Nelle cameracce nere di fuliggine e per il fumo delle pipe, sporche di mota per gli scarponi infangati fino alla caviglia, si raccoglievano a sera uomini i cui visi dicevano: vogliamo imparare, soffriamo di non sapere abbastanza, incoraggiateci a sperare ed amare. Si beveva, ma senza eccessi. Si discuteva, si declamavano poesie, di discutevano la proprietà, il comunismo, il parlamentarismo, l’individualismo, il partito, l’antipartito. Spesso ci si recava fuori Ravenna in qualche villa: Mezzano, Sant’Alberto, Alfonsine, Madonna dell’Albero, Santo Stefano, Campiano. Erano traversate in vettura non sempre in gangheri, trascinata da un quadrupede proletario noleggiato, col compagno che guidava e pipava, avvolti dalla capparella romagnola, nelle nebbie della pianura a perdita d’occhio, fra i canneti e le alghe dove la rana teneva i suoi concerti e la zanzara si rifugiava d’inverno, e la malaria era stata vinta o quasi dalla volontà di quegli uomini che anche quando erano vestiti a festa davano l’idea di camminare portandosi avanti la carriola.

Questa citazione di Armando Borghi, che, dal 1906 diresse a Ravenna, L’Aurora, settimanale anarchico, ci dà l’idea della classica personalità libertaria, che, al di là di una visione puramente scientifica e pragmatica, cercava di conciliare la politica con la fantasia e la poesia, in modo consono allo spirito irrazionalmente utopistico della sua ideologia.

Così come Ravenna è stata l’incubatrice del cooperativismo, per cinquant’anni la città e la sua provincia, diventarono il laboratorio e il centro propulsivo degli ideali anarchici, “così, in un certo senso, l’antica capitale imperiale riscopriva la propria vocazione universalista…” E proprio su Ravenna gravita l’ideologia e l’azione di due personaggi fondamentali dell’internazionalismo proletario: Andrea Costa e Armando Borghi.

Andrea Costa, uno dei primi e principali irradiatori del pensiero anarchico in Romagna e in Italia, costatata la dispendiosa inanità della prassi rivoluzionaria insurrezionale, nel 1879, scriveva la famosa Lettera ai miei amici di Romagna, dove, senza rinnegare il suo passato, spronava realisticamente a voltar pagina, creando le premesse alla costituzione del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna, che, nel 1882, l’avrebbe portato, primo socialista italiano, a entrare in parlamento e a diventare un convinto propugnatore del riformismo, indispensabile passaggio obbligato per la futura conquista di un nuovo stato basato sulla giustizia sociale. Ma i duri e puri anarchici ravennati rifiutarono questa svolta legalitaria e continuarono nella loro romantica lotta libertaria e, con la base materiale che offrì la tipografia di Claudio Zirardini, si susseguirono, tra censure e sequestri, i fogli insurrezionali, di cui il più significativo fu, appunto, L’Aurora, fondato da un calzolaio, da un facchino, da un sarto e da un manovale e diretto da Armando Borghi.

Questo rivoluzionario a 360° fu l’effettivo contraltare di Andrea Costa, con la sua ideologia e la sua azione antiistituzionale fu presente o in contatto con tutti i principali moti e movimenti rivoluzionari europei e mondiali: dalla rivoluzione bolscevica, all’antifascismo in cui fu promotore degli “Arditi del popolo”, alla guerra di Spagna. Si guadagnò anche diversi soggiorni carcerari e negli Stati Uniti riuscì a scampare la galera grazie all’intervento di Gaetano Salvemini e Arturo Toscanini, che certo anarchici non erano, ma che avevano capito la grandezza morale e la purezza del personaggio. Quella stessa intransigenza morale che lo portò, nel 1965, a pochi anni dalla morte, ad abbandonare dolorosamente la stessa Federazione Anarchica e la direzione di Umanità Nuova, per la svolta “autoritaria” e burocratica che avevano preso. A Ravenna, poi, subito dopo la Liberazione, un anarchico, Domenico Zavattero, entrò nella prima giunta comunale del dopoguerra e fece esplodere l’ultima vera “bomba” della storia degli anarchici ravennati.

Affidatogli l’impietoso e pericoloso compito di “commissario all’epurazione”, sbandierò gli articoli filofascisti che alcuni convertiti “democratici” avevano pubblicato durante il Ventennio e addirittura venne in possesso dell’elenco degli iscritti ad un’associazione di regime, la “Capillare”, che svolgeva opera di delazione e spionaggio, alcuni dei quali, poi, si erano riciclati nelle organizzazioni antifasciste. Il tutto pubblicato su La Lente, foglio di libera critica per la Libertà e la Giustizia col significativo titolo di Alla gogna. Naturalmente, nonostante il nuovo clima liberale, il periodico fu sequestrato e lo Zavattero, reo di tanta audace improntitudine, fu mollato dai suoi stessi compagni.

Sono gli ultimi fuochi d’artificio dell’anarchismo provinciale. Il dopoguerra trova gli anarchici disorientati dall’avvento di una pur imperfetta democrazia, schiacciati dalla forza organizzativa e dalle irresistibili attrattive del Partito comunista, avviati ad un inesorabile declino.