Complessità, questo il termine che racchiude in una sola parola l’essenza, lo spirito, l’idea di un orto d’ autore che da tempo era mia intenzione raccontarvi. Proprio perché racchiude in sé tanta biodiversità, tante specie vegetali, in continuo mutamento, fermarlo in un’immagine fotografica o farne una narrazione mi sembrava troppo difficile. Tanto è l’impatto che provoca questo giardino a livello sensoriale che non si può che essere rapiti dal suo fascino misterioso. Alle volte la bellezza è capace di innescare una sorta di magia. Bisogna però prima di tutto conoscere il suo autore, creatore spontaneo che si definisce così, “non sarò mai un giardiniere”, il giardiniere è anche il titolo di un suo componimento riportato in una piccola pubblicazione1 da chi gli sta accanto amorevolmente, sua moglie Chiara. Ormai è riconosciuto, Franco è un redivivo Masanobu Fukuoka (1913-2008), il giapponese fondatore dell’agricoltura del non fare, dai centinaia di amici, visitatori occasionali fino ai conoscenti a cui è arrivata la voce che in questo paesino sperduto della pianura padana, Sant’Elena in provincia di Padova, c’è un’oasi speciale, che si distingue nel contorno snaturato dal “progresso scorsoio”, direbbe il poeta Andrea Zanzotto.

L’autore dell’Orto delle meraviglie, del non definito, dell’incompleto, del mutevole giardino, Gianfranco per tutti Franco, è un giovane “amatore di flora” di settantaquattro anni, ed è proprio originario di questa terra, quella degli antichi abitanti dell’odierno Veneto, gli Euganei. Abita qui, in questa antica casa rurale, da quando negli anni Ottanta con sua moglie ha deciso di vivere in campagna, invece che in città, al tempo in cui erano ancora pochi i “controcorrente”, gli scettici del mito della crescita e del progresso tecnologico economico del Paese. Se la sua formazione e i suoi studi lo portarono ad un lavoro diverso da quello amato dell’orticoltore, non ha mai lasciato che un giorno passasse senza dedicarsi alla fedele compagna, “la natura”, tanto che il suo tempo disponibile lo ha dedicato solo a sperimentare la terra, a conoscerne le sue mutevoli condizioni, energie e tessiture; alternava alla pratica le letture più assidue – invernali, dice lui, davanti ad una vecchia stufa economica – che spaziavano dalla filosofia, la tradizione, la letteratura e la poesia tra occidente ed oriente, fino ai manuali di agronomia, le flore di tutto il mondo, i manuali tecnici sull’agricoltura e l’orticoltura.

Non avendo perso tempo nell’attenzione ai media – l’ultimo film che ha visto mi racconta, con sguardo ironico e divertito, risale al 1973 – quindi a televisione, radio e computer, ha potuto sviluppare una conoscenza immensa del mondo vegetale e animale, praticando un’arte vera e propria secondo l’approccio levantino e mantenendo la curiosità del primo giorno in cui ha messo piede in questa punta di pianura fertile.

Un grande triangolo di quasi due ettari sembra ora un parco naturale dove ci si perde volentieri tra i colori differenti di migliaia di specie che convivono vivacemente tra loro in un fitto, intricatissimo sistema fuori e sotto terra, che potremmo chiamare con termine tecnico, amato dai miei colleghi forestali, un lembo di “riserva integrale”. Il Bosco giardino di Franco, infatti, non prevede classificazioni vegetali, non ci sono piante di serie A e serie B, infestanti o coltivate, nocive o benefiche, tossiche o terapeutiche, esotiche e autoctone, perché sono tutte benvenute e lasciate sviluppare secondo un ordine, un rigore, un metodo che a noi “apprendisti” rimane sulle prime misterioso. Questa alchimia apparente è fatta di grande esperienza, annosa pratica paziente che lo ha reso abilissimo nel distinguere appena germogliato un amaranto da una bamia (Abelmoschus esculentus (L.) Moench), una zucchina siciliana da una zucca serpente, una Dioscorea batatas (igname cinese o radice di luce) da un convolvolo spontaneo e via così con un “nomenclatura babelica” direbbe Italo Calvino, in cui ci si può perdere.

La riproduzione qui avviene in buona parte spontaneamente, ecco un esempio: i semi di bietola cadono durante la stagione estiva e svettano come candelabri di oltre un metro tra le insalatine o le melanzane ancora in produzione, “lasciamo che si disperdano cosicché tra qualche tempo prima che sia freddo ne rispunteranno di nuove verdi freschissime” mi suggerisce il maestro giardiniere. Le fioriture estive delle borragini sono gocce d’azzurro pallido cadute dal cielo terso dei pomeriggi di luglio, “bisogna cogliere qualche foglia tenera prima che vadano tutte a seme!”, dico io; “ma no - risponde Franco - ne vedrai un mare infinito tra qualche settimana e ci stancheremo di mangiarne” insieme agli amaranti che sono in esplosione in due o tre specie diverse, da quelli verdi a quelli color vinaccia che “appena scottati in padella - dice Franco - sono molto più apprezzabili dei lisci spinaci”. E perché non farsi una bella zuppa di quelle infestanti così disprezzate dagli agricoltori? I farinacci, o farinelli, i noti Chenopodium album, (il nome Chenopodium, si riferisce alla forma delle foglie, simile al piede di un’oca, mentre il nome volgare Farinello si riferisce alla farina bianca che ricopre le foglie che lascia tracce visibili anche al tatto) apparentemente poco attraenti, sono delle deliziose verdure una volta bollite insieme alle cicorie e le catalogne, sono delicatissime oltre che eccellenti per curare l’apparato digerente.

Ma qui si gioca in casa, mentre se ci sposta di qualche aiuola, difficilmente percepibili essendo le specie mescolate e non in righe tutte uguali in un terreno nudo e triste, passiamo in Perù poi in Africa, in America e poi ancora nel Medio Oriente … nell’esotismo colturale più spinto. È a questo punto che viene messo alla prova anche l’agronomo più attento e coscienzioso, di quelli che vanno con i manuali sottobraccio e pensano di conoscere le orticole. Incontriamo una mostruosità vegetale che ricorda più un’istallazione open air che una coltivazione: la indecifrabile Melothria pendula conosciuta come cetriolo della Guadalupa dal greco antico μηλοθρων, mēlothrōn "tipo di uva bianca" in riferimento a piccoli frutti di vite. Vicino a lei, che si arrampica su un vecchio mandorlo, scorgo un tipo inusitato di cetriolo delle Ande che ci porta tra i popoli indios Quechua. Piccoli come delle piccole caramelle sembra che questi cetrioli siano stati raffigurati nelle ceramiche fitomorfe del Perù, sono i Quechua Kaywa o in latino Cylclantera pedata, si colgono tra agosto e settembre ed hanno un gusto fresco indefinibile, per noi abituati ai gusti più comuni.

Tanti, nel periodo estivo, i tipi di cetriolo che si diverte a coltivare, in parte conservando i propri semi di anno in anno, in parte acquistando da vivai molto forniti i semi e i bulbi, che solo a guardarli nei coloratissimi cataloghi viene il desiderio di possederli tutti. Uno di quelli che ho più apprezzato per la forma e il colore quasi psichedelico, a detta di Franco uno dei più facili da coltivare è il Kiwano, detto anche cetriolo africano o melone cornuto (Cucumis metuliferus). Il suo frutto, che è di dimensioni simili ad un piccolo melone, è verde, con tanti piccoli cerchi più chiari sopra i quali emerge un mucrone di un centimetro molto pungente. Una volta sbucciato, la sua polpa ha il sapore e la consistenza del cetriolo al gusto fresco di limone se viene raccolto verde, se si aspetta che ingiallisca e maturi sulla pianta fino ad ottobre, acquisirà il gusto di banana.

Il metodo quindi è semplice e complicatissimo allo stesso tempo, le specie si mescolano, alcune nascono, mentre altre spariscono, si degradano e su quelle rinascono altri semi un po’ per volontà del demiurgo di questo microcosmo, un po’ perché naturalmente rigenerate; sulle spoglie dei resti delle patate appena raccolte si mettono giù le piccole piantine di decine di varietà di cavoli (dal riccio al fiolaro, al calabrese, a quello nero), dopo i ceci utilizzerà come letto di semina qualche strame proveniente da altre coltivazioni per inserire nuove cipolle, agli e radicchi di tutti i tipi. “Attenzione però lì stanno ricrescendo le nigelle, delicati fiori celesti che non vanno disturbati, meglio lasciarle altrimenti non ne avremo più l’anno a venire!” Anche i tagete, alti due metri, sono delle specie che hanno un colore arancio ed un verde smeraldino nelle foglie, e non si possono limitare, sono belli e utili per gli insetti troppo voraci.

“Ieri - dice ai suoi visitatori, durante una delle tante visite inaspettate - mi è arrivata una nuova ospite una pianta acquatica che non avevo, dai fiori gialli, il laghetto è giovane, ha solo quattro anni.” In realtà è già denso di specie che convivono in un’armonia dettata dal miglior paesaggista, qui mi ricorda Gilles Clement: la sagittaria, il falso papiro, il fiore di loto, le ninfee, l’elegante pontederia dalle spighe viola e la semplice salicaria dei fossi che compete per le fioriture malva, mentre il giacinto d’acqua dai fiori azzurro pallido va tra poco ritirato, soffrirebbe troppo i rigori invernali. In novembre i lavori si spostano nel bosco, oltre a tagliare qualche frasca e rami caduti per la stufa, si raccolgono le nespole, le mele, i melograni giganteschi che esplodono ancora appesi perché troppo maturi, i funghi sotto i pioppi, e gli alberi morti, i cachi che ornano di giallo, arancio e rosso spazi e anfratti del giardino che sta diventando un nuovo scenario multicolore. Platani, pioppi bianchi cipressini (specie rara trovata in Croazia), lecci e allori si mescolano ai carpini e le querce di tante varietà, riconoscibili dalle multiformi ghiande che piovono ininterrottamente da un mese. Il noce possente – mi racconta – lo piantai nel 1985 quando mi regalò una pianta un amico che rientrava dalle Marche, ora è un gigante di 20 metri che ha prodotto pile di cassette difficili da posizionare nella cantina già ricolma di cipolle, patate e zucche. “Ah le zucche che passione, soprattutto quelle spaghetti (un tipo di Cucurbita pepo) sono le più divertenti”, mi confida, “se le metti a bollire, poi le svuoti, diventeranno un gustoso piatto di spaghetti da condire con sugo e parmigiano”.

L’orto è un inestimabile laboratorio sperimentale dove chi interviene deve farlo in punta di piedi, acconsentire il più possibile, osservare e cercare di capire che quanto meno si interviene tanto più si riceve. La generosità della natura è un tutt’uno con quella del suo curatore che da quarant’anni ormai si affida a lei come guida, come maestra; i suoi tempi vanno accolti e non accelerati, vanno osservati e mai sopportati perché la sorpresa è quotidiana. Qui in quest’oasi sono venuti entomologi a studiarne la biodiversità tante sono le specie di insetti che vi convivono più o meno in armonia, la competizione la si vede, quella con le piante che si difendono come possono, anche facendo scudo alle volte come esemplari sentinella, immolandosi per salvarne delle altre, ma come funziona bene l’impollinazione e quante farfalle variopinte! Oltre Fukuoka, dico io, perché nell’Orto di Franco oltre alla teoria e la pratica c’è anche la bellezza.

Il tour in giardino è finito, ma viene voglia di ricominciare, sbirciando un’ultima occhiata tra limoni, pompelmi, aranci amari, cardamomo, curcuma e zenzero, mentre un odore pungente di curry richiama la mia attenzione: “Ah sì l’elicriso, ormai vive anche qui… che non è più freddo, in tanti anni quante nuove creature ho potuto godermi che non avrei mai pensato di potermi permettere!”

1 Franco Sandon, Il Giardiniere, 2011 Padova.