di seconda mano), anch’egli non particolarmente noto se non ai maestri del thriller (mi pare di poter dire che qualcosa di piuttosto consistente Tom Clancy debba a Heinz G. Konsalik). E poi, tanti altri. La quasi totalità degli autori italiani, ad esempio. Molti scrivono cose interessanti – enormemente interessanti – ma sono pochissimo letti. Insomma generalizzando potremmo dire che il lettore scafato non si cura certo del successo di un libro. Anzi, i libri di successo spesso, e scopriamo l’acqua calda nel dirlo ma lo diciamo lo stesso, non sono nemmeno questo granché. Certo, scrivere non è leggere. Ci vuole tempo, dedizione, imparare, come si dice, l’arte o il mestiere. Allora perché farlo? Si è davvero tanto stupidi da non rendersi conto che ciò che pubblicheremo arriverà a pochissimi lettori e finirà in un soffio al macero? Si è appassionati al proprio ego fino a questo punto? Domande che bruciano sulla pelle come ferro rovente.

C’è un presupposto teorico al quale aggrapparsi per non cascare rovinosamente al suolo. Il destinatario ideale. Qualsiasi scritto si rivolge a un pubblico modello, un pubblico ideale, che non esiste in carne e ossa, un pubblico che, sempre teoricamente parlando, apprezzerebbe ogni capitolo, ogni paragrafo, ogni parola e persino ogni sillaba del nostro scritto. Noi, noi tutti scriviamo per questo pubblico ideale. Il romanziere di maggior successo al mondo che ci possa venire in mente quando parla, non parla ai lettori in carne e ossa, quelli che hanno acquistato il biglietto, hanno fatto lunghi viaggi e hanno preso posto in una seggiola in un angolo della platea talora vedendo e non vedendo e magari anche sentendo e non sentendo per via del sistema di amplificazione microfonica poco funzionante il loro beniamino. No. Non parla a costoro. Se davvero lo facesse, se parlasse al pubblico presente in sala, il romanziere di maggior successo al mondo in questione dovrebbe conoscere uno per uno i suoi lettori: informarsi prima presso le biglietterie, raccogliere i nomi e fare delle ricerche, prepararsi un dossier su ognuno e studiarselo. Mettiamo centocinquanta dossier, quando non trecento o cinquecento dossier. Dopodiché, dovrebbe preparare discorsi provvisti di un repertorio di esempi che riguardino tutte queste persone, esempi di fatti personali atti ad attivare immediatamente, a turno, l’attenzione di ciascun spettatore.

Dunque si tratterebbe di scrivere e magari mandare a memoria interventi chilometrici della durata di quattro, cinque, nove ore. Tutto cose a dir poco impraticabili. Perciò, è assolutamente falso l’autore che dica “Mi rivolgo al mio pubblico. Amo il mio pubblico. Conosco il mio pubblico”. Non può essere. Non è così. Il pubblico del romanziere di maggior successo al mondo, nonostante tutta la strada fatta, la scomodità dei viaggi affrontati, nonostante l’amore per quell’autore, viene scavalcato da un pubblico ideale eternamente plaudente, eternamente sorridente, eternamente in accordo con ogni parola e persino anche ogni singola sillaba pronunciata dal romanziere di maggior successo al mondo.

Se vi pare che questa sia un’immagine un po’ tirata per i capelli, un’invenzione, una visione esagerata delle cose grondante fiele e vetriolo, basta cercare un esempio nei programmi televisivi dove il pubblico viene pagato. I programmi televisivi si rivolgono solo a un pubblico ideale. Un pubblico che capisca la bellezza di una ruota che gira ed esce il dolce o la pastasciutta e c’è la musichetta e gli applausi e tutti sorridono e si vogliono bene. Questo mondo ideale ha delle ricadute su quello empirico-sperimentale (è interessante, e indicativo in modo inquietante, che “empirico” e “sperimentale” siano parole usate come sinonimi da alcuni filosofi) convincendoli a fare la cosa che sono lì per fare: non tanto dare o negare il consenso (del consenso del pubblico empirico il mondo idealizzante televisivo se ne spazzola: basti vedere ciò che accade in politica, dove i volti politici più noti all’interno del circuito mediatico, anche se trombati alle elezioni, non escono manco per un istante dal circuito mediatico stesso, come se il voto dei cittadini non fosse assolutamente tenuto in nessunissima considerazione), quanto uscire di casa e tirare fuori i soldi dal borsellino per diventare un po’ meno ricchi di prima in base al principio: la mia ricchezza finisce dove comincia quella dell’altro e se quello dell’altro non comincia mai, e pazienza!, la mia non finirà mai, avrà tutto lo spazio del mondo! Parole dure, ma che descrivono purtroppo uno stato di cose reale, empirico: descrivono quel grande terreno di coltura sperimentale che è la realtà, che siamo noi.

Ma sulla consistenza di questo pubblico ideale abbiamo altri esempi. Ad esempio, quando siamo noi a scrivere un libro, il nostro libro sarà pur scritto anch’esso per un pubblico ideale, ma poi chi lo giudica è una persona vera e reale, un editore, per dirne una, o un agente, per dirne un’altra, e se questa persona non apprezza ciò che abbiamo scritto, ci sentiamo in diritto di credere che sia quella persona ad essersi sbagliata, quella persona a non capire, quella data persona empirica a non possedere i requisiti necessari a sedersi nella vasta platea del pubblico ideale al quale la nostra opera è destinata. In poche parole, la presenza di un pubblico ideale nella nostra testa può essere segno di superbia, presunzione; fermo restando che in taluni casi, rari, può esserci qualcosa di vero, nell’atteggiamento testé illustrato. D’altra parte, il fantasma incombente rappresentato dal pubblico ideale è così bravo a far avvertire la sua presenza, è dotato di così grande consistenza, benché di fatto ideale, inesistente, da farsi avvertire anche dagli esperti più navigati, e anzi sembra manifestarsi presso costoro con ancora maggior intensità che negli altri.

Pensiamo alle scuole di scrittura creativa. Non tutte chiaramente. Pensiamo a quelle scuole dove gli insegnanti (scrittori a loro volta) insegano a scrivere narrativa. Danno un’impostazione. Poi, però, questa impostazione si trasforma a poco a poco in una visione, una visione del mondo, una sorta di filosofia del modo più onesto, corretto e nuovo di raccontare storie. Poi, questa visione del mondo si trasforma a poco a poco in un diktat. Ci sono cose che si possono fare e cose che non si possono fare. Ci sono cose nuove e ci cose vecchie. Usi propri e usi stantii. Perciò, per farla breve, bisogna imparare a selezionare. Ebbene, a un certo momento, si arriva al seguente paradosso: il pubblico ideale s’impossessa dell’insegnante di scrittura creativa e si manifesta attraverso di lui. L’insegnante di scrittura creativa è l’incarnazione del pubblico ideale dei suoi stessi insegnamenti creando questa allarmante situazione: vi insegno cose non per compiacere voi, ma affinché siate voi a compiacere me (e il pubblico ideale che incarno) con ciò che avete appreso da me. Paradosso peraltro che riguarda la quasi totalità delle scuole e che porta alla costruzione non di allievi ma di sudditi, distinzione spesso dai labili confini.

Gli allievi imparano a parlare come il loro insegnante affinché l’insegnate possa apprezzarli, tollerarli, persino. E questo meccanismo paradossale è così vero che gli allievi delle scuole di scrittura creativa, una volta formati, pubblicano per le case editrici che appoggiano la scuola di scrittura stessa o addirittura per le collane di narrativa direttamente dirette dall’insegnante stesso. Vi insegno a scrivere i libri come piace a me e poi ve li pubblico nella collana di libri che piace a me. Ma attenzione! Non “a me”. Un insegante di scrittura creativa non direbbe mai “a me” o se lo dice lo fa per provocare o perché ha un esaurimento nervoso galoppante che lo sto traghettando verso un sicuro stato di follia. Direbbe, ciò che è “onesto, bello, necessario”. Ciò che soddisfa, insomma, il pubblico ideale al quale quest’idea di narrativa di qualità è destinata, e chi se ne importa, se le case editrici rifiutano le opere scritte sulla base di quest’idea di narrativa di qualità, chi se ne importa se i lettori non leggono queste opere scritte sulla base di quest’idea di narrativa di qualità, e così via.

Tutto questo in fondo altro non è che una forma latente di idolatria.

Prima di tutti non viene Gesù, come direbbe il prete alla domenica, o un buon cristiano. No, viene il pubblico ideale modellato sull’insieme dei miei gusti personali e dei miei personali capricci. Un fantasma proiettivo grande come una casa. Perciò, questa faccenda del pericolo dell’idolatria è sempre dietro l’angolo, sempre! E non è una speciosa faccenduola tirata in ballo da un uomo la bellezza di duemila primavere orsono prima di finire inchiodato su un paio di assi una messa verticale e l’altra orizzontale.

C’è un idolo al centro della nostra anima di scrittori. Un’idea divorante. Una parte del nostro animo che cerchiamo di appagare scrivendo. Se fai le cose per bene, questo pubblico ideale, questo Moloch affamato, è sorridente e plaudente, tende le braccia verso di te. Se non lo soddisferai, non è solo che non arriverai alla vera felicità. Quando si parla di demoni, e idoli, non c’è la felicità in ballo. C’è il rischio invece di finire tra mille tormenti. Pensiamo agli scrittori che pur di affermarsi scrivono il manuale sui gatti… Il Moloch al centro della loro anima dev’essere là ad agitarsi e a dibattere urlante. “Mi vendicherò! Un giorno mi vendicherò! Se non mi darai ciò che ti chiedo, mangerò tutto di te! Tutto!”. Mette i brividi solo pensarci, il casino che deve esserci nell’anima di uomo piegato ai compromessi.

Sì, l’idolo al centro dell’anima degli scrittori è il pubblico ideale. Un pubblico plaudente e sorridente, ma del cui plauso e del cui sorriso a un certo punto non puoi più fare a meno. Senza il quale non puoi più vivere. Un pubblico che ti costringe a essere maniacale nelle ricerche. A essere lenticolare nella selezione delle parole. Ossessivo nella cura dei dettagli. Per soddisfare il tuo pubblico ideale. Per vederlo sorridere, tenderti le braccia. Joyce. Proust. Kafka. Lovecraft. Poe. Solo alcuni esempi di scrittori che hanno servito questo idolo. E se un giorno smettessi di far girare la ruota facendola terminare sul dolce o sulla pastasciutta, se un giorno dicessi bel bello al tuo pubblico ideale in sala: “Oggi niente ruota… Si risolvono rebus!”, quel pubblico plaudente e sorridente potrebbe sentirsi tradito. Potrebbe tramutare il sorriso in una smorfia di rabbia. L’applauso in un gesto preannunciante lotta. Potrebbe scavalcare le recinzioni, gli assistenti in studio, Big Hero 6… e a qual punto… a quel punto… chi sarebbe il pranzo servito?