Psicoanalista, saggista, insegnante di canto, dedica particolare attenzione alle nuove forme dei legami familiari, al femminile, alla questione della voce e del fare arte. È rappresentante italiana di associazioni psicoanalitiche europee: Fondation Européenne de la Psychanalyse; CRIVA-Centre Recherche International Voix Analyse; Lapsus de Toledo.

È nel comitato scientifico e docente della Società Italiana di Musicoterapia Psicoanalitica e ne dirige la sezione milanese. È autrice di diverse pubblicazioni, tra cui Troppa famiglia fa male, Adolescenza Zero, A nuda voce, Voci smarrite.

La voce abita sia il canto che la "talking cure", le due passioni della sua vita. Come è sorta questa curiosità?

Si ha sempre il desiderio di far dialogare le proprie passioni e mi sembrava che le analogie che trovavo tra una seduta analitica e una sessione in cui si lavora il suono soggettivo di ciascuno, non fossero solo una mia fantasia. Quando lavoro sulla voce di una persona, ciò che io e l’altro cerchiamo è il suono personale e unico, quello diverso da tutti gli altri. A volte si tratta di un lavoro archeologico che disincrosta dalle modalità imitative che affliggono il mondo del canto, per far scintillare il timbro unico di ciascuno. Ogni voce è una sedimentazione della storia del soggetto - ed è questo che interessa - che si trova dopo aver liberato il suono dalle mode del momento. Freud era un appassionato di archeologia e questa metafora psicoanalitica vale anche per scoperta della propria voce.

Alcuni psicoanalisti hanno scritto sull'ascolto, sulla musica, riferendosi alla relazione psicoanalitica, ma lei anche canta. Questa è la grande differenza.

A un certo punto, con l’orecchio del canto, ho realizzato che la voce in seduta può incorrere in eventi perturbatori del suono che, ascolto dopo ascolto, si presentavano quando la voce stava per rivelare qualcosa di intimo ed essenziale. Increspature, corrugamenti, inflessioni tonali, tossettine senza motivo organico si producono, all’interno di un transfert, annunciando qualcosa, il più delle volte un piccolo lampo di verità, una scoperta che sta per arrivare a rischiarare in maniera inedita un punto della storia personale del soggetto. Inoltre, va detto che la prosodia vocale degli analizzanti cambia nel tempo del lavoro analitico. Persone che erano voci urlanti, oppure voci senza suono, ritrovano una voce umanizzata: una voce che hanno e non più che sono.

Cosa vuol dire praticare musicoterapia psicoanalitica?

Significa utilizzare tecniche soggettive anche nel campo della musicoterapia, preparare un operatore non a ragionare per schemi di disturbi ma a focalizzarsi sull’unicità del soggetto che avranno di fronte. Nei nostri corsi di musicoterapia psicoanalitica - che tengo insieme ad Adriano Primadei, invitando anche musicisti che riflettono e scrivono sul loro lavoro come, ad esempio, Arrigo Cappelletti - si impara a leggere l’esercizio vocale e musicale del paziente anche attraverso la conoscenza delle dinamiche psichiche più profonde. Non si tratta di dare interpretazioni, ma di sviluppare la possibilità di interagire con la modalità musicale e vocale del paziente in un modo piú preciso ed efficace, secondo percorsi solo a lui dedicati, in quanto ognuno porta la propria unicità dentro un sintomo che può essere comune anche ad altri. Inoltre la dimensione del transfert, soprattutto quando c’è di mezzo voce e musica, diventa ancora più importante: essenziale dunque per un operatore conoscere le dinamiche transferali, i suoi vantaggi e le sue difficoltà.

È cruciale lavorare anche sulla tolleranza al silenzio, che non é mai un buco vuoto, ma luogo di scambio profondo. La voce sfugge sempre, è attraversata da pulsionalità e accidenti a volte indesiderati. Questo statuto incerto della voce è però prezioso nei percorsi vocali con effetti terapeutici perché rivela ciò che non può essere detto. E questo sia che si tratti di un paziente che potrebbe dire, sia di uno che ha difficoltà a dire, come nelle disabilità intellettive, nell’autismo, nelle psicosi e nei disturbi di personalità.

Quale relazione tra voce e inconscio?

Sul campo ho verificato quanto la voce umana non sia un semplice sostegno alla significazione della parola o al piacere del canto: la voce è l’inconscio perché per entrambi si mette in gioco il campo della verità, non quella assoluta, ma quella che tollera la non completa accessibilità e quel tratto enigmatico che è anche il suo punto di luce. Nessuna voce è veramente familiare, nemmeno la propria. Ogni voce è bifronte: sappiamo che è la nostra, la riconosciamo, ma contemporaneamente reca in sé qualcosa di perturbante che ce la rende anche un po’ estranea. E, inoltre, sulla voce non abbiamo il controllo che vorremmo.

La voce ha una qualità abissale: non si sa mai bene da dove venga, da quali intimità sorga, né con che tipo di suono si manifesterà. È inafferrabile, enigmatica e, come tutti i misteri, invoca e interpella da una posizione d’ombra.

Ha svolto un lavoro sulla voce di coppie che aspettano un bambino al San Paolo. Ce ne può parlare?

Innanzitutto, tengo a dire che è stato un progetto nato grazie alla primaria di ginecologia, la prof.ssa Anna Maria Marconi, in collaborazione con la neuropsicologa infantile dott.ssa Anna Vandoni. Coinvolgeva coppie di futuri genitori perché le voci del padre e della madre non hanno uguale funzione. Gli esercizi con la voce proposti nel laboratorio avevano la finalità di creare un legame vocale tra genitori e bambino e, proprio in ragione delle individualità di ciascuna coppia, attraverso esercizi guidati di creatività vocale ed invenzione di un testo musicale, i genitori potevano creare, in quella dimensione di connessione profonda, una canzone che poi avrebbe potuto essere utilizzata anche dopo la nascita. Le testimonianze in follow up hanno mostrato che quei prodotti musicali potevano rasserenare il piccolo, spesso meglio di qualunque altro metodo.

C'è una grande differenza tra voce maschile e voce femminile, tra voce di mamma e voce di papà... Quale risonanza nel corpo-mente del neonato?

Le voci dei genitori con le loro modulazioni significanti, inseriscono il bambino in un ordine affettivo e di linguaggio, fondato sulla tonalità e l’accento del gruppo culturale di cui i genitori fanno parte. La famiglia è cultura già in utero. Le voci dei genitori vengono registrate dal nascituro insieme alle tonalità affettive di ciascuno dei due timbri. La voce della madre (o di chiunque ne svolga la funzione) a contatto con il piccolo, produce il "mammanese", ovvero il “dialetto delle madri”, quella che Lacan chiama con un neologismo lalangue (lalingua) ossia quel ricamo di lallazioni, ecolalie, glossolalie, che ha la sua enfasi, il suo colmo, nel puro gioco suono vocalico che genera un intenso piacere dell’organo buccale. Questo piacere d'organo costituisce una sorta di "fase vocale" del bambino (6 mesi - 2 anni, situata tra la fase orale e la fase anale). Qui, il piccolo impara a cantare la propria lingua.

La voce del padre (o di chiunque ne svolga la funzione), più bassa e consonantica, presiede al valore ritmico, consonantico della parola, quello scheletro essenziale, di tenuta della parola, che la fa stare in piedi: qui nasce la lingua pubblica, quella che il bambino userà anche per gli scambi col mondo, per farsi capire da tutti, non solo dalla madre. La voce maschile è portatrice dei bassi, dunque in valore di sostegno. Chiunque suoni sa che il basso è il ground di ogni melodia (i cantanti avveduti spesso vogliono il basso vicino). Il ritmo, la scansione, la misura e il basso offrono alla dimensione della creazione, l’incontro tra suono (che fa parte del registro reale, materico) con il ritmo, che inserisce il livello simbolico del tempo. L’intervento della funzione paterna, del tempo, della scansione del suono, segna l’epifania del linguaggio. Con il linguaggio il mondo si apre: dalla culla alla comunità, dal seno al suono significante.

E così se la voce della madre è il suono dell'origine, col suo potere risorgivo nelle difficoltà, la voce del padre potrà essere la musica del mondo. Cosa succede, allora, nell’incontro tra suono materno e ritmo paterno? Si capisce bene, suono+ritmo fanno musica. La funzione paterna inserisce una "misura" soggettiva nella lingua materna, separando e rilanciando i suoni, così come il desiderio del padre per la sua donna separa la diade madre-bambino e rilancia, così, la progettualità a tre della famiglia. La voce del padre col suo ritmo indica il confine, il limite.

Secondo lei la voce tiene più in vita del latte.

Il gesto vocale è strutturalmente legame con l’Altro, a partire dal primo grido del cucciolo d’uomo indirizzato all’Altro della cura. La capacità della voce di invocare è già relazione e possibilità di salvezza... se l’Altro risponde. Ricordiamo la leggenda storica che narra di un esperimento che fece Federico II, uomo d'arte e di scienza, che, volendo cercare la lingua fondamentale dell’uomo, isolò acusticamente alcuni neonati: le balie avevano la consegna di nutrirli adeguatamente e tenerli puliti ma senza emettere suono. I neonati morirono tutti perché la voce è vita.

Sostiene che la voce sia la prima sublimazione, il primo moto creativo. Quale relazione allora tra voce e arte?

La voce, con la sua matericità immateriale, è stata per me un formidabile veicolo per parlare di quel complesso processo psichico, la sublimazione, che ci fa umani. I giochi vocalici con cui il bambino si tiene compagnia si ritrovano, ad esempio, nello scat jazzistico che recupera un’esperienza primitiva dandole statuto artistico.

La voce è impastata di emozione, le parole possono mentire, la voce no. In una relazione come e quanto si gioca la voce? Che parte ha?

Le racconto una storia, quella di Kandinskij che solo ascoltando la voce di Nina von Andreevskij, ancora prima di vederla e di incontrarla, dipinge per lei l’acquarello intitolato In omaggio ad una voce sconosciuta. Infatti, la giovane aristocratica russa un giorno telefona al già celebre maestro: ella desiderava mettere in contatto Kandinskij e un amico, un mercante d’arte che voleva allestire una mostra del pittore. Secondo il desiderio di Kandinskij, sorpreso dalla voce di Nina, i due s’incontrarono da lì a qualche mese e si sposarono poco dopo. Benché fosse - in quanto pittore – un “visivo”, si innamorò “a prima voce”.

In molte fiabe la voce e la perdita della voce assumono un'importanza straordinaria. Direi che la voce o la non voce diventano i protagonisti della storia. Penso alla Sirenetta di Andersen o ai Sei Cigni dei fratelli Grimm dove l'impossibilità di parlare crea il dramma, ma anche l'enigma, il mistero, la problematicità che colora di tensione e di grande emozione la narrazione.

Perdere la voce è, nelle fiabe, un segno di espiazione per ottenere un miracolo o lo scongiuro di un incantesimo e mette in scena la non padronanza di ciascuno rispetto alla propria voce. Perdere la voce è un’angoscia che ha attraversato almeno una volta ogni cantante, ogni attore, ogni doppiatore, ogni oratore perché la perdita è strutturale nella voce: esistendo solo in quanto emessa, ci disillude presto circa l’esserne veramente padroni. La voce è un oggetto non sempre disponibile al soggetto a cui “appartiene”, con i classici abbassamenti vocali che si fanno sentire magari poco prima di andare in scena.

Per statuto direi ontologico, l’artista sta come un funambolo in bilico sulla linea che unisce e separa l’essere e l’avere una voce: l’incompleta padronanza la rende più emozionante.

In questo tempo di pandemia la voce ha spesso creato il tessuto principale su cui appoggiarsi per mantenere i contatti sociali. Le relazioni a distanza erano mantenute vive dalla voce... E le sedute di psicoanalisi?

Alle normali resistenze di un soggetto in analisi - ma a volte anche dell’analista - in epoca pandemica si è aggiunta la resistenza al mezzo informatico. È vero che la presenza fisica di due corpi in seduta è cruciale, ma la psicanalisi insegna a tenere conto delle condizioni e dei limiti che la realtà impone e piuttosto che l’assenza completa dell’analista, si sono potute sperimentare varie forme di “presenza”, talvolta aprendo un varco tra i pregiudizi che non sono sempre e solo ascrivibili al campo degli analizzanti. Inoltre non va dimenticato che la voce è corpo, è limite tra psichico e somatico, ed è così cruciale che, anche in presenza dei corpi dell’analista e del paziente, con il lettino si sospende la visione dell’altro, per evitare le insidie della relazione duale diretta. Sono la parola e la voce a disegnare il setting. In conclusione, se un analista ha desiderato fare le sedute a distanza, il transfert era salvo. Non tutti i pazienti sono uguali e alcuni hanno potuto dire molto più cose intime che in presenza.

Un tempo si diceva che "due si parlano" per intendere che avevano una relazione amorosa... i detti popolari colgono acutamente il significato del vivere umano.

La parola è veicolo d’amore e gli innamorati sperimentano un gesto che non porta mai simbiosi o aderenza completa: c’è bisogno di parlare - ancora, ancora, e ancora - per provare a intendersi o per accordarsi. Con ciò si testimonia che la parola è anche equivoco che ha bisogno di sempre nuovi chiarimenti, in ciò scongiurando - dono del linguaggio - che essa possa portare a un’adesività senza mediazione all’altro.

"La voce appartiene a chi ascolta" sento questa sua affermazione emotivamente molto potente, la sento vibrare forte nel corpo che fa come da cassa armonica...e mi fa tuffare in Roland Barthes quando parla del significato del dono.

È un dono perché è anche una perdita. Chi ascolta ridona senso a quella perdita, offre alla voce una nuova dignità. La dignità del timbro blu.

Nei suoi libri parla di "timbro blu". Che cosa significa? Come si manifesta e come si gioca nell'usuale corso del vivere?

Ho chiamato "timbro blu" la qualità soggettiva della voce dell'altro che colpisce infallibilmente in un luogo intimo del soggetto in ascolto. Per ognuno, anche la stessa voce, è una voce diversa che attiva zone dell'inconscio inaccessibili. La voce di Nina per Kandinskji è stata un “timbro blu”: in analogia alla nota blu di Chopin è qualcosa di sospeso e preciso, la cattura che può cogliere un soggetto in ascolto, come accadde a Delacroix nei confronti del compositore polacco.

Un'altra sua affermazione forte è che la voce è femmina. Cosa intende?

Le labbra vocali hanno una morfologia che ricorda il sesso femminile e hanno la stessa invisibilità: non solo la voce, aria che vibra, non è visibile, ma l’organo stesso che produce il suono è nascosto alla vista, così come l’apparato sessuale femminile. La voce proviene da dentro, risuona in cavità non visibili, richiede un ascolto interno anche solo per essere correttamente emessa: dare la voce è atto pensabile al femminile. Dice Demetrio Stratos: “…riconosco di avere in me e di coltivarla, una forte componente femminile. La esprimo soprattutto attraverso il suono originale, cioè la voce.”

La balbuzie, la afonia, la disfonia: cosa succede alla voce? Quale inciampo, perdita, confusione? E che dire della voce dei castrati?

La voce dei castrati, più che la femminilizzazione della voce, secondo me rappresenta la voce-bambina, quella in cui il muscolo cordale non si è sviluppato per effetto della castrazione che ha bloccato il processo ormonale. Balbuzie, afonia, disfonia sono inciampi della voce che rivelano qualcosa della nostra storia nascosta, spesso hanno relazione con perturbazioni nell’equilibrio del peso delle figure parentali, in cui c’è un genitore prevalente o francamente dispotico sull’altro.

La voce può curare? E può essere curata?

Dalle cattive abitudini, certamente. Ma occorre non distorcerla per conformarla alle mode del momento che è la grande malattia della voce usata come mezzo di successo.

Un suo libro si intitola Voci smarrite. Come si possono smarrire le voci? Smarrire significa anche perdere di colore.

Ci sono molti modi in cui una voce si smarrisce perché ci sono molti modi in cui un soggetto tradisce il proprio desiderio…

La voce e i colori...

Kandinskij era interessato all’affinità tra il colore e il timbro e apprezzava anche il lavoro di Skrjabin che individuava le seguenti coppie: do=rosso, sol=arancione, re=giallo, la=verde, mi e si = bianco azzurro o blu luna, fa#=blu vivo, do#=viola, lab=porpora, mib e sib = grigio acciaio, fa=rosso bruno. Kandinskij pensava agli strumenti musicali ma lavorare su questo schema dal punto di vista vocale è molto interessante.

Quale voce ha Milano? E di che colore?

Amo Milano, ci sono nata e vissuta. È la città che mi ha regalato gli incontri più importanti ed emozionanti della mia vita. È il mio timbro blu.