Mio nonno Alberto mi aveva raccontato che a suo fratello maggiore Ugo piaceva scrivere e che alla sua morte avvenuta in tenera età, a undici anni, la mamma Elena aveva trascritto tutti i suoi temi, in bella calligrafia, in un quaderno. Dati i molti cambi di città di tutti i componenti della famiglia Berti, se ne era persa traccia.

Quest’estate l’ho trovato nella casa in Toscana e ho letto i suoi scritti tutto in un fiato. Questo mi ha particolarmente colpito.

Un mazzo di fiori di Ugo Berti (Firenze 20 marzo 1882 – 27 luglio 1893)

Quella mattina, nell’ampio salotto di mia zia, si notava un insolito movimento, si vedeva un gran numero di parenti e di amici e un continuo affaccendarsi di tutti. Mia cugina Berta si era maritata ed ora, avvolta nella sua bianca veste, seduta presso il marito, accoglieva gli auguri e le felicitazioni.

Sulla tavola sontuosamente apprestata, insieme ai cristalli e al vasellame, si scorgevano ceste di fiori olezzanti e magnifici mazzi, ma uno primeggiava su tutti per la bellezza, per l’arte e per il buon gusto con cui era stato preparato. Lo sosteneva un elegante porta fiori, a forma di cornucopia, di vimini intrecciati.

Un gruppo di fiori d’arancio circondati dalle verdi e lucide foglie scure formava la sommità del mazzo, le ciocche di vainiglia con il piccolo leggiadro fiorellino erano mezzo nascoste fra il bianco dei mughetti ma il soave e delicato profumo tradiva la loro presenza.

Le rose facevano sfoggio della loro corolla, dai più smaglianti colori, alle più delicate sfumature, alcune di esse erano completamente fiorite, altre sempre raccolte nel grazioso bocciolo, che semi aperto, lasciava appena vedere le delicate foglioline del fiore.

I giacinti, dal soave profumo, dalle tinte sì pallide, fra il bianco, il celeste e il porporino si ergevano sul lungo fusto mostrandosi al disopra degli altri fiori. Qua e là qualche tulipano dai brillanti colori, vero campione del regno di Flora, risaltava fra le molte gradazioni del verde delle foglie. Ammirando il bel fiore, ricordava quanto fosse tenuto in pregio presso i Fiamminghi e gli Olandesi, con grande amore coltivato e qual prezzo favoloso alcuni di essi avessero speso per acquistare una sola pianta di questa specie.

Varie orchidee erano confuse con altri fiori, tutte di forme svariate e singolari, vidi fra esse la pantofola di Venere, così chiamata per la somiglianza perfetta ad una elegante scarpina.

A temperare i variati colori dei fiori c’era il dittamo che mandava un odore gratissimo. Le sue tenere foglioline ricoperte di bianca e sottile lanugine davano sollievo all’occhio abbagliato da quella vivacità di tinte.

Guardando l’insieme di quel mazzo lo trovavo differente dagli altri, scorgevo in esso qualcosa di più gentile specialmente vedendo con quanta profusione fossero sparse qua e là le molte ciocche di myosotis o non ti scordar di me.

Mi sembrava che quei graziosi fiorellini celesti dovessero parlare nel loro gentile linguaggio di chi li donava. Berta come se in quel momento avesse indovinato il mio pensiero avvicinandosi alla cestina che li conteneva mi disse: “Questi fiori sono della mia più cara amica, colti nel suo giardino da sé stessa e legati con tanto buon gusto".

A quelle parole tornai a guardare il mazzo e non fui più meravigliato di vedere frammischiata ai tanti fiori rari dei giardini, l’umile ma pur leggiadra pianticella dei boschi, l’azzurro fiorellino non ti scordar di me.