Terzo capitolo di questa incredibile serie dedicata a un trio delle meraviglie, che sta avendo una sua aurea documentazione postuma. Il Ronnie Scott's è uno dei salotti di velluto del jazz mondiale, con un'atmosfera che continua ad essere unica dal 1959, anno della sua fondazione e malgrado un trasloco in quello che è ancora oggi il suo ricercato indirizzo londinese di SoHo. Anche l'incensato Live In England, pubblicato l'anno scorso dalla stessa label, era relativo ad un ingaggio nella stessa venue, ma si riferiva al decennale del club, con una formazione che oltre al fidatissimo Eddie Gomez, comprendeva Marty Morell alla batteria. Dopo le session dimenticate in casa MPS, nel cuore della selva nera tedesca e l'ingaggio in Belgio, che seguirono di poco l'acclamato concerto di Montreux, il festival svizzero inaugurato solo l'anno precedente, quella fortunata estate del 1968 si chiuse con un mese consecutivo al Ronnie Scott's.

Di quelle nottate trionfali restavano dei nastri gelosamente custoditi nell'archivio personale di Jack De Johnette, che ricorda così quel periodo di particolare enfasi creativa: “È stato fantastico stargli accanto: questi album documentano un musicista in stato di grazia, che sarebbe diventato un riferimento assoluto ed ispirazione costante non solo per i pianisti. Nelle magiche serate londinesi l'interplay crebbe di sera in sera: sono orgoglioso di aver contribuito a una testimonianza ufficiale.”

Evans dal canto suo, con l’impareggiabile sodalizio condiviso assieme a Paul Motian e Scott LaFaro, aveva già rivoluzionato la formula del piano trio. Di lui si sa che non gradiva particolarmente i batteristi, singolare quindi che fosse rimasto folgorato dal drumming poliritmico di DeJohnette, un giovane dal gran talento, fattosi largo pochi mesi prima nel quartetto di Charles Lloyd e che era in procinto di passare alla corte di Miles Davis, spesso presente in quelle serate al club, per sostituire un “certo” Tony Williams.

Con il divino trombettista, il batterista di Chicago sarebbe rimasto per quasi quattro anni, rivestendo un ruolo cruciale nella svolta elettrica di Miles, il cui fiuto gli aveva già fatto prenotare una seduta in studio per documentare l'ammirazione per Jimi Hendrix. Quando ormai sembrava che tutti gli accordi fossero ratificati, il progetto di realizzare un album svanì nel nulla. Davis ammetterà nella sua autobiografia, che non se n’era fatto nulla sia per un’inconciliabilità tra i suoi orari e quelli di Hendrix. Ma anche per il suo compenso, decisamente troppo basso. Rispetto alla deriva colta e melanconica che aveva contraddistinto Evans fino a quel momento, DeJohnette portava con sé una dote di creatività ed autorevolezza che era andata inesorabilmente a fiaccarsi rispetto alla fuoriuscita di Paul Motian e dai frequenti cambi di formazione (e di umore), che avrebbero contraddistinto l’estetica del pianista dal quel momento in poi.

Ci troviamo immersi in un doppio set pieno di prelibatezze, nella massima varietà possibile concessa dalla formazione in solo, duo e trio (fra cui la disneyana Someday My Prince Will Come, spesso associata all'impareggiabile versione in sordina di Miles), radiosi gioielli di casa - Waltz For Debby e Turn Out the Stars - e tutta la squisita musicalità racchiusa anche nel gusto esecutivo di Round Midnight, Stella By Starlight, Alfie, Embreaceable You, standards sognanti e pregiatissimi. Non meno che perfetto l'apporto di Gomez, grazie a un fraseggio estremamente mobile e votato all’interplay, rappresentò uno dei partners ideali del pianista del New Jersey.

La musica è distillata con vigorosa eleganza: ardite concezioni armoniche puntellano una nuova e seducente coesione artistica ed un linguaggio espressivo di un'intensità senza pari. La registrazione è ottima, la confezione (libretto estensivo con foto dell’epoca, saggi e altre testimonianze commissionate, fra cui una anche dell'attore Chevy Chase, che si scopre essere compagno di studi di Donald Fagen), di lusso. Per sublimare un simile stato di grazia c'è anche l'ulteriore colpaccio del produttore Zev Feldman, capace di scovare una splendida cover del tutto inedita firmata da David Stone Martin, l'illustratore caro a Norman Granz, che caratterizzò con il suo tocco fatato l'epopea della Verve Records.