Che splendido rebus l’autobiografia di Paolo Ventura, narrata da Laura Leonelli e, mirabilmente, edita da Johan & Levi! Un libro vivo che si sfoglia con l’entusiasmo del pop-up, tanto è ricco di scomparti misteriosi, aneddoti feroci, oggetti folgoranti, verità brucianti e – forse – qualche invenzione.

Laura Leonelli si muove fra le parole di Paolo Ventura come imprescindibile custode delle fila di una vita altrui, distante (ma non troppo) dalla propria, per sua stessa ammissione.

Queste pagine sono un dono, ricche di messe in scena, di elementi teatrali ed onirici di rarissima bellezza ed intensità. Pagine che si leggono come un romanzo, si ammirano come una pièce e si ascoltano come rapiti da una musica dalle note soavi ed ermetiche che ci attira a sé.

La recente mostra monografica dedicata a Ventura presso Camera – Centro Italiano per la Fotografia, Torino ha evidenziato l’impossibilità di definirne l’opera, tanta è la maestria nel proporre tipi ed ambientazioni ricostruendo una realtà immaginifica, dove decadentismo, surrealismo e simbolismo si fondono in un unicum di cui tentiamo di rivelare qualche tratto, insieme a Laura Leonelli.

La raccolta di materiale per l’autobiografia di Paolo Ventura, da te narrata, si è svolta quasi interamente al tavolino di un bar. Cosa puoi dirci di questi incontri e dell’importanza di Milano dal punto di vista narrativo?

Incontri da bar o da caffè, quasi ad evocare un’atmosfera più emancipata di mostrarsi in pubblico. Paolo ha scelto di ambientare le nostre chiacchierate lì, assecondando una collocazione urbana, per lui fondamentale.

È un uomo metropolitano diviso tra Milano e New York, con un talento sviluppato nel bosco. Vive in lui un senso per l’urbanistica molto preciso, infatti questo è un libro con una mirabile chiarezza stradale e le città si muovono insieme a Paolo per narrarne la storia. Milano e, successivamente, New York sono protagoniste, anche se l’educazione di Paolo è profondamente milanese e tenevamo a sviluppare un discorso di caffè in caffè, toccando tutti i momenti salienti. Una storia di città, di famiglia e nazionale, dove affrontiamo il Novecento futurista, la Prima guerra mondiale, la Milano fascista e quella del dopo guerra, quando assistiamo ad una rinascita fisica. Questa città che si distrugge per ricrearsi, viene definita brutta da Paolo, poiché è consapevole di quanto Milano abbia divorato tutto di sé per reinventarsi. Il passo in avanti va sempre fatto annientando quel che c’è stato.

La scelta del caffè è stata dettata dal fatto che Paolo considera Cucchi la sua seconda casa, per cui i primi incontri sono avvenuti attorno a quei tavoli. Mentre scrivevo gli articoli su di lui, ho immediatamente sentito la forza della sua storia, del romanzo di formazione intrinseco nella sua opera. In un dialogo del genere, improvvisamente senti che qualcuno sta parlando anche della tua vita… della dittatura dei sentimenti famigliari, del delitto conclamato che scopri crescendo. La complessità della famiglia italiana, dove genitori e nonni parlano di guerra che - per la nostra generazione di cinquantenni – ha portato ad una strana identificazione con chi aveva vissuto quelle atrocità; anche se noi siamo i figli del baby boom e di una cura dell’infanzia completamente diversa.

A cosa si deve il termine ‘impostore’ utilizzato nel titolo?

Dare voce ad un altro è un’esperienza incredibile. Paolo è uno splendido narratore, come suo padre, e questo è uno dei nodi nella sua vita. Si chiede: quanto c’è di me in un padre crudele e quanto del mio talento è un suo dono? A mia volta sarò un padre crudele oppure un padre in grado di donare?

Evidenzio - altresì - una coincidenza (il volume ne è pieno): il libro inizia e finisce una domenica. La domenica dell’orrore famigliare e quella della rinascita, poiché Primo nasce di domenica. Quando abbiamo iniziato a vederci al di là del dovere professionale, abbiamo dato vita ad una scena teatrale (Paolo, non a caso, è uno straordinario scenografo, capace di adattarsi molto velocemente).

Questa ‘domenica’ diventava sempre più complessa, con itinerari attraverso Milano specifici ed una casa dell’infanzia quasi stregata, dove si muovevano fratelli, genitori, nonni e zii. Paolo descrive il pranzo ed il momento del sonno, come un’epifania. Mentre gli altri dormono, Paolo bambino compie un percorso iniziatico di artista. Il sonno altrui gli regala una rivelazione: può divenire fantasma ed entrare nelle vite degli altri, andando in avanscoperta.

La storia di Paolo è tutta giostrata in questo modo, con personaggi dai valori fiabeschi (a me molto cari, poiché le favole – specialmente quelle calviniane – sono state i miei personali romanzi di formazione). In questo modo, ho capito che potevo avere il passo giusto per scriverne e quale sarebbe stato il mio contributo. Abbiamo strutturato il libro su oggetti-perno, come catalizzatori nel lavoro di Paolo, ed ogni oggetto è un meteorite che fa esplodere tutto e riassume un vissuto ricchissimo. Il libro è un trovarobato per allestire il teatro che è la vita di Paolo. Se ci pensi, nei racconti di una famiglia ci sono vari aspetti: drammi, catastrofi, tragedie e l’abitudine ad essi. Se un bambino sa ascoltare è già esposto a tutto.

Forse ho sentito di avere il tono giusto per passare dall’intervista al racconto, dopo la pubblicazione degli articoli, poiché sono stati una sorta di via libera nel costruire un’anagrafe dei ricordi di Paolo che, poi, abbiamo diviso per capitoli. Dal caffè siamo passati al telefono, con la pandemia, e ci siamo aggiornati in diretta.

Paolo racconta fatti biografici tremendi ma da spettatore, ed ho voluto che questo fosse il registro dell’intero volume. Ci saranno state delle menzogne? Dei non detto? Delle lacrime? Quando è entrato in gioco l’impostore?

Hai avuto modo di osservare l’operato di Paolo da vicino. Quali pensi siano i momenti di svolta nella sua carriera?

Paolo nasce ricreando e rifrequentando il teatro della sua memoria, è un uomo teatrale con una capacità visuale ed organizzativa dello spazio incredibile. Non è mai bidimensionale ed ha bisogno di una realtà in cui far rivivere i suoi demoni. Quando sceglie di riallestire la Prima guerra mondiale da ragazzino, per ambientare la sua voglia di entrare in guerra ed uccidere il padre ed il proprio dolore, Paolo giace costantemente morto. Fotografa Andrea (il fratello gemello) nei suoi panni. Ha sempre bisogno di un costume e di una scena, nonché di un personaggio per non sentirsi specchiante in un altro. Non a caso War Souvenir lo ha consacrato per il suo sapere inventare interi mondi paralleli, senza bisogno di altri, è lui il mago, il clown, il traditore, l’impostore.

A partire dai 13 anni sviluppa la fotografia come forma di protesta. Diventa fotografo di moda a modo suo con close-up estremi. Scopre la vocazione d’artista in un servizio di moda mancato, quando si ritrova a Voghera e visita il Museo Storico, dove vede la Beretta con cui è stato ammazzato Mussolini e la A112 sulla quale morì Dalla Chiesa; come dire: la violenza esiste e continua. Si trova di fronte allo spavento, alla crudeltà ed alla morte e questo lo fa cambiare. Inizia una ricerca fotografica nuova. Negli anni introduce i fondi. Le città diventano parte pittorica dominante con figure sullo sfondo.

In seguito, è stata la volta del mare: un fondo azzurro pacificato, in cui inserisce la moglie Kim ed il figlio Primo. Ci sono personaggi immaginari interpretati da figure vere, non più manichini. Piano piano l’elemento pittorico ha assunto un ruolo forte, il cui punto di snodo è stato Quarantine. Chiuso nel suo studio di Anghiari durante il lock-down, con dei fogli di carta come unici compagni, ha trasformato il susseguirsi dei giorni in gesto pittorico, reinventando la realtà, aiutato dalla forza catartica degli oggetti che lo circondavano.

Puoi già dirci se stai lavorando a progetti futuri?

Ad un progetto con Paolo, intitolato: Milano - Come innamorarsi di una città brutta. Una strana guida di luoghi dimenticati e dimenticabili. Personalmente, invece, ad un libro sul modo in cui la storia del design delle sedie è entrato a far parte della fotografia erotica. Le donne sono state regine e madonne sedute in trono e, con l’arrivo della fotografia le abbiamo osservate nude ed eroticamente disponibili, pur rimanendo classicamente poste su una sedia, la quale può essere vista come alter-ego dell’uomo. Cent’anni di storia sui quali sto iniziando a raccogliere materiale.