Nihil humani a me alenium puto.

(Publio Terenzio Afro)

Digitalizzazione e globalizzazione sono parole con cui siamo ormai in piena dimestichezza, ma che tuttavia implicano molto più di ciò che abitualmente siamo portati a pensare. Non è solo la pervasività di entrambe i fenomeni, ma anche il reciproco intreccio, a sfuggire.

É che, come è stato detto più volte, questi cambiamenti radicali si sono prodotti così velocemente da renderne estremamente difficile l’elaborazione culturale. Il tempo è schizzato in avanti, e l’intera società umana ha subito una accelerazione. Così velocemente, da impedire la consapevolezza piena e diffusa dei cambiamenti stessi - di tutto ciò che hanno prodotto, che producono e che produrranno nel prossimo futuro.

L’intera storia umana è, in effetti, caratterizzata da una continua accelerazione, e più volte si sono registrati ‘scatti’ in avanti, ma mai prima d’ora - mai come adesso - ad una velocità tale da sfuggire alla nostra piena capacità di comprensione. Per la prima volta, le trasformazioni prodotte dall’uomo ne hanno sopravanzato la possibilità di controllo; non è il dominio delle macchine, immaginato da taluna fantascienza novecentesca, e nemmeno quello dell’intelligenza artificiale, che nell’immaginario ha preso il posto di quelle. Ma è qualcosa che si (e ci) pone su un ripido crinale.

Negli ultimi tre lustri, si è determinato un passaggio epocale, quello dall’Antropocene, l'epoca geologica nella quale è stato l'essere umano a determinare le modifiche territoriali, strutturali e climatiche del pianeta, al datacene, l’era geologica che segna il dominio dei big data.

Il datacene non è la semplice digitalizzazione del sapere universale, che anzi al confronto appare vetusta, ma la più estesa e profonda estrazione di dati dalla vita degli esseri umani che si sia mai vista. Questa estrazione è stata resa possibile dal concorso di molti fattori, ma l’elemento fondamentale è stato lo sviluppo e l’applicazione di algoritmi computazionali. E soprattutto, la mole di dati estratti è talmente vasta e profonda, da rendere impossibile padroneggiarla senza ricorrere a sua volta - appunto - ad algoritmi computazionali. In questo senso, quindi, va inteso il concetto di datacene: l’accumulo di dati ha raggiunto una massa critica tale che è impossibile estrarne qualsiasi valore, se non ricorrendo ad una gestione computazionale, in tutto e per tutto simile a quella che l’ha prodotta (e che costantemente ne alimenta il corpus).

La cosa più singolare, in questo processo di digitalizzazione delle vite umane, è che esso non promana da un potere centrale riconoscibile, non è l’avverarsi della profezia orwelliana. Gli “estrattori” - ed i gestori dei dati estratti - sono un gruppo ristretto di aziende private multinazionali, la cui collocazione geografica è più o meno accidentale (anche se occidentale...).

In quanto aziende, esse non sono interessate specificatamente al meccanismo foucaultiano del “sorvegliare e punire”, ma piuttosto all’estrazione di profitto. Lo scopo della “sorveglianza digitale” che mettono in atto Google, Facebook, Amazon, Apple, Microsoft and co., è reperire dati che, sottoposti ad elaborazione computazionale, restituiscano profili comportamentali predittivi. In poche parole, che siano utili al mercato pubblicitario (e non solo...).

In effetti, quello della profilazione a fini pubblicitari, a cui peraltro ci stiamo velocemente abituando, è già il mondo di ieri. Senza che ce ne rendiamo del tutto conto, il mondo di domani sta già prendendo forma nel presente.

L’estrazione di dati dalla vita delle persone ha già fatto un balzo, nel momento in cui lo sviluppo tecnologico ha portato uno smartphone nella tasca di tutti. Per la prima volta, infatti, lo strumento “estrattore” ha smesso di essere un dispositivo più o meno stabilmente collocato, come il nostro computer, per diventare qualcosa che ci segue h24 sette giorni su sette. Ma intanto sta già avanzando la nuova frontiera della digitalizzazione, l’IoT.

Come per i precedenti passi della tecnologia digitale, anche l’Internet of Things (Internet delle cose) si presenta con la faccia più suadente possibile. Ma cos’è l’IoT? É, semplicemente, la connessione di ogni oggetto, con una qualche forma di alimentazione elettrica, e costantemente “presente” in rete; ciascuno dotato di una sua propria intelligenza artificiale, e capace di scambiare informazioni in tempo reale con altri oggetti o con servizi remoti.

Il vostro frigorifero e l’impianto di condizionamento, l’allarme di casa e la vostra auto, l’impianto stereo e lo spremi agrumi. Ciascuno di essi programmato per fare cose al posto vostro, e in prospettiva per assumere decisioni indipendentemente da voi.

Avete alzato la temperatura domestica tramite un’App del vostro smartphone, perché state per rientrare, ed il frigo autoregola la sua, di temperatura. E se è scaduto il latte, invierà l’ordine al vostro fornitore. Se la pressione delle gomme è troppo bassa, l’auto prenoterà l’appuntamento col gommista; ma se foste in ritardo col pagamento delle rate, potrebbe accadervi che al prossimo tentativo rifiuti di farvi accedere, e segnali la propria posizione al servizio di rimozione del concessionario...

Ma in effetti, la questione vera non è se l’IoT porti con sé o meno aspetti negativi; questo è inevitabile. Come ha detto qualcuno, l’invenzione del treno porta con sé l’invenzione del disastro ferroviario. La questione fondamentale è che ciò produrrà una moltiplicazione degli strumenti estrattivi, che arriverà a coprire interamente l’esperienza di vita. E quanto più è elevata la quantità di dati estratti, tanto più alta è la capacità di elaborare strategie predittive che si approssimano alla certezza. Da lì al condizionamento, è un attimo.

Inoltre, se è vero che questo genere di sviluppo tecnologico ci libera - dal ricordare, dal fare - è anche vero che ci sottrae pezzi di esperienza di vita. Non faremo più due chiacchiere col lattaio, perché sarà il frigorifero a comunicare con lui (o meglio, con il suo dispositivo dedicato...). E ce li sottrae anche perché le informazioni sulla nostra dieta alimentare, insieme a migliaia di altre che i nostri dispositivi immetteranno in rete, serviranno ad orientare i nostri consumi, in un modo così preciso e pervasivo quale nessuna tecnica di marketing ha mai potuto anche solo immaginare.

Come si diceva prima, l’uso estrattivo delle tecnologie digitali è dipeso da svariati fattori1, tra cui primariamente l’opportunità: fondamentalmente, ad un certo punto della sua storia aziendale Google ha avuto un problema di remunerazione del capitale, ed al tempo stesso possedeva una quantità smisurata di dati “di scarto”, un po’ come trucioli in una falegnameria. Tutto è nato dall’intuizione che con quei “trucioli” si poteva fare più profitto che con la lavorazione del legno.

Ma ciò che ha consentito l’affermarsi di questo modello economico, possibile solo all’interno di un quadro di assoluto vuoto normativo, è stato il coincidere con l’epoca della “guerra al terrore”. Le varie agenzie di sicurezza governative, più che preoccuparsi per l’invasione (ed il saccheggio) della privacy dei cittadini, vi hanno a loro volta visto una straordinaria opportunità di controllo. Ed oggi stiamo vivendo un’esperienza ancor più potente e pervasiva, il terrore pandemico. La risposta alla pandemia è globalmente orientata verso un salto in avanti in direzione del controllo digitale, della sua estensione e del suo approfondimento.

Anche solo per restare alla superficie, basti pensare alla spinta verso lo smart working, l’adozione della Didattica a Distanza (DaD), il tracciamento sanitario... Tutte modalità “emergenziali”, ma che vengono insistentemente indicate come modello per il futuro.

Ancora una volta, questo futuro ci viene prospettato come ineluttabile, anzi, necessario ed auspicabile. Per la nostra sicurezza, per la nostra qualità della vita.

Ma, in questi termini, quello che si prospetta è un rovesciamento del rapporto uomo-tecnologia. Nella nostra storia, dalla ruota al computer, ogni “invenzione” ha risposto ad una esigenza umana; e certo, gli strumenti adottati hanno modificato il nostro modo di vivere. Oggi però, per la prima volta, abbiamo di fronte uno strumento così pervasivo, da coprire praticamente l’intero pianeta, così potente, da condizionare le nostre scelte in modo stringente, e così complesso, da poter essere governato soltanto da altri strumenti.

Non è la società dominata dai robot immaginati nel 1920 da Karel Čapek, ma è comunque un orizzonte distopico.

Pure, questo è il nostro mondo, il nostro tempo. Pensare di fermare l’accelerazione tecnologica, come fecero i seguaci di Ludd distruggendo i primi telai meccanici, è insensatezza, neanche utopia. La battaglia va quindi fatta non contro le tecnologie, ma per un loro diverso utilizzo. Per questo, è importante che vi sia piena consapevolezza di tutto ciò che comportano, in termini di trasformazione della nostra stessa esistenza.

Acquisire questa consapevolezza è il primo passo verso la riappropriazione di ciò che viene estratto dalle nostre vite.

Solo dopo che questa riappropriazione sarà compiuta, diventerà possibile riorientarne l’utilizzo. Quella che abbiamo di fronte, come specie, è una sfida epocale, in cui ad essere in gioco è la sopravvivenza sul pianeta e del pianeta. Abbiamo quindi bisogno di avviare processi capaci di modificare nel profondo la nostra relazione culturale col pianeta e con le ‘macchine’. Di ridisegnare l’orizzonte in cui collochiamo la nostra esperienza di vita.

Esperire il mondo, sperimentare nuove forme di coesistenza, mettere in atto azioni capaci di innescare trasformazioni positive.

Non solo una nuova coesistenza tra umani, ma anche con le altre specie, con l’habitat che con esse condividiamo. E, imprescindibilmente, anche con il moloch dei big data. Che dobbiamo riconvertire ad un uso pro bono.

Il tempo è adesso.

1 Sul tema, cfr. Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, LUISS.