Lászlo quel pomeriggio stava pensando a un giardino pieno di margherite nel quale avrebbe dovuto sgozzare Tyson Kranxer, un franco-samoano che gli doveva 50 mila euro per un affare non concluso. Le margherite erano perfette per il sangue - ripeteva fra sé e sé - e gli piaceva anche immaginare l’erba del prato sporca delle gocce quando sarebbe zampillato, poi guardare nel vento le piante intatte accerchiare un cadavere perfetto, e lasciare risplendere al sole un delitto quasi caleidoscopico.

Un paesaggio stupendo, banale, abbandonato subito perché Violet le era seduta addosso, non capendo perché non lasciasse stare davanti al paesaggio che le offriva nuda. Poi un attimo, roteò sopra Lászlo e serrò completamente l’interno coscia sinistra al suo bacino, infiggendo anche quello destra e lasciandolo godere fra seno e capelli, mentre adulava pacatamente la sua erezione. Bastava questo per far cadere la sedia, per vedere Lászlo prendere Violet e portarla dentro la stanza fredda dei panni, entrare nel suo corpo, abbracciarla, dimenticare la fine del mondo, Tyson, lo spaccio, e per intuire quanto - nel rifugio del bucato - desiderasse veramente fare l’amore con una puttana. C’erano odori, specialmente quello del detersivo, che attecchivano e inebriavano ogni espirazione dispersa, e che a Lászlo facevano amare la vita quanto l’odore della droga, della primavera o del gelsomino che emanava Violet, tornando poi nel fiato, dalle braccia, sul bagnato, a pungere ad ogni sguardo eclissato nel piano del manto rosso granata. Sapeva che provava, erano come ricordi lavati da un sentimento infelice, che liberavano una magia nervosa tutta da far esplodere, come un pianto arrossisce gli occhi e trucca una geografia del riflesso, poiché bene o male quegli odori lasciavano sempre un ricordo felice, infinito e malinconico.

Lászlo erano quasi tre anni che piangeva solamente due tre volte l’anno, ma sapeva anche che questo numero impreciso derivava proprio dal fatto che non riusciva a piangere, tanta infatti era la ripetizione della stupidità delle cose o delle persone che avrebbero dovuto farlo piangere, e spesso era talmente fatto che si convinceva che la droga lo aiutasse più delle persone o della sua immaginazione. Quando dentro la stanza dei panni l’ammorbidente confondeva l’ossigeno, una memoria improvvisa lo riportava a dei giardini che non aveva mai visto, pieni delle margherite sfilate alla terra che da bambino non sapeva vedere, ché piangere non aveva nulla a che fare con la morte se adesso quel giardino tornava uguale a un dipinto.

Poi un altro odore che lo faceva impazzire era quello della vernice fresca, oppure quello del basilico umido, oppure quello degli pneumatici nuovi dentro le officine, ché in confronto l’odore della benzina era solo un ricordo lungo una strada notturna. Lászlo non amava correre sotto 200km/h, a maggior ragione se prendeva la sua Ferrari Testarossa F512M, la sua ideale per terrorizzare sua moglie e farla ridere per quanta cocaina assumeva ogni volta che non decelerava, seguendo un ritmo alla tirata non solo percepito duplice, ma fatto ondulare anche sopra Hypnotic Poison effuso dal collo e riportato al suo giardino da un bacio. Un ricordo come tanti, un odore come tanti. Lászlo non era d’accordo, voleva dire che era stato un profumo, usare un’altra espressione, che aveva avuto un senso, e che quel bacio era stato meglio della cocaina, e forse anche della musica.

Quella notte ignorava che tredici anni dopo sarebbe morto, e che sua moglie lo avrebbe pianto maledicendo la cocaina e maledicendo Tess, quella ragazzina che lo aveva fatto innamorare solamente per averlo guardato. Un ricordo come tanti, un odore come tanti. Al suo funerale irruppero venti uomini della mafia ungherese e spararono a tutti uccidendoli. Sua moglie non esisteva, Tess non esisteva, Lászlo non esisteva. Ma esistevano cose decisamente importanti, come tornare a piangere. E cose decisamente meno importanti, necessarie per tornare a scrivere, come l’odore del detersivo, Violet o della pizza bianca al mattino.