Con legge n. 92 del 30 marzo del 2004 è stato istituito il giorno del ricordo, nella data del 10 febbraio, per commemorare l’eccidio delle foibe istriane e giuliane, protratto dall’8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947, data nella quale vennero firmati i trattati di Pace di Parigi, con la quale veniva definita l’assegnazione dei territori di Istria, del Quarnaro, della città di Zara e di parte della Venezia Giulia alla Jugoslavia. L’argomento è stato oggetto di animate polemiche sia tra gli storici e soprattutto, a livello politico, con accuse di riduzionismo da parte della destra e di strumentalizzazione da parte della sinistra. Le foibe erano delle cavità carsiche strette e profonde, dentro le quali venivano precipitati, (“infoibati”) molti italiani già residenti o comunque occupanti le zone passate sotto il controllo dei partigiani titini. Le vittime erano ritenute di appartenenza fascista, collaborazionisti, militari.

Il numero degli italiani gettati nelle foibe è incerto e le indicazioni che vanno da 3000 a 5000, sono comprensive dei morti nei campi di prigionia jugoslavi o durante le deportazioni verso di esse. Ben più numerosi furono gli italiani costretti ad un esodo forzato verso l’Italia, tra i quali commercianti, artigiani, insegnanti, impiegati, per sfuggire alle persecuzioni e all’oppressione del regime titino. Fu un flusso continuo che durò dal 1945 al 1956, che interessò un numero calcolato tra le 250.000 e le 350.000 persone. Il gran numero dei profughi fu assorbito molto lentamente nel tessuto economico e sociale italiano e molti di essi dovettero passare dall’esperienza dei centri di raccolta in territorio italiano. Avevano dovuto abbandonare in fretta le attività commerciali e imprenditoriali, i loro beni erano stati espropriati.

L’eccidio delle foibe e la persecuzione degli odiati italiani non era dovuto soltanto alla fase di riconquista del proprio territorio dall’occupazione nazifascista, ma anche ad una inevitabile rivalsa rispetto agli eccessi ed alle atrocità che erano state consumate dagli occupanti.

In Slovenia il generale Mario Roatta, quale comandante della II Armata, attuò nella provincia di Lubiana, una spietata repressione contro i civili. Paradossalmente, non occorrono elementi di prova a suo carico, atteso che egli stesso, in una circolare a sua firma, enunciò un esplicito programma di atrocità, rappresaglie, incendi di case e villaggi, esecuzioni sommarie, raccolta e uccisione di ostaggi, internamenti nei campi di concentramento di Arbe e di Gonars, sostituzione etnica. Si tratta della circolare 3C, del 1° marzo 1942, nella quale, tra l’altro, dispose:

(...) Se necessario, non rifuggire da usare crudeltà. Deve essere una pulizia completa. Abbiamo bisogno di internare tutti gli abitanti e mettere le famiglie italiane al loro posto"; ‘'(…) l'internamento può essere esteso… sino allo sgombero di intere regioni, come ad esempio la Slovenia. In questo caso si tratterebbe di trasferire, al completo, masse ragguardevoli di popolazione… e di sostituirle in loco con popolazioni italiane.

Una vera e propria sostituzione etnica, destinata a ripetersi durante la scomposizione della Jugoslavia nella guerra dei primi anni Novanta. Il 18 marzo 1942 Roatta venne nominato comandante della II Armata in Croazia dove ordinò nei confronti della guerra partigiana di "...applicare le sue disposizioni senza false pietà", dando così inizio ad una vera e propria azione di terrore contro i civili che davano supporto logistico alle bande partigiane. Numerosi villaggi vennero devastati come rappresaglia, così come avrebbero fatto qualche anno più tardi le truppe naziste in Italia.

La Repubblica Socialista di Jugoslavia richiese all’Italia l’estradizione di Roatta per consentire di processarlo come criminale di guerra, richiesta che non trovò accoglimento da parte italiana nonostante si trattasse di ben nove capi di accusa di eccezionale gravità, in ciò sostenuta dalle potenze alleate. La guerra fredda era iniziata e produceva i suoi primi effetti.

Le accuse mosse al generale Roatta erano: di aver proceduto su ordine di Mussolini allo sterminio del popolo sloveno; quale principale responsabile, nella sola provincia di Lubiana, della fucilazione di circa 1.000 ostaggi, della uccisione proditoria di 8.000 persone, dell'incendio di 3.000 case, dell'internamento di 35.000 persone, della distruzione di 800 villaggi, della morte per fame nel campo di concentramento di Arbe di 4.500 persone; di aver infranto disposizioni della Convenzione internazionale dell'Aja relativa ai prigionieri, ai feriti e agli ospedali; di aver disposto la fucilazione di partigiani fatti prigionieri e di ostaggi, di internare i componenti di intere famiglie e villaggi e di consegnare i civili in massa ai tribunali militari; di aver disposto che i civili fossero ritenuti responsabili di tutti gli atti di sabotaggio commessi nelle vicinanze della loro abitazione e che per rappresaglia si potesse sequestrare il loro patrimonio, distruggere le loro case e procedere al loro internamento; di aver disposto di consegnare ai tribunali militari i partigiani catturati feriti, le donne e gli uomini inferiori ai 18 anni e di fucilare sul posto tutti gli altri partigiani caduti prigionieri.

Si aggiungano infine le discriminazioni linguistiche. La maggior parte degli impieghi pubblici venne assegnata agli appartenenti al gruppo etnico italiano; gli insegnati di lingua croata e slovena vennero gradualmente sostituiti da insegnanti italiani; di conseguenza anche agli studenti locali fu reso obbligatorio l’uso della lingua italiana; i cognomi di croati e sloveni vennero tutti italianizzati nei registri anagrafici e così le indicazioni toponomastiche.

Ovviamente, nulla di tutto questo può giustificare il massacro delle foibe, così come non possono trovare giustificazione i crimini di parte italiana. L’adesione di Slovenia e Croazia all’UE ha sicuramente contribuito a superare le tristi vicende del passato e a stabilire rapporti di interscambio economico, culturale e turistico tra le due sponde dell’Adriatico.