Dicono che un attimo prima di morire si riveda tutta la vita scorrere davanti agli occhi.

Posso affermare che ciò non corrisponde a verità.

Ho sperimentato, qualche volta, ciò che si prova davanti alla morte come, ad esempio, nell’imminenza di uno schianto durante un atterraggio d’emergenza in qualche isola spazzata dal vento o prima che il respiro si inondi d’acqua nel bacio mortale del mare, quando qualcosa di grave avviene durante una immersione in qualche sperduta scogliera corallina.

In quei dannati momenti, davanti agli occhi, passa solo l’immagine atroce di ciò che di lì a qualche secondo avverrà del tuo povero essere, e la mente, nel terrore assoluto, valuta spasmodicamente solo ciò che si può fare, se qualcosa si può fare, per evitare la fine.

No, la spassionata rivalutazione della propria vita e del senso che se ne può trarre, è per me appannaggio di quei momenti di tregua prima di riprendere la battaglia contro un nemico pericoloso ma che si ritiene gestibile, che costituisca una reale minaccia di morte, ma che il mattino dopo possa essere affrontato razionalmente e forse anche sconfitto, come, per esempio, avviene di credere ad un medico durante una grave epidemia, anzi una Pandemia.

Anche questo mi è capitato di dover affrontare, proprio in qualità di medico, durante l’emergenza sanitaria che si è improvvisamente presentata, giungendo da frontiere lontane, in questi primi mesi del 2020.

Ecco in certi momenti, di sera, nelle cupe, solitarie ore di riposo prima di riaffrontare un mostro invisibile, pensando alla reale possibilità di morire come è già successo a tanti colleghi, allora sì che mi è capitato di veder scorrere davanti agli occhi tutta la mia vita e di rivalutare ciò che sono stato, ciò che sono diventato, ciò che ho ottenuto e ciò che mi è toccato in sorte di vedere sotto il sole.

E nauseato dal senso di impotenza nel constatare la crisi del nostro tracotante e patetico sistema di vita, basato sull’illusoria convinzione che scienza e tecnologia ci avessero ormai spianato la strada verso illimitati orizzonti gloria, di fronte alla angosciosa possibilità di venire sconfitto da un nemico così piccolo ed insignificante eppure apparentemente inesorabile, e isolato da tutti gli affetti, ho cercato conforto nei libri.

E uno come me, in un momento di tale disperazione, non può ripensare alla propria vita, cercando di trarne significato, senza tornare ad un Libro in particolare, anzi al Libro per eccellenza richiamato alla memoria da un passo misterioso ed affascinante nascosto in esso: il libro è la Sacra Bibbia e il passo è il Qohelet, meglio noto come Ecclesiaste.

Perché proprio questo testo?

Il Qohelet è un libro sapienziale dove un anziano saggio che si qualifica come Salomone, sul finire di una vita agiata, ripensa alla propria esperienza esistenziale traendone conclusioni amare e sconsolate generando uno scandalo che inquieta da sempre gli studiosi e soprattutto gli esegeti delle Sacre Scritture, perché proprio in Esse questo breve passo è stato inserito come un algido, sulfureo scoglio che sembra porre una seria ipoteca sull’Alta Speranza cui alludono.

E infatti, nel considerare la mia vita, non ho potuto fare a meno di constatare come le mie povere cose, le mie conquiste di fronte al destino che sembra incombere sul nostro mondo, sul mio mondo, non siano altro che quel terribile vanitas vanitatum, vanità delle vanità, di cui parla proprio il Qohelet.

E tutte le vuote parole e il vano chiacchiericcio mediatico che ha caratterizzato questa tragedia, i vari medici eroi, gli slogan sbandierati come patetici usberghi di fronte all’epidemia, quegli “io-resto-a-casa” o “insieme-ce-la-faremo”, quelle orribili teleconferenze pur mosse da buone intenzioni non possono trattenermi dal pensare, come l’improbabile Salomone del Qohelet, che: “ Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più usarle”(Qo 1,8).

E tutta la nostra ricchezza, il nostro PIL che cala di giorno in giorno, i titoli bancari che crollano, le fabbriche che chiudono, piccoli artigiani, imprese familiari nei settori del turismo o della ristorazione che falliscono, come non gridare con lui:

Io ho in odio ogni fatica di cui io ho faticato sotto il sole... Ho il cuore invaso dalla disperazione per tutta la fatica con cui ho faticato sotto il sole... Anche questo è vuoto!

(Qo 2,18,21)

E che dire dell’ingiustizia sociale che si credeva ormai sanata ma che la crisi economica del 2007 ed infine questa tragica pandemia ha ripresentato con una evidenza e una violenza inaudita se non esprimere il nostro disgusto con il misterioso autore dell’Ecclesiaste:

Io mi sono messo a considerare tutte le violenze perpetrate sotto il sole: ecco le vittime da nessuno consolate, da nessuno consolate contro il forte potere dei violenti. Io allora ho proclamato i morti più beati dei vivi ancora in vita, e più beato di entrambi chi non esiste ancora e non ha ancor visto tutto il male perpetrato sotto il sole.

(Qo 4,1-3)

Ma allora che senso ha la condizione umana? La mia in particolare, da cui sono partite queste riflessioni?

Qui il testo si fa davvero singolarmente adeguato alla presente drammatica contingenza mostrando così, a più di duemila anni, la sua universale attualità perché a tal proposito recita:

Come erba sono i giorni dell’uomo,
come il fiore del campo cosi egli fiorisce.
Ecco, lo investe il vento e non c’è più,
il suo luogo più non lo riconosce.

(Qo 103,15-16)

E così via in una devastante constatazione della caducità umana in cui anche le piccole gioie della vita, che ad un certo punto Qohelet invita a godere, sono insidiate dal gelido soffio del nulla.

Questo piccolo terribile testo procede incalzante verso la fine con una visione sulfurea sotto una luce caliginosa dove il sole pare eclissato:

Allora si troncherà il filo d’argento
si fracasserà la sfera d’oro
si infrangerà la brocca alla fonte
si schianterà la ruota nel pozzo
e la polvere ritornerà alla terra,
come lo era prima,
e l’alito vitale a Dio che l’ha dato.
Un immenso vuoto, tutto è vuoto!

(Qo 11,7-12,8)

Leggendo, il ritmo delle parole si trasforma in musica e nel silenzio della sera mi risuona nella mente il secondo tempo della Nona Sinfonia di Beethoven.

Ma allora chi è Qohelet? Come inserire un testo simile in un Libro di gioia e di speranza? E soprattutto perché, pur nella sua durezza, mi dà conforto?

La via, come indica Gianfranco Ravasi, uno dei più autorevoli teologi del nostro tempo, l’aveva già indicata Origene, filosofo del III secolo: “Il vero Ecclesiaste è Cristo il quale, essendo in forma di Dio, ha svuotato se stesso, assumendo la forma del servo”. Quindi il Qohelet è, insieme alla sublime e straziante notte di Getsemani, una delle più alte testimonianze per cogliere il senso dell’incarnazione di Dio nella Storia dell’uomo.

Perché Cristo, il Dio svuotatosi, si è fatto servo, cioè Uomo, per comprenderlo ed aiutarlo proprio dall’interno delle sue sofferenze, dei suoi dubbi e dei suoi fallimenti.

Qui Dio si manifesta nella forma meno sontuosa possibile, abbassandosi al nostro livello fino a condividere la più caratteristica dimensione psicologica che affligge l’uomo, cioè la perdita di senso e l’assenza di risposte.

È Cristo, il Verbo incarnato che ha subito la tortura e la croce, che qui passa attraverso il dubbio ed il senso di vuoto, gettando il seme di quell’Alta speranza che la redenzione reca in sé.

Non a caso, nell’Antico Testamento, dopo il Qohelet viene il Cantico dei Cantici, e intanto la sera si è fatta notte serena, dopo il tumulto del secondo tempo, la Nona Sinfonia apre il terzo movimento che con la sua quieta lirica prepara il trionfo dell’Inno alla Gioia.