-È la stessa differenza che passa tra sentire la descrizione di un’emozione e vivere quell’emozione.
-Sì, come mettersi al posto dei rickshaw wala!
-Esatto, pensa che vita che fanno, cosa c’è dietro di loro. Le loro famiglie, i loro capi…
-Chi sono i rickshaw wala?
-Quelli che guidano i rickshaw.
-E cos’hanno di particolare?
-Eh, come faccio a spiegartelo?
-Vabbè, provaci.
-Guarda, non te la prendere, ma è impossibile.
-Dai Alberto, non fare lo scemo!
-Non faccio lo scemo, non posso spiegartelo. A lei, che c’è stata e li conosce, basta che dica “rickshaw wala” e sa perfettamente di cosa parlo, ma con te che non sei mai stato in India e non ne hai mai visto uno, anche se stessi un’ora a spiegarti chi sono e come vivono, non riusciresti comunque a capire.
-Ma va a quel paese!

Me ne andai da casa di Carla arrabbiato, frustrato. Che stupido Alberto, non ci aveva nemmeno provato a farmi capire chi sono queste persone e come vivono. Veramente uno stupido. “Tu non sei mai stato in India e non capiresti”. Che cavolo vuol dire? Proprio un bell’amico!

E aveva assolutamente ragione.

Lo capii quando, l’anno seguente, in India ci andai con lui e Mario; era l’86, se non ricordo male. Capii il mondo che c’è dietro un rickshaw wala, capii la fatica che fa tutti i giorni e quanto poco, in compenso, guadagna. Quanto è vessato dalla mafia che gestisce i rickshaw wala. Capii che per lui casa è il suo rickshaw o al massimo un cubicolo fatto di cartone e lamiere di due metri per due, dove l’aspetta una moglie che lava i due o tre piatti di metallo di cui dispone nella fognatura a cielo aperto che passa dietro casa, mentre allatta il loro ultimo figlio e il loro primogenito, di forse quattro anni, tiene in braccio la sorellina di due. Capii che quello che ho erroneamente descritto come il “suo” rickshaw non è e non sarà mai suo, sia perché non avrà mai i soldi per comprarselo, ma soprattutto perché il suo padrone non glielo permetterebbe mai, altrimenti perderebbe una delle sue fonti di reddito. Vidi che, di solito, i rickshaw wala sono persone magrissime, anziane, che per portare due persone sul loro triciclo devono spostare tutto il loro peso alternativamente da un pedale all’altro, altrimenti non riuscirebbero a trascinare tutto quel carico per le strade sterrate dell’India, dando così vita ad una danza cadenzata e monotona. Vidi che è vestito del suo longhi e, al massimo di una canottiera logora e sudicia e che lo straccetto che porta sulla spalla gli serve da copricapo, quando il sole è a picco, da asciugamano e da copertina per la notte. Vidi le larghe piante dei suoi piedi scalzi piene di calli e di crepe profonde. Ma vidi anche il suo sorriso vero, sincero, senza secondi fini.

Probabilmente potrei scrivere un libro intero sui rickshaw wala, ma la rivista che tanto gentilmente pubblica i miei scritti ne limita la lunghezza e comunque non riuscireste mai a capire di chi sto parlando fintanto che non lo sperimenterete di persona. Aveva ragione Alberto.

Sapere qualcosa cosa significa? Leggere un libro d’avventura è la stessa cosa che vivere quell’avventura? Guardare un albero equivale ad essere quell’albero? Certo che no, la risposta è immediata. Pensare ad una società nuova, composta da un uomo nuovo vuol dire essere quell’uomo? Sapere che ci sono letteralmente milioni di esseri umani che muoiono perché noi possiamo continuare a mantenere il nostro stile di vita vuol dire vivere quella mostruosità?

Noi siamo pieni di sapere, trabocchiamo di conoscenze, informazioni, nozioni, sappiamo tutto, fino all’arroganza dei più giovani che, a priori, troncano con stizza la frase di chi sta parlando con un definitivo “sì, lo so!”.

Ma cosa sappiamo veramente, cosa vuol dire sapere? Fino a che livello della nostra coscienza penetra quel sapere?

Condivido il non essere interessati all’avere e tantomeno al sapere. Forse saremo più sereni se fossimo.

Così come abbiamo abbandonato i lavori manuali - tant’è vero che la qualità dei manufatti è crollata miseramente - allo stesso modo stiamo abbandonando la capacità di vivere le nostre emozioni, che sono una delle nostre peculiarità in grado di metterci in contatto con l’esterno, con gli altri, con ciò che è altro. Vivere l’altro, essere l’altro, che sia qualcosa di materiale o un’idea, ci dà la reale misura di quello che ci circonda. Altrimenti sono solo freddi ragionamenti, speculazioni o, come si diceva qualche tempo fa, mere masturbazioni mentali. Se non tocchiamo con mano la realtà non potremo cambiarla. Mi si può obiettare che non è necessario toccare il fuoco per sapere che brucia. E invece io dico che lo è, perché se non lo tocco almeno una volta, non avrò realmente compreso il senso del verbo “bruciare”.

Come posso pretendere di cambiare il sistema se non ho piena coscienza di cosa esso è capace di fare, anzi, di cosa fa ogni giorno?

Se vi dico che letteralmente milioni di bambini muoiono di fame e di malattie, da noi debellate, a causa di questo sistema, che milioni di donne, bambini e uomini vengono massacrati, violentati e torturati tutti i giorni da questo sistema che noi supportiamo con i nostri “piccoli” gesti, informazioni di cui già disponete, cosa avrete veramente capito? Cosa vi rimane dentro? Al massimo vivrete per qualche secondo la stessa emozione che provereste nel guardare un film o un documentario che trattano questi argomenti. Poi basta, la vita continua, piano piano quel sentimento si assopisce fino a scomparire. Mi si dirà che è giusto così, che non possiamo vivere costantemente tormentati da sentimenti così forti, così annientanti. Io dico di sì, dovremmo. Perché solo così avremmo chiaro di cosa è capace l’uomo, solo bevendo il calice amaro potremo emanciparci dalle nostre deformità.

E bere il calice vuol dire “essere” quelle persone, vivere quelle realtà, almeno una volta nella vita. Come non occorre toccare tutte le volte il fuoco per sapere che brucia, ma almeno una volta sì. E non è nemmeno necessario trovarsi su fronti di guerra o assistere mentre violentano una donna. Basterebbe fare un giro nei quartieri che cerchiamo di evitare accuratamente, andare dove gli ultimi si nascondono ai nostri occhi, stare con loro, provare a passare una giornata con loro. Come anche, per chi ne ha la possibilità, la prossima volta che andate in una località turistica come Sri Lanka o il centro e Sud America, o qualunque parte dell’Asia e dell’Africa, mettete il piede fuori dal vostro lustro resort e aggiratevi nei villaggi, nelle favelas, negli slum, senza guida, senza macchina fotografica, solo voi e la vostra coscienza. Vivete quelle vite, siate quelle persone, profondamente, intimamente e vedrete che il senso della vostra realtà cambierà per sempre.

Non basta sapere che esistono certe realtà nel mondo (a ben vedere quella è la realtà del mondo, il nostro mondo è illusione montata ad arte); il saperlo non è sufficiente per comprenderlo. Analizzare, teorizzare, progettare sono tutte attività utili, forse anche indispensabili, ma non ci serviranno a nulla se non supportate da una reale coscienza del mondo in cui viviamo. E il mondo è quella roba lì.

Proponiamo una scuola dove i discenti abbiano la possibilità di sviluppare il loro senso critico per comprendere meglio ciò che li circonda, il mondo in cui si trovano a vivere. Diamo una spolverata al nostro senso critico. Impariamo, tutti insieme, ad essere l’altro, a sentirlo a capire le sue esigenze a condividere le sue paure, le sue emozioni a sentirle. Per poi magari non riconoscerle come nostre, certo. Ma così facendo avremmo capito qualcosa in più. Non sapremo, ma saremo.