C’è questo grande schermo bianco, di un biancore quasi accecante, e dentro c’è qualcosa, ma non so cosa.

Rimase silenzioso, giocherellava con gli occhi sugli oggetti poggiati alla scrivania. Ad un certo punto parve fissarsi su di una cornice portafoto che gli volgeva le spalle. Ebbe un sussulto subito interrotto, come volesse chiedere qualcosa ma poi avesse cambiato idea.

Aveva un modo un po’ infantile di muoversi e gesticolare ma il modo di parlare denotava una maturità più profonda, una serietà preoccupata.

“È questo che mi fa impazzire, c’è qualcosa in sospeso e non so cosa... è un’attesa continua e snervante per me, una ricerca senza fine di qualcosa che non mi si è rivelato.”

Lo sguardo correva veloce sui libri ordinatamente disposti negli scaffali di fronte a lui ma nuovamente parve soffermarsi sulla cornice portafoto.

Restò in silenzio a lungo finché chiese: “Cos’è?”.
“Cos’è cosa? La foto o questa tua ricerca?”.
Lo guardò negli occhi. “Tutti e due,” disse, “vorrei conoscere entrambi.”
“Uno dei problemi lo risolviamo subito.” Disse il dottore e girò la cornice verso di lui.

Il ragazzo osservò la foto con attenzione, lo sguardo ne accarezzò tutta la superficie ma sempre ritornava al centro, dove un oggetto scuro troneggiava tra degli alberi dal tronco chiaro.

“Cos’è?”. Chiese ancora.
Il dottore sorrise. “Vedi che alle domande non c’è fine?”.

Il dottore era un uomo alto, dai capelli brizzolati e lo sguardo pigro ma rassicurante, era come se quella pigrizia che trapelava dagli occhi fosse il segno di una tranquillità interiore che al ragazzo faceva difetto. Portava sempre camicia e cravatta e dava l’idea di essere una persona pulita, una persona a cui dai la mano volentieri perché sai che è pulita.

L’analista da cui era stato indirizzato la prima volta invece aveva l’aria fintamente ordinata. Il ragazzo l’aveva visto spesso accarezzare un cane dal pelo lungo e crespo e mettergli anche le dita in bocca per portargli via qualche oggetto che il cane mordicchiava e riempiva di bava. Non lo aveva visto mai lavarsi le mani prima di impugnare la penna per prendere appunti o prima di appoggiargli la mano sulla spalla mentre lo accompagnava alla porta a fine seduta.

“Ma cos’è?”. Chiese insistente il ragazzo.
“È un meteorite,” rispose il dottore, “si trova lì da migliaia di anni ed è diverso da tutte le pietre che vi sono nel territorio. L’erosione l’ha fatto riaffiorare dalla voragine in cui si era conficcato”.

Tacque per alcuni secondi poi riprese a parlare. Non parlava mai a lungo, era sempre essenziale nelle sue spiegazioni ma il ragazzo aveva il dono di muovere in lui un sentimento paterno che da alcuni anni non aveva più modo di esprimere pienamente; il figlio si era allontanato da lui.

“È sempre stato lì, ma nessuno poteva vederlo, finché il tempo non l’ha reso visibile. Non è niente di strano.”

Il ragazzo continuava ad osservare quell’enorme meteorite che scuro e minaccioso emergeva come un monumento nel varco tra gli alberi.

È bellissimo”. Disse.
“Trovi?”.
“È bellissimo. La sua semplicità, l’imponenza, il fatto che è lì, in mezzo agli alberi, così diverso...”. Si interruppe, la parola diverso pareva uno scoglio troppo grande da superare.
C’era di nuovo silenzio. Lo ruppe il dottore: “Tutto ciò che mi hai detto in queste prime sedute mi impone di dirti che penso tu non abbia bisogno delle mie consulenze. Queste insicurezze che tu hai manifestato, questo senso di smarrimento sono una componente normale di ogni uomo, non devi pensare di essere l’unico. Non devi avere questa presunzione”. Aggiunse il dottore sorridendo. Il ragazzo in qualche maniera gli faceva sognare il figlio che non era riuscito a crescere, il figlio che purtroppo si era allontanato da lui. “Non hai nulla che non va, non sei diverso dagli altri. Non nel senso della patologia”.

Il ragazzo non fissava più la pietra ora, stava osservandosi i piedi e appariva pensoso.
“Non ho nessuno con cui parlare così”. Disse.
“Potrai venire a trovarmi fuori dall’orario di lavoro,” disse il dottore, “quando vorrai, ma non devi venire da me per motivi professionali, non ne hai bisogno. Potremo parlare da amici se non ti crea problemi”.

Il ragazzo incontrò ancora varie volte il dottore e sempre la conversazione si svolse su di un terreno che potremmo definire di tipo “introspettivo psicologico” perché gli interessi del giovane lo portavano naturalmente a scandagliare gli aspetti dell’animo umano e i rapporti con un ambiente che stava mutando rapidamente spinto da un progresso a volte dubbio, un progresso che umanamente molti definirebbero un regresso, e che proprio per queste sue caratteristiche di incertezza e rapido cambiamento può indurre nei più sensibili angosce e disorientamento.

Il dottore e la moglie accoglievano sempre con piacere il ragazzo, lo invitavano a dividere la cena con loro e poi lui e il dottore si attardavano a parlare nel salotto, davanti al camino che era quasi sempre acceso nei mesi freddi. Il ragazzo trovava nel suo amico più adulto quell’amico che non aveva trovato tra i compagni di scuola, senz’altro più autonomi nella loro scanzonatezza ed il dottore viveva col giovane un rapporto paterno che si era troncato precocemente, non per volere suo, senz’altro per alcune circostanze sfortunate che avevano portato il figlio ad allontanarsi inseguendo una vita piuttosto irregolare ed irrequieta.

Non avevano più parlato direttamente delle visioni che il ragazzo aveva avuto nei periodi precedenti, quello schermo bianco ed enigmatico che tanto lo aveva angosciato, e non avevano neanche più parlato del grosso meteorite di cui il dottore possedeva una foto, ma entrambi sapevano che quel qualcosa nascosto nel bianco non era scomparso, semplicemente continuava ad esistere ma in un modo più tranquillo, era divenuto una presenza... serena, ed il giovane attendeva ora quasi con curiosità il momento in cui quel qualcosa sarebbe divenuto una cosa.

Nelle loro frequentazioni il rapporto fu senz’altro costruttivo per entrambi, come se quel sodalizio avesse compiuto un gesto necessario a concludere un puzzle, un gioco ad incastri in cui ogni individuo porta il proprio profilo complementare e cerca una personalità a cui coniugarsi. E questo era senz’altro vero per il ragazzo, la cui vita familiare era stata interrotta molto presto per motivi accidentali, ma soprattutto per il dottore, che pur essendo felicemente unito da molti anni alla moglie cercava attorno a sé una ricchezza che poteva provenire solo da un animo giovane, da una vitalità complessa e timorosa ma ciò nondimeno irruenta nella sua ricerca di conoscenza.

Ogni tanto capitava che il ragazzo scoppiasse a piangere. Questo succedeva quasi sempre quando era solo, ma non era mai un pianto di disperazione, era un pianto dovuto ad un eccesso di vita, il dottore lo sapeva bene, aveva riconosciuto nel giovane “un malato di vita”, una sensibilità fuori del comune ed aveva deciso quasi da subito di non protrarre su di lui una terapia che avrebbe potuto confermare l’idea del ragazzo di essere malato, e questa era stata una decisione molto saggia, aveva indotto in lui una maturazione spontanea che lo aveva portato ad un equilibrio notevole per una persona di tale sensibilità.

In una cosa il dottore aveva mentito, ma a fin di bene, nel definire il ragazzo non diverso dagli altri, egli era in realtà diverso dagli altri, come tutti del resto lo siamo, ma ognuno ha un equilibrio nella sua diversità, e quell’equilibrio mirabile non può valere per tutti, ognuno deve trovare il proprio.

Ora bisogna dire che successe una cosa strana. Al ragazzo venne recapitata una cartolina che aveva tutto il sapore di uno scherzo del destino: era un’immagine di un acquario, spedita tredici anni prima ed indirizzata a lui da suo padre, scomparso poco tempo dopo.

Questo fatto gettò il ragazzo in una crisi profonda ed in qualche maniera alterò l’equilibrio cui era giunto con l’aiuto dell’amico. Sentendosi nuovamente malato sentì imperioso il bisogno di un aiuto più professionale e si rivolse al dottore per iniziare ancora una volta un ciclo di sedute terapeutiche, ma ancora una volta il medico, saputo dell’accaduto, rifiutò, pur rendendosi ancor più disponibile nei confronti del giovane al di fuori dell’orario di lavoro.

Di nuovo la scelta fu giusta nonostante la prima reazione disperata del ragazzo che minacciava di rivolgersi a qualche altro professionista. Di nuovo i colloqui amichevoli che ebbero i due amici, seppure inizialmente tormentati, ricucirono l’integrità che pareva essersi perduta col bizzarro disguido postale, ed il giovane si risolse a riprendere in mano quella vecchia cartolina e studiare la grafia di chi l’aveva scritta, sostenendo il peso enorme che quell’unica scritta poteva avere, essendo l’unico tardivo ricordo che aveva del padre.

Fu così che il coraggio tornò dentro di lui, e lo spinse alla ricerca di quell’acquario, e lì accadde una cosa stupefacente, al fondo di un corridoio scuro, illuminato solo dalle luci tremolanti delle vasche poste ai lati, lo attendeva quello schermo abbagliante ancora apparentemente vuoto. Lo stesso schermo che tante volte aveva veduto nei suoi sogni.

Fu solo quando il ragazzo si avvicinò che qualcosa, dentro la vasca illuminata, si materializzò e lo osservò, era un vecchio beluga.

L’enorme cetaceo bianco pareva confondersi nel bagliore dell’acqua stessa ma lo osservava, e negli occhi dell’animale lesse di una vita solitaria ormai giunta alla fine, ora che la sua missione era compiuta.

Il ragazzo sentì forte la stretta della mano del padre sulle sue piccole dita e improvvisamente si sentì nuovamente padrone di una ricchezza infinita, perché tutti i ricordi celati tornarono a galla e parvero scritti su quella cartolina che insieme al padre si era spedito, e riconobbe lo scarabocchio prima inspiegabile, la sua firma piccola e storta nell’angolo in basso a sinistra.