Niccolò Fabi, cantautore italiano, è uno di quegli artisti contemporanei che varrebbe davvero la pena di studiare nelle scuole. I suoi testi sono poesia che accarezza l’anima nella forma, ma la penetra nel contenuto. Con la delicatezza che lo contraddistingue, tanto nelle parole quanto nella musica, riesce a toccare svariate tematiche di attualità, sociali e intime al tempo stesso. Prenderò spunto da una delle sue canzoni per una riflessione metalinguistica. La riporto qui di seguito per il godimento del lettore:

Una strada di terra che inizia ai confini del niente
E il mio tutto che ancora si ostina a cercare una via
I pensieri che più della sabbia mi bruciano gli occhi
Questi occhi che ancora ringraziano di essere qui
E la notte qui è notte davvero, è la madre del buio
Ed il nero è soltanto un colore della realtà.

Così un uomo sa sedici modi per dire verde
Ed un altro ne ha uno soltanto per dire addio
L'immondizia non è solamente quella che si vede
Essere bianco non è esattamente essere candido
E gli uomini perdono tempo perché ne hanno
E le donne sopportano i pesi meglio di me
E tutti camminano sempre ma poi per dove
Tanto un albero è come un ombrello se piove.

Un viaggio regala a ognuno la sua storia
Io sono convinto che mi salverò
Così come ogni ritorno ha la sua gloria
Un altro cerchio che si chiuderà
Una strada di terra che inizia ai confini del niente
E il mio tutto che ancora si ostina a cercare una via,
A cercare una via, a cercare una via.

(Niccolò Fabi, Sedici modi di dire verde, dall’album Ecco del 2012)

L’uomo a cui fa riferimento il testo è un abitante dell’Amazzonia, è immerso nel verde della foresta pluviale e per la sua vita è utile, se non essenziale, che conosca sedici parole diverse per distinguere sedici sfumature di quel colore che per un'altra persona di un’altra parte del mondo sarebbe semplicemente verde.

Qualcuno potrebbe obiettare appellandosi al verde pisello, bottiglia, smeraldo… ma non è lo stesso. In questo caso si tratta locuzioni, insiemi di più parole (tra cui ‘verde’), e non di singole parole diverse tra loro.

Una parola è da intendere come un segno linguistico, dotato di un significante, ossia la sua esecuzione fonica o grafica (ciò che si pronuncia o si scrive), e di un significato, cioè il concetto a cui esso rinvia. Sono entrambe dimensioni mentali, psichiche, mentre l’oggetto fisico della realtà a cui la parola fa riferimento per denominarlo è detto referente.

Il padre della linguistica generale, Ferdinand de Saussure (1857-1913), introdusse la nozione imprescindibile di arbitrarietà del segno linguistico, resa ancora più radicale dagli apporti del linguista danese Hjelmslev. Tra il significante e il significato c’è un’arbitrarietà verticale: non esiste alcuna motivazione intrinseca alla base del loro legame all’interno di una parola. Così la sequenza sole non ha nulla in sé che rimandi alle caratteristiche dell’idea del “sole”. Ragione per cui lingue diverse associano allo stesso significato significanti diversi (sun, soleil, sol, etc.).

Un po' più complessa è l’arbitrarietà orizzontale, che esiste nel contesto di uno stesso sistema linguistico: nella massa informe di tutti i significanti e i significati possibili al mondo, ogni lingua ritaglia, plasma arbitrariamente quelli pertinenti alla propria cultura, includendo all’interno di uno stesso segno anche più significati ed escludendone altri in maniera del tutto convenzionale. Ogni sistema linguistico ha un suo modo di organizzare la realtà in virtù di criteri propri di classificazione dell’esperienza. Ciò rende conto dell’impossibilità (e della non validità) di una traduzione parola per parola, non essendoci perfetta coincidenza tra i segni linguistici di due lingue diverse. Persino parole riferite allo stesso referente possono non essere del tutto coincidenti, corrispondendo a campi semantici più o meno ristretti a seconda della lingua in questione.

Tralasciando i tecnicismi, molti di noi si saranno già imbattuti in alcune parole straniere alquanto sfiziose che consentono di condensare concetti intraducibili in italiano se non attraverso intere frasi, per raggiungere lo stesso livello di esaustività espressiva. Sarà capitato a tutti di “sentire le farfalle nello stomaco” almeno una volta nella vita. In tagalog per esprimere questo sentimento basta un kilig. A quanti di noi è poi capitato di ridere a un jayus (indonesiano, “barzelletta non divertente ma che fa ridere per il modo in cui è raccontata”)? Per non parlare delle volte in cui ci siamo trattenuti per un sobremesa (spagnolo), “una conversazione a tavola dopo aver terminato il pasto”. L’elenco sarebbe interminabile. C’è però una parola a cui tengo particolarmente e che potrebbe riassumere lo spirito di questo articolo: Weltanschauung, dal tedesco, “concezione della vita, dell’esistenza” o ancora “visione del mondo e del ruolo che l’uomo ricopre nella realtà”.

Per chiudere il cerchio, la canzone presentata in apertura raccontava di un viaggio, un viaggio salvifico per l’autore nella sua esperienza particolare e per l’uomo in generale. La salvezza consiste nel liberarsi dall’assolutismo ignorante del proprio io, del proprio punto di vista, per conoscere e riconoscere l’esistenza di prospettive diverse con uguale dignità, molte più di sedici, almeno tante quante sono le persone esistenti sulla faccia della Terra.