La legge n°180 del 13 maggio 1978, voluta dallo psichiatra Franco Basaglia, ebbe un risvolto fondamentale nel nuovo approccio alla cura delle malattie mentali in Italia. Un passo necessario per dare finalmente la giusta dignità ai pazienti psichiatrici. Passo che portò con sé anche delle ripercussioni, da quella data, le strutture che ospitavano i malati piano piano abbandonarono la loro destinazione d'uso per cadere inesorabilmente in un declino lento ma inarrestabile.

Milioni di metri cubi tra padiglioni, centri, palazzine, abbandonati a sé stessi, senza più uno scopo nel mondo, una spietata similitudine con la storia dei pazienti che hanno vissuto tra quelle mura.

Esempio principe di questo forzato oblio è l'Ospedale Psichiatrico di Volterra. Considerato da molti la più grande struttura manicomiale in Italia, contava, nel periodo di massimo splendore, 20 padiglioni, 2 fattorie e quasi 5000 degenti.

Le origini dell'ospedale vanno ricercate intorno al 1897 quando l'allora Congregazione di Carità, individuò nell'ex convento francescano di San Girolamo il luogo adatto per la creazione dell'Asilo dementi, primo accenno di struttura organizzata dove i malati avevano diritto a una custodia, un’assistenza, una cura. L’idea del tempo era ricercare, per i malati, ambienti ampi e puliti, ben esposti e immersi nel verde, dove potessero essere comodi e tranquilli.

La storia racconta ben altri trattamenti per questi poveri derelitti. Persino Luigi Scabia, direttore del Manicomio dal 1900 al 1934, da sempre sostenitore dell’ergoterapia o terapia del lavoro, non riuscì ad impedire che i degenti fossero visti solo come esseri da custodire e sorvegliare. Nonostante le pratiche di ricreazione e di inclusione messe in atto da Scabia, bisognerà aspettare il ’68 perché si cominciasse a riconsiderare veramente la psichiatria e le terapie ad essa collegate.

Scabia fu il grande stratega di Volterra, grazie alla sua direzione il manicomio prosperò e si ingrandì a dismisura. Suoi gli studi sulla terapia del lavoro, i malati contribuivano attivamente alle esigenze del complesso con varie attività: c’erano laboratori di falegnameria, un panificio, la lavanderia e poi un calzolaio, fabbro, vetraio, elettricista, non ultima una fornace per la produzione dei mattoni che servivano alla costruzione dei nuovi padiglioni. Grazie alle due colonie agricole, i malati contribuivano anche al fabbisogno di carni e verdure di tutta la struttura. In poche parole, il manicomio era del tutto autosufficiente tanto che, nel 1933, venne addirittura coniata una moneta ad uso esclusivo dei degenti, da spendere negli spacci e nei negozi interni. Volterra, dal canto suo, contribuì inconsapevolmente allo sviluppo del manicomio. Nella città non si pagava la tassa sul sale e sul pane, per questo la retta diaria per i degenti dell’ospedale psichiatrico era più bassa che in qualunque altra struttura. Ben volentieri gli enti preposti trasferivano a Volterra i malati di altre province e regioni, famosa la stretta collaborazione con la provincia di Imperia che spostò dal Manicomio di Como a Volterra centinaia di pazienti.

Le storie dei pazienti, le limitate visioni delle cure d’un tempo, i ricordi di chi ha lavorato all’interno del manicomio, riempirebbero facilmente diversi volumi.

Vorrei però soffermarmi sull’eredità lasciata da queste strutture, eredità che, in molti casi, pesa sulle amministrazioni sanitarie locali e, indirettamente, sulla nostra testa. Difatti, dal loro progressivo abbandono dal 1978 in poi, pochissimo è stato fatto per la rivalutazione, per il cambio di destinazione d’uso e la salvaguardia. Anche a Volterra pochissimi padiglioni sono stati ristrutturati e riconvertiti in ospedale civile, mentre il resto giace nel totale abbandono. Riqualificare e donare alla città questi spazi diventa importante perché non si perda la memoria di un’istituzione che per quasi cento anni ha fatto la storia di Volterra, ma anche perché ritorni ad essere un valore per i suoi abitanti.

Le amministrazioni sanitarie non hanno quasi mai le risorse per effettuare importanti investimenti in tal senso, nasce perciò l’esigenza di attingere a fondi privati, investitori che possano prendersi carico dei progetti di riqualificazione. Volterra, complice con l’assurda burocrazia italiana, è stata protagonista di uno degli esempi più eclatanti di mala gestione riguardo la riconversione del Manicomio. Nel 2009 Un investitore anglo-indiano, Kuldeep Desaur, propone al Comune e all’Azienda Sanitaria Locale, effettiva proprietaria degli immobili, un progetto per realizzare al Poggio alle Croci un resort di lusso, 180 appartamenti e le relative opere di urbanizzazione. Dopo dieci anni di tira e molla, veti politici, assurda burocrazia, sono cessati tutti i rapporti con la società investitrice, rimanendo di fatto con un pugno di mosche. Occasione persa, al di là delle idee personali e delle strategie politiche.

Intanto, nei padiglioni in rovina, la natura si riappropria dei suoi spazi, fagocitando quelle mura che avrebbero così tanto da raccontare.