Quando avevo sette anni, un caro amico di famiglia, esperto rocciatore, mi descriveva questo luogo con toni entusiastici, lasciandomi alquanto impressionato; va detto che con me trovava un terreno fertile, parlando di fortezze con un bambino abituato a scorrazzare col suo babbo o amichetti vari tra le batterie tripliciste sparpagliate intorno ai valichi del Ponente Ligure. In quel caso però c'era qualcosa di più: c'erano le alte quote alpine, ben diverse da quelle, che so, del Colle del Giovo, e c'erano storie di guerra davvero impressionanti.

C’è quindi poco da stupirsi se, durante il confinamento della primavera 2020, c’è stato tutto il tempo perché quei racconti mi tornassero in mente, tanto da ripromettermi di andare lassù non appena fossero venute meno le varie restrizioni; a fine agosto 2020 il primo tentativo, con tutti gli errori del caso: la levataccia mattutina, la macchinata diretta Genova-Claviere, l'inizio della salita a un'ora già calda, per non parlare del pregresso di 3 mesi di quasi immobilità; manco a dirlo, a un certo punto ho dovuto fare dietrofront, sia per stanchezza sia per eccessivo ritardo nella tabella di marcia.

“Tutta esperienza” si dirà, e in buona parte è vero: se non altro, ho avuto modo di apprezzare un validissimo agriturismo in zona che mi sarebbe tornato utile per il tentativo successivo.

Ed eccomi infatti nuovamente là, a fine luglio 2021. Pernottamento a Sansicario, partenza di buon mattino, 1400 metri di dislivello coperti senza fretta in cinque ore abbondanti e infine, nel primo pomeriggio, il raggiungimento della meta: quota 3130, batteria “Monte Chaberton”. Decisamente più rapido è stato il rientro, vuoi perché è tutto in discesa, vuoi per il rombo di un temporale in avvicinamento, vuoi per la gradita compagnia di tre nuovi compagni di viaggio che, rimasti ultimi a scendere insieme a me e constatata la mia discutibile familiarità col trekking, hanno pensato bene di scortarmi a valle insieme ai loro scattanti cagnoloni Aramis e Masha.

Prima di rientrare comunque c'è stato tutto il tempo per camminare nella neve accanto a quegli otto cilindroni bizzarri, immaginare il tracciato della teleferica dalla stazione di arrivo, ammirare la complessità di quella che più che una difesa terrestre, sembra una corazzata arenatasi su una vetta alpina.

Frutto dell'inventiva del maggiore del genio Luigi Pollari Maglietta, lo Chaberton per decenni fu lo spauracchio degli abitanti di Briançon. Costruita a partire dal 1898 in posizione dominante rispetto a tutti i porti francesi nel settore del Monginevro, questa batteria era concepita come “opera autonoma ad azione lontana”, ovvero doveva colpire bersagli ben al di là del confine e garantire l'operatività anche in condizioni avverse, scenario tutt'altro che improbabile data la notevole altitudine: il risultato fu un presidio dotato di un'ampia scorta di munizioni e di viveri, collegato al fondo valle sia tramite strada sia con una spericolata teleferica, e armato con 8 cannoni Armstrong da 149/35 alloggiati in casematte girevoli che, per non finire sepolte dalla neve, erano posizionate su torrioni cilindrici, il tutto al riparo di uno spalto naturale ricavato sagomando opportunamente la vetta.

Intorno al 1908 la batteria era pressoché completa, gettando nello scompiglio le difese francesi, tutte poste a quota inferiore e sprovviste di artiglieria a tiro curvo di gittata sufficiente a bersagliarla: il cambio di alleanza dell'Italia tra il ‘14 e il ‘15 ebbe quindi un che di provvidenziale.

Privato dei grossi calibri perché richiesti sul fronte orientale, lo Chaberton venne riarmato negli anni Venti, periodo in cui fu ipotizzato il suo radicale ammodernamento tramite la realizzazione di opere in caverna in cui ricollocare i cannoni da 149, idea poi accantonata sia per ristrettezze economiche sia per sottovalutazione del rischio. L’aura di invulnerabilità della batteria celebrata come “forte più alto d’Europa” persino dalle guide turistiche, era ancora integra seppure ormai anacronistica: già dal 1914 infatti la Francia disponeva di obici in grado di colpirla, i colossali mortai d'assedio Schneider da 280 mm, e nel 1937 aveva elaborato un piano per neutralizzare la batteria qualora se ne fosse presentata l'occasione.

Cosa che accadde nello sciagurato giugno 1940, allorché a Roma un sedicente condottiero ansioso di accodarsi a un successo altrui optò per l'infamia di pugnalare alla schiena uno Stato già moribondo: undici giorni dopo la dichiarazione di guerra, mentre le divisioni Assietta e Sforzesca tentavano invano di aprirsi una strada verso Briançon, quattro Schneider posizionati presso il Fort de l'Infernet inquadrarono lo Chaberton e nell’arco di un pomeriggio, con strabiliante precisione, ne distrussero ben sei torri. Le due superstiti avrebbero continuato a sparare rabbiosamente fino all’armistizio del 24 giugno, mentre il conteggio delle perdite della batteria risultava in 10 morti e 50 feriti su una guarnigione di 150, in aggiunta ai 1200 fra morti e dispersi, 2500 feriti e 2100 congelati registrati dal Regio Esercito in appena sette giorni di ostilità effettive sulle Alpi Occidentali.

Una settimana di guerra e il cialtronesco pressapochismo dei vertici politico-militari italiani era già sotto gli occhi di tutti. E non era che l’inizio del disastro.