Preso atto che da Windhoek raggiungere la Rhodesia passando per la Caprivi Strip, la striscia di terra al confine con l’Angola, è proibito a causa della guerriglia indipendentista della SWAPO (South-West African People’s Organisation), l’organizzazione di ispirazione marxista, non ci resta che girare il nostro pulmino Volkswagen Comby ad Est verso Gobabis e provare ad entrare in Botswana dal deserto del Kalahari. Le origini del conflitto risalgono all’inizio della Prima guerra mondiale, quando il Sudafrica invase la ex colonia tedesca facendo della Namibia una sorta di protettorato, inizialmente a titolo provvisorio. Tuttavia, anche se nel 1915 le truppe germaniche lasciarono il Paese, i loro coloni di lingua e cultura germanica sono rimasti. E ancora oggi, dopo mezzo secolo e contro il parere dell’Onu, il Sudafrica rifiuta di cedere i territori impedendo di fatto la formazione di uno stato indipendente.

Giungiamo a Windhoek alle 12,20, una città anonima e per niente invitante tanto che già alle 15 ripartiamo alla volta del confine distante 320 km. Lungo la via, notiamo che nei recinti delle fattorie tengono assieme buoi, pecore, struzzi, gazzelle e antilopi. La strada è un saliscendi che ondeggia su morbide colline fino a Gobabis, un ordinato centro agricolo costruito su di un altopiano a circa 1500 metri di altitudine. Siamo ai margini del deserto ma il territorio è piacevolmente pianificato con un rigore di chiaro stampo germanico, a dimostrazione di quanto, in Namibia, lo strapotere bianco imponga diktat assoluti. Qui i nativi sono visibilmente sottomessi, mentre in Sudafrica sono più numerosi e più aggressivi. A volte si ha l’impressione che l’intero Paese sia una grande caserma. Cerchiamo di avvicinare qualche giovane locale per vedere di socializzare ma subito si irrigidisce con timore. Ci muoviamo in un modo atipico per loro, pare non capiscono che tipo di bianchi siamo. Anche solo passargli accanto o sfiorarli si ritraggono con imbarazzo. Convivere con boeri e tedeschi conservatori non deve essere per niente piacevole, si avverte nell’aria un senso di opprimente superiorità. Entriamo al supermercato e rubiamo una stecca di cioccolato a testa, siamo dei bianchi ladri!

Discriminazione razziale e apartheid a parte, fino all’inizio del ‘900 Gobasis è stata teatro di devastanti conflitti tribali, i Nama contro gli Herero e tra coloni e le popolazioni indigene. Oggi è abitata da coloro che vinsero quegli scontri: i Nama, che abitano buona parte del Kalahari, ed i coloni, appena il 6% della popolazione, che amministrano però l’intero Paese per conto dei sudafricani.

A Gobabis finisce l’asfalto ed inizia la pista sterrata. Sbagliamo strada, facciamo 100 km in più ed arriviamo alla frontiera botswana di notte. Al mattino il funzionario dice che in due anni che lavora in dogana è la prima volta che vede passare un mezzo tanto basso; infatti, da questo valico passano solo fuoristrada e camion. Due altri doganieri sostengono che comunque la strada è stata migliorata e andando piano non avremo problemi ad arrivare a Maun, distante 500 km. Chiediamo un parere anche ai due americani in Land Rover e questi arricciano il naso: “You can try”. Ad arrivare a Maun loro hanno impiegato due giorni: “È bellissimo, vi occorre però un badile, acqua e cibo difficili da trovare”. Timbrato l’ingresso sul passaporto, ci avviamo ma quasi subito la pista diventa difficilmente praticabile con solchi di sabbia profondi. Dopo appena 10 km, ci fermiamo alla baracca del distributore per riflettere sul da farsi. Ci appare un altro bianco, che stranamente abita in questo luogo desolato, il quale ci convince a tornare indietro: “Impossibile riuscire con quel pulmino, non ce la farete mai”. E aggiunge: “È una pista dove anche i camion si insabbiano, c’è una macchina che è ancora lì da almeno due anni... qui non ci sono carri attrezzi. Alcuni doganieri vi lasciano passare sapendo che resterete a piedi, sperano che abbandoniate il mezzo così poi lo prendono loro”. Tra l’altro, questo distributore non ha neppure benzina. Niente da fare, bisogna girare attorno al confine dall’esterno ed entrare in Botswana dal Sudafrica. Non c’è altro modo. Un giro enorme di 1700 km che ci crea un attimo di sconforto, superato però in fretta. Basta guidare a turni h24. Non dobbiamo perdere tempo per rispettare l’itinerario prestabilito da seguire nei nove giorni di noleggio del pulmino. Rientriamo in Namibia, nessuna dogana ci chiede il libretto del mezzo. Ecco spiegato il timore di Mr. Lombard a Johannesburg, che non ci ha lasciato il libretto del mezzo ma solo la ricevuta del contratto di noleggio. L’anno scorso ben 1150 automobili rubate, molte delle quali prese a noleggio, sono state vendute oltre frontiera.

Non torniamo a Windhoek ma seguiamo la strada più vicina al confine botswano verso il Kalahari National Park e Koes. Dopo Leonardville inizia il deserto del Kalahari e la pista diventa sempre più impegnativa, un susseguirsi di grosse cunette e dossi in terra da farci sobbalzare di continuo fino a Keetmanshoop, dove arriviamo alle 23. Alle 2,30 siamo di nuovo in Sudafrica e alle 13 raggiungiamo la dogana di Ramatlabana, dopo un allucinante percorso senza soste da ieri mattina, con il motore che fuma ma regge ancora bene. Eccezione possibile grazie al permesso di fare benzina fuori orario e di notte, incluso i tre giorni settimanali proibiti per legge, firmato in esclusiva dal magistrato di Karasburg. Anche cambiare valuta estera è severamente proibito e per procurarci cento dollari in rande finiamo nel retro bottega di un commerciante greco. Al confine carichiamo Deon, un giovane pugile di professione che ha deciso di venire in Botswana perché dice di non sopportare più le ingiustizie del Sudafrica. Si ritiene un rivoluzionario e si presenta spontaneamente alla polizia dove lo sistemeranno in un campo per rifugiati. Qui non c’è apartheid e la tensione nell’aria si allenta di colpo. Ottenuta l’indipendenza dal Regno Unito nel 1966, a differenza di quanto avviene in Sudafrica e in Rhodesia, in Botswana i rapporti fra la popolazione locale Bantu e i bianchi sono sostanzialmente pacifici e distesi. Fortunatamente tale periodo coincise con la scoperta di enormi giacimenti di diamanti, fatto che diede un forte impulso alla crescita economica del Paese, creando i presupposti per la stabilità politica.

Alle 15 siamo nella capitale Gaborone, un agglomerato di case e palazzi di costruzione recente che conta 50mila abitanti, in forte sviluppo demografico; solo 15 anni fa era un villaggio con meno di 4mila anime. La piazza centrale ha qualche albero con panchine e tutt’attorno l’area dello shopping, che comprende il cinema Capitol, il President Hotel, il Post Office, banche e agenzie turistiche. Nello spiazzo in terra battuta alle spalle della stazione di polizia, troviamo inoltre le bancarelle per uno shopping più popolare, mentre il weekend market si svolge in Sechele Road. Le mostre e gli eventi culturali hanno luogo nel municipio, la Town Hall, mentre per gli amanti della “vida alegre” ci sono il casinò ed i pub all’interno dell’Holiday Inn frequentati perlopiù da bianchi sudafricani che attraversano il confine per divertirsi con le donne di colore, proibito in patria. Altro punto caldo lo notiamo alla “Disco 7”. In Botswana, come nello Swaziland, appena si esce dalla sfera d’influenza sudafricana, la prostituzione si rivela un grande affare. Ci stupisce la scena di ragazzi locali che deridono apertamente e prendono pubblicamente in giro dei poliziotti i quali, invece di reagire, si vergognano e fanno finta di nulla. Atteggiamento decisamente impensabile in Sudafrica e tanto meno in Namibia. Altra cosa difficile da vedere oltre frontiera sono le donne e gli uomini che usano chiedere sia la sigaretta o pochi cent. Le ragazze in genere sono tutte molto carine e simpatiche, sempre sorridenti e si socializza facilmente, basta dire loro una qualsiasi cosa che subito si fermano a parlare per fare conoscenza. Unico neo, mentre parlano mollano sonori peti con la massima disinvoltura. Parcheggiamo per la notte in pieno centro, di fronte al President Hotel.

Lasciamo Gaborone alle 12,30 diretti a Francistown, distante 450 km di pista sterrata nella Botswana orientale. Appena superato l’abitato di Mahalapye, a circa metà percorso, in questa assolata e desolata strada l’unico camioncino presente urta violentemente l’unico bue presente uccidendolo. I due componente del mezzo e due passanti si affrettano ad aprire, ognuno col proprio coltello, la pancia dell’animale per riempirsi in modo famelico la bocca di carne cruda, ancora calda e sanguinolenta, “da leccarsi i baffi”. Ho visto l’imbarazzo per essere stati colti a mangiare in quel modo da dei bianchi, un disagio reciproco causato dall’incontro/scontro fra usi e costumi diversi e molto lontani. Ancor più accentuato quando non ho saputo resistere dal fotografare la scena. Prendiamo comunque nota che tutti girano armati di coltellacci.

Poco più avanti troviamo il bivio che a sinistra indica, verso occidente, la pista per Maun, la città nel centro del Botswana che due giorni prima non siamo riusciti a raggiungere dalla Namibia. L’intero Botswana è un altopiano che mantiene un’altitudine di circa 1000 metri sul livello del mare, ricoperto per il 70% dal deserto del Kalahari. Il “nostro” pulmino Comby ormai divora olio, lo stiamo distruggendo!

Alle 21 siamo a Francistown che dista 90 km dal confine rhodesiano e 204 da Bulawayo, la nostra temporanea destinazione. Sostiamo di fronte al Grand Hotel che con il Tat Hotel accanto sono un vero covo di bevitori e puttane. Per fortuna ci siamo fermati un attimo a cercare una toilette e c’è venuto in mente di chiedere qualche informazione al volo, altrimenti saremmo tranquillamente andati dritto alla dogana mentre qui tutti ci consigliano di non proseguire perché molto pericoloso soprattutto di notte. Il simpatico titolare del bar sorridendo chiede “se vogliamo morire... stanchi di vivere?” E quando Aldo prontamente risponde: “We are too young to die” tutti i presenti scoppiano a ridere. Preso atto che siamo tre “viaggiatori allo sbaraglio” si prede il tempo di farci un doveroso aggiornamento sulla situazione attuale: “La guerra civile in Rhodesia perdura da 15 anni, da quando il governo coloniale dei bianchi di Ian Smith ha proclamato l’auto indipendenza svincolandosi dal Regno Unito e proprio in questi mesi è in atto una sanguinosa guerriglia da parte dei militanti del movimento marxista ZANU (Zimbabwe African National Union) guidati da Robert Mugabe”. Ascoltiamo assorti, felici di aver trovato qualcuno che cerca di aiutarci: “In Rhodesia è molto pericoloso viaggiare di notte, i terroristi o rivoluzionari che siano attaccano appena viene scuro. Ma anche di giorno dovete guidare “a manetta” sino Bulawayo e non rallentate né caricate qualcuno. Se sulla strada vedete del casino o della gente non fermatevi, tirate dritto”. E continua con impeto: “Sul quotidiano di oggi c’è scritto che hanno attaccato un convoglio di bianchi scortato da soldati in pieno giorno, nei pressi di Fort Victoria, a 200 km da Bulawayo. È stato ucciso un turista di 19 anni. Tutti i giorni uccidono dei bianchi. Ogni tanto attaccano anche il posto di dogana qui vicino, se andavate a dormire alla frontiera vi uccidevano di sicuro... Do you want to loose your life? Crazy idea”.

Gli siamo molto grati anche se certi neri quando spiegano sono talmente carichi che spesso è difficile capire bene come stanno realmente le cose. Ci vede assorti e perplessi, allora per aiutarci a capire meglio incarica il cameriere di accompagnarci da un certo Guido Di Filippo, un italiano che lavora da anni alla filiale locale della Continental Motors. Il Di Filippo afferma di avere la figlia che studia a Bulawayo, ogni tanto va a trovarla e ripete con altre parole gli stessi concetti: “Fate particolare attenzione, dalla frontiera a Plumtree incontrerete il tratto più insidioso. Se sulla strada vi fanno segno di rallentare, voi accelerate, usano fare così poi quando siete vicini vi sparano. L’ideale sarebbe avere un driver di colore”. Ringraziamo Guido che va a dormire e noi ci corichiamo nel pulmino piuttosto preoccupati.