In fondo anche mio padre mi aveva tradito. Con i suoi princìpi e le sue certezze, alla fine, anche lui mi aveva ingannato. Mi diceva sempre: “Pino, figlio mio, nella vita è tutta una questione di tempo, vedrai. Quando si lavora e lo si fa onestamente, i risultati arrivano, è matematico. Importante è essere corretti e perseveranti – diceva - sì, soprattutto perseveranti”. La sua vita ne era stata la prova. Nella ditta dove aveva lavorato per oltre quarant'anni era partito dal basso, all'inizio addirittura non veniva pagato poi però, piano piano, era salito di livello e con incarichi sempre diversi e responsabilità sempre maggiori erano arrivati i riconoscimenti e gli aumenti di stipendio. Anche la sua vita sentimentale, l'incontro e la relazione con mia madre, erano la dimostrazione che anche in amore non basta sognare ma bisogna essere pronti a lottare e la cosa più importante, anche lì, è non mollare mai, ma perseverare.

Non aveva avuto la vita facile mio padre, i miei nonni materni avevano cercato in tutti i modi di dissuadere la loro unica figlia dal cedere alle lusinghe di quel giovanotto di belle speranze ma di poche sostanze. Lui però non si è mai dato per vinto e alla fine si sono sposati. L'ho sempre ammirato mio padre - e chissà - sotto sotto anche un po’ invidiato per quella sua chiarezza e per la sua forza d'animo, qualità che lo hanno reso capace di procedere nella vita sempre con gran decisione e vigore. Per questo forse, crescendo, avevo cercato di essere come lui, certo così di avere in mano la chiave per la felicità e il successo. Anch'io avevo lottato per la donna che amavo e che poi è diventata mia moglie. Me le ricordo come ieri le facce dei suoi genitori, due persone odiose, originarie di Varese. Non volevano sentir parlare di me e della mia famiglia per nessuna ragione al mondo e disprezzavano le mie origini meridionali, arrivando addirittura ad insultarmi. Ma non sapevano con chi avevano a che fare! E gliel'ho ben dimostrato. Lo stesso è stato per il lavoro. Seguendo la mia predisposizione naturale per l'elettronica ho iniziato a lavorare come aiutante tuttofare in un piccolo negozio di riparazioni. Lo stipendio era modesto ma il lavoro era facile e piacevole, nel quartiere le persone avevano cominciato a volermi bene perché riuscivo ad aggiustare tutto - o quasi - e il proprietario del negozio, il vecchio Rag. Pennisi, mi diceva sempre: “Mi piaci ragazzo mio, mi piace come lavori, se vai avanti così farai sicuramente strada”.

Sono trascorsi vent'otto anni da allora e non c'è stato giorno in cui io non abbia pensato a mio padre o sia stato ispirato dai suoi racconti e dal suo esempio. Questo mi ha permesso di guardare all'evoluzione della mia vita sempre con particolare fiducia e ottimismo. Ieri, quando il Rag. Pennisi mi ha chiesto di restare un po' più a lungo perché mi voleva parlare, ho pensato, ecco, ci siamo, è arrivato il giorno della promozione. Lo sentivo che sarebbe arrivato quel momento. Ho ripulito per bene il bancone e poi, come ogni giorno, ho riposizionato gli attrezzi alla parete e disattivato i macchinari. Tutto questo trattenendo a fatica l'emozione e continuando a fantasticare sull'entità del premio, addirittura spingendomi oltre, immaginando l'espressione compiaciuta ed orgogliosa di Adele, mia moglie, il piacere di darle la notizia, la cena insieme in quel ristorante lussuoso a Mondello dove da anni sogna di poter andare. Il Rag. Pennisi mi ha accolto nel suo ufficio e mi ha fatto sedere sulla sedia di fronte alla sua scrivania, poi si è messo in piedi di fronte a me guardandomi serio con la fronte corrucciata. Alle sue spalle, appeso alla parete, c'era il ritratto di Benito Pennisi, il padre e fondatore dell'azienda. Anche Benito, che assomigliava moltissimo al figlio Giovanni, sembrava intenzionato a partecipare al nostro incontro e continuava a fissarmi. “Caro Giuseppe, i tempi cambiano” aveva esordito il ragioniere scrutandomi con attenzione, quasi avesse voluto intercettare le mie reazioni. “Ah, si!” Avevo risposto io bonariamente, sempre più perso nelle mie fantasticherie. “Lei è sempre stato un lavoratore eccezionale” aveva poi aggiunto, appoggiandosi alla grande scrivania. “La ringrazio ragioniere” avevo replicato. “Per me lavorare qui è sempre stato un piacere” avevo poi aggiunto, sentendo improvvisamente sorgere dentro di me una strana inquietudine. “Stiamo diventando moderni! Ha visto il nuovo computer in laboratorio? Una meraviglia tecnologica!” “Sì, l'ho visto! Anche se ad essere sinceri, ragioniere, mi ha un po' inquietato. Ho paura che il progresso con la sua mania di velocizzare tutto arriverà a toglierci il piacere della manualità”. Avevo detto trattenendo a stento una sensazione d'ansia crescente. “Come potrei biasimarla? Sono anch'io di quella scuola sa? Ma i tempi sono cambiati. Tutto è diventato veloce, anzi velocissimo” aveva detto abbozzando un mezzo sorriso. “Beh, anch'io sono molto veloce, i clienti continuano a farmi i complimenti… proprio ieri...” “Caro Giuseppe - mi aveva subito interrotto il ragionier Pennisi - sa, a volte bisogna essere onesti e guardare in faccia alla realtà. La maggior parte degli elettrodomestici oggi è digitale, lo vede anche lei, anche le automobili, tutto sta cambiando. Se non ci attrezziamo per tempo rischiamo di scomparire, lei lo capisce questo, vero signor Giuseppe? Lei è con noi da più di 25 anni, mi dica, onestamente non è stufo di lavorare? L'ha detto anche lei proprio l'altro giorno, largo ai giovani! Mi stavo chiedendo quindi… se...”. Fu in quel momento che capii che quanto stava accadendo era qualcosa di molto diverso rispetto a ciò che avevo immaginato. E mi era ritornato in mente il ghigno di un ragazzotto che negli ultimi giorni avevo visto bazzicare in laboratorio e che il Pennisi mi aveva frettolosamente presentato come “...questo è mio nipote, genio dell'informatica” ma io, concentrato in qualche riparazione urgente, non gli avevo dato retta e certamente non l'avevo collegato all'enorme computer che troneggiava ancora imballato sul bancone. “Quindi mi sta licenziando?” avevo esclamato io sferzante, cercando al tempo stesso di farmi coraggio guardandolo in faccia ma, guarda caso, il suo sguardo si era fatto improvvisamente sfuggente. Così la sua figura che aveva preso a muoversi avanti e indietro nella stanza. Si vedeva che era nervoso o forse imbarazzato. Ma io non lo perdevo di vista. “Non posso più tenerla, è diverso. Mi rincresce dirle tutto ciò, ma mi creda, economicamente è un momento difficile, le ordinazioni sono in calo e non mi posso più permettere dipendenti con la paga fissa, lei capisce...”. “Ma come può farmi questo? Sono anni che mi faccio il mazzo in questo posto e lei mi ha sempre fatto credere nella possibilità di una crescita, di un salto di qualità... e ora …”. “Sig. Giuseppe, comprendo i suoi sentimenti. La prego, stia calmo. Le faremo avere una generosa somma quale liquidazione, la sua fedeltà, è indubbia, non tema, verrà riconosciuta. Lei ha la mia parola”.

Quelle furono le ultime parole del Rag. Pennisi che da quel momento ignorò completamente Giuseppe tant'è che gli voltò le spalle e si mise a riordinare delle carte sul tavolo. Suonò il telefono e il ragioniere cominciò una conversazione privata come se fosse solo. Giuseppe, smarrito e con il cuore in gola dalla disperazione, non poté far altro che indietreggiare, aprire la porta ed uscire dalla stanza.

Quando Adele udì suonare il campanello di casa guardò l'orologio: erano le otto passate. Giuseppe rincasava sempre alle sei. È vero, capitava a volte che avesse da finire qualche riparazione urgente e si dovesse trattenere, ma in quel caso chiamava, aveva sempre chiamato. Quella sera non l'aveva fatto. La breve distanza che quotidianamente percorreva a piedi tra il laboratorio e la loro casa, quel giorno, fu per Giovanni un supplizio. Tutto appariva diverso, tutto era cambiato. Il giornalaio che lo salutava sempre non si era visto, i bambini giocosi e scatenati del parco erano apparsi insopportabilmente eccitati e rumorosi, il parco stesso non era più lussureggiante e fresco ma appariva mal curato e sporco. Come avrebbe affrontato la spinosa questione con la moglie ignara di tutto? Giuseppe aveva disperatamente cercato la risposta camminando verso casa ma ad ogni passo si era sentito soffocare sempre di più, preda di un crescente senso di fallimento. Temeva l'incontro con Adele. Non sopportava l'idea di deludere Adele dopo tutti quegli anni di attese, di sacrifici e di promesse. E Clelia, la loro amata figlia. Come l'avrebbe presa?

Adele lo vide in faccia e capì subito che era successo qualcosa di serio: “Giuseppe!” esclamò. E prima ancora che potesse aprire bocca lo abbracciò e poi subito lo aiutò a sfilarsi la giacca. “Adele” disse Giuseppe, “È finita. Sono stato licenziato”. “Ma come è possibile?” rispose candidamente lei. “Ci deve essere un malinteso, dai! Tu sei sempre stato un gran lavoratore. Come possono fare senza di te?” “Non lo so Adele, è tutto così assurdo, il ragioniere oggi straparlava… i tempi sono cambiati… i tempi sono cambiati, continuava a dire”. Adele lo fece sedere a tavola. Nonostante avesse preparato le arancine Giuseppe non toccò cibo. Più tardi, seduti sul piccolo divano del salotto, si misero a guardare come ogni sera la televisione ma Giuseppe, ascoltando le ultime notizie del telegiornale, non si indignò come era solito fare, rimase inerte, con lo sguardo nel vuoto. I giorni che seguirono furono inoperosi e tristi. Giuseppe, sempre più chiuso in se stesso cadde in una depressione profonda, cominciò a svegliarsi sempre più tardi al mattino rimanendo poi a guardare la televisione, da solo, fino a tarda notte. Adele e la figlia, preoccupatissime, cercarono in tutti i modi di convincerlo a reagire ma senza successo. Per qualche tempo alcuni vecchi clienti affezionati vennero a trovarlo per salutarlo e per farsi riparare i loro piccoli elettrodomestici. Ciò ebbe un effetto benefico sul suo umore, facendo crescere in tutti la speranza. Purtroppo però le visite si diradarono fino a cessare del tutto e Giuseppe scivolò di nuovo nel suo buco nero. L'atmosfera in casa da quel giorno divenne insopportabile.

A peggiorare la situazione contribuì un episodio spiacevole occorso durante un pranzo domenicale. Clelia, che aveva 19 anni, si era presentata a tavola con il suo nuovo fidanzato, un ragazzo di nome Karim. Giuseppe, rimasto inizialmente in silenzio a spiare l'ospite, improvvisamente esplose incominciando ad investire di domande il malcapitato. “Cosa pensi di fare nella vita eh? Come pensi di guadagnarti la pagnotta? Tuo padre ti ha detto come va il mondo? E tuo padre ce l'ha un lavoro? Fu così pressante che il giovane si sentì subito molto in imbarazzo. Nonostante ciò cercò di rispondere, poi di ribattere, ma invano. Messo alle strette reagì con tutto il suo orgoglio adolescenziale apostrofando Giuseppe con un sonoro: “Non mi faccio mica insultare da te, minchione di un disoccupato che non sei altro…”. La situazione degenerò immediatamente. Giuseppe trascinò di peso il ragazzo fuori dalla porta urlandogli ripetutamente: “Ciabattone musulmano, fuori dalla mia casa!” tra i pianti ed i richiami disperati della moglie e della figlia sulle scale. Ma ciò che peggiorò le cose fu che l'incidente causò un insanabile strappo tra Clelia e i suoi genitori fino alla sua fuga definitiva da casa una settimana dopo. Adele non perdonò mai al marito di aver provocato quella ferita dolorosa alla loro famiglia. In quel clima tormentato e sofferto trascorsero alcuni mesi. Giuseppe depresso e intrattabile da una parte, Adele dall'altra che cercava di sopravvivere occupandosi delle faccende di casa o distraendosi insieme agli amici soci di una piccola associazione culturale locale chiamata: “L'Araba Felice”. “La mia salvezza”, come spesso amava ripetere Adele.

L'arrivo dei soldi della liquidazione di Giuseppe, lungamente attesi, coincise con la proposta da parte dell'associazione di un viaggio in crociera, un progetto fortemente caldeggiato da l'Ing. Bonetti, presidente emerito, a detta di Giuseppe, un “gran quaquaraquà”. Lo vedeva ogni settimana passare da casa a prendere Adele il giorno della riunione associativa. Non lo aveva mai sopportato con quel suo cappotto dalle spalle imbottite e quell'auto lussuosa dalle cromature splendenti. In realtà a Giuseppe rodeva che Adele con l'Ing. Bonetti ridesse. Sì, rideva di gusto, con quel suo bel viso solare e luminoso che Giuseppe aveva amato fin dai tempi del loro primo incontro. A casa invece, con lui, Adele sembrava triste. Si vedeva che non risplendeva più. Per questi motivi l'idea di spendere soldi in una crociera all'inizio non piacque a Giuseppe. La scusa ufficiale era l'incertezza, si viveva in tempi di incertezza, lui aveva perso il lavoro e il futuro era un'incognita. Giuseppe sapeva anche bene che Adele in tutti quegli anni non si era mai permessa un lusso o una vacanza e quanto quel viaggio rappresentasse per lei forse l'ultima possibilità di realizzare un sogno. Per questo smise di puntare i piedi e si lasciò convincere non solo ad investire le proprie risorse in quel progetto ma addirittura a partecipare in prima persona. Quando lesse il programma però gli venne male, la crociera aveva tutta l'aria di essere un “tour de force” per pensionati, quattro giorni di navigazione nei gelidi mari del Nord toccando località dai nomi impronunciabili tra Norvegia e Islanda. Una prospettiva ai suoi occhi veramente poco allettante. Perché per lui, uomo del Sud, quelle latitudini erano sempre state sinonimo di mondi lontani, non solo geograficamente. Partirono il 14 di ottobre. La prima parte del viaggio in pullman fino in Danimarca durò 24 ore. Lungo tutto il tragitto il tempo fu bruttissimo e anche alla sera i partecipanti salirono a bordo della nave sotto una pioggia battente tale da far apparire la scena più simile ad un esodo biblico o ad una deportazione che ad una vacanza. Provati dal lungo viaggio, Adele e Giuseppe, non ebbero neppure la forza di raggiungere a cena gli altri componenti del gruppo preferendo restare nella loro cabina, dove mangiarono i resti umidi dei panini del viaggio e crollarono tramortiti nelle loro cuccette. La nave mollò gli ormeggi che era notte inoltrata.

Il primo giorno di viaggio fu impegnativo. Il tempo non accennò a migliorare, scrosci di pioggia e vento gelido fustigarono per parecchie ore la nave tanto da far desistere i pochi passeggeri coraggiosi che si erano avventurati sul ponte. Il mare poi, agitatissimo, costrinse il natante ad un beccheggio estenuante e continuo che alla lunga provocò disagi e malori tra i passeggeri. Nonostante ciò Giuseppe e Adele riuscirono a trascorrere la mattinata abbastanza lietamente, dedicandosi prima all'esplorazione della nave e poi trascorrendo del tempo in compagnia degli amici dell'associazione a chiacchierare e a giocare a carte. Guardando la linea increspata dell'orizzonte Giuseppe ritornò spesso con il pensiero alle sofferenze degli ultimi mesi e sentì una profonda gratitudine nei confronti di Adele, per come era riuscita a rimanergli accanto per tutto quel tempo, con rispetto e devozione. Un'ora prima del pranzo Adele comunicò a Giuseppe di voler passare dalla cabina per rinfrescarsi così i due si diedero appuntamento al ponte secondo, dove c'era il ristorante. Lui approfittò di quel tempo per tornare al ponte superiore. Salendo una larga scalinata ricoperta di moquette raggiunse il piano alto da dove era possibile accedere ad un ampio salone con tavolini e poltrone rivolti verso il mare, un posto decisamente piacevole, ma in una calda giornata estiva pensò Giuseppe. Nel salone, semi vuoto, stavano lavorando due giovani inservienti che però non si accorsero di lui. Giuseppe, senza essere visto, si avvicinò al banco del bar e vide chiaramente che uno dei due ragazzi stava travasando dell'acqua dentro dei bidoni di birra con l'evidente intenzione di allungarla. Quando alzò gli occhi e incrociò il suo sguardo severo il giovane trasalì tentando subito di sdrammatizzare con un sorriso e facendo finta di fare altro. Giuseppe rimase immobile a fissare la scena, poi chiese un caffè e lo sorseggiò con calma scoprendo, al di là del banco, una vecchia macchina da bar per fare i caffè, la S35 come veniva chiamata in gergo tecnico. Quante volte ne aveva smontate di quelle! Quindi pagò e se ne andò lasciando il giovane barista completamente basito.

Quando Giuseppe entrò nel salone affollato e rumoroso la prima cosa che vide fu che la moglie gli aveva tenuto un posto libero accanto a sé. E si sentì rallegrò. Notò però anche che l'Ing. Bonetti sedeva poco distante da Adele e già da dove si trovava, Giuseppe si poteva sentire l'afrore del suo pestilenziale dopobarba. Sfidando le pessime condizioni atmosferiche e il basculamento della nave, mangiarono tutti con grande appetito ripetendo il giro al tavolo del buffet almeno due volte. “Ed io che credevo che il pranzo del matrimonio di Don Antonio fosse il massimo dell'abbondanza!” si lasciò sfuggire Adele afferrando euforica due lunghi spiedini di gamberoni avvolti nella pancetta. Tutti risero di gusto mentre alcuni passeggeri tedeschi in coda, in attesa del loro turno, li osservavano scuotendo la testa in segno di disapprovazione. Il pomeriggio volò, tra una pennica in cabina e lo spettacolo delle 17 nella sala cinema. Si ritrovarono tutti di nuovo alla sera a mangiare mentre fuori il sole tramontava regalando per il giorno successivo la speranza di un tempo più clemente. La gente si avventava sul cibo quasi non avesse mangiato da giorni. L'appetito smodato di tutti quei pensionati scaturiva probabilmente dall'euforia d'essere lontani dalla routine quotidiana, certo l'ampia offerta di prelibatezze e il fatto che tutto fosse incluso nel costo del viaggio non aiutava, mettendo in seria difficoltà chi disperatamente cercava di trattenersi. Dopo cena qualcuno propose di salire al bar del ponte superiore. Il tempo stava migliorando e lo spettacolo delle stelle, a detta dei camerieri, meritava. Giuseppe si ritrovò così, inaspettatamente, di fronte al barista truffaldino, il quale non perse tempo e in un italiano improvvisato offrì da bere a tutti gratuitamente. Alla domanda quale fosse il motivo di tanta generosità il barista rispose prontamente: “Italiani oggi portato sole” e così dicendo aveva lanciato un'occhiata complice a Giuseppe indicando prontamente la finestra attraverso la quale si vedeva il cielo ancora tinteggiato di rosso. Giuseppe non gradì quell'atteggiamento furbetto e per qualche minuto meditò la giusta risposta. Fu l'Ing. Bonetti che gli fornì lo spunto poco dopo, quando, alzatosi in piedi, annunciò di voler offrire personalmente il prossimo giro di bicchieri.

Giuseppe quasi simultaneamente scattò in piedi ed esclamò: “Champagne per tutti, offro io in onore del presidente Bonetti!” Prima che l'interessato potesse replicare tutti i presenti avevano già incominciato ad applaudire e così Giuseppe l'ebbe vinta. Per lui furono due i motivi di soddisfazione che seguirono. Il primo fu lo sguardo ammirato di Adele che si fece vicina e senza essere vista gli strinse amorevolmente la mano. L'altro fu il momento in cui il barista fece i conti, Giuseppe gli strappò in faccia lo scontrino e questi, pavidamente, non reclamò e si allontanò deferente. Giuseppe quella notte dormì così rilassato come da mesi non gli succedeva.

Il mattino successivo fu svegliato di soprassalto dalla sirena della nave, guardò l'ora e solo dopo si rese conto che il letto di Adele era vuoto. Vestitosi in fretta e furia, dimenticandosi di radersi, si mise subito a cercarla. La trovò quasi subito al bar, sola, seduta davanti al grande oblò che incorniciava il colore plumbeo del mare. “Adele, ciao!” le disse. Lei si voltò come sorpresa. “Ciao Giuseppe, non riuscivo a dormire, scusami, non volevo farti inquietare, sono qui già dalle sei di stamattina. Stiamo per arrivare a Bergen, sai?” In quel momento giunse alle sue spalle l'Ing. Bonetti in giacca blu. “Ma buongiorno Giuseppe, posso unirmi a voi per un caffè? La mia consorte questa notte non è stata bene e temo che oggi passerà la sua giornata in cabina per cercare di riprendersi. È un peccato perché la crociera è già breve e ...”. “Si accomodi”, lo interruppe Giuseppe facendo subito segno ad un cameriere di avvicinarsi al loro tavolo. Attraverso l'oblò giunse un improvviso raggio di sole e il profilo della costa norvegese apparve all'orizzonte.

L'organizzazione di una crociera non è cosa semplice, anzi, soprattutto se si ha a che fare con persone anziane o di mezza età. Ci vollero due ore per organizzare la discesa a terra delle centinaia di passeggeri presenti a bordo, questo perché molti di loro, pur vogliosi di mettere i piedi a terra, indugiavano nel fare fotografie restando a bordo. La visita alla cittadina di Bergen era stata curata da un tour operator locale. Dieci autobus attendevano sul molo i trepidanti croceristi. C'erano due opzioni: la visita al museo della caccia alla balena o il museo di storia vichinga. Nel frattempo aveva ripreso a piovere, una pioggia sottile e fastidiosa. La maggior parte dei componenti del gruppo italiano optò per il museo vichingo, Giuseppe si sarebbe accontentato anche solo fare quattro passi per dare un'occhiata alla città ma anche questa volta cambiò idea seguendo le scelte di Adele e salì sul pullman con tutti gli altri. Al museo però Giuseppe scoprì una cosa che non sapeva: i vichinghi secoli addietro si erano spinti fino alla “sua” Sicilia e per questo a Palermo ancora oggi si possono incontrare uomini biondissimi con gli occhi chiari. Lui no, lui era scuro, probabilmente di origine araba, ma suo padre, ecco, suo padre in effetti aveva gli occhi azzurri e quindi forse anche nella loro famiglia qualche linea di sangue nordico c'era. Questa ipotetica parentela con il Nord non lasciò indifferente Giuseppe che per tutto il giorno continuò a farsi domande. Anche quando tornò a bordo, dopo la cena, in cabina, continuò a pensare ai vichinghi in Sicilia. Ma come avranno fatto a sopportare il caldo? pensava tra sé e sé. “Ho bevuto troppo” si udì la voce di Adele nel buio. Si addormentarono entrambi pochi istanti dopo.

Mai nella sua vita aveva immaginato di ritrovarsi un giorno in Islanda. Quando il giorno seguente la grossa nave da crociera imboccò il fiordo diretta a Seydisfjordur Giuseppe, che era sul ponte alto insieme a Adele e ad altri cento passeggeri, ebbe la conferma di tante sue resistenze: davanti a sé lo scenario era veramente deprimente, cielo grigio, nebbia, mare scuro e torbido. A nulla erano servite le suggestive storie delle parentele tra il Nord e il Sud, per Giuseppe restava un mistero il fatto che a quelle latitudini ci potessero essere degli esseri umani come lui. E come se questo non fosse bastato giunse la notizia che l'attracco alla banchina non sarebbe stato possibile a causa della marea. Una lancia a motore avrebbe fatto la spola portando a terra le persone interessate. Anche quella volta le ore dello scalo a terra sarebbero state contate. Seydisfjordur apparve gradualmente man mano che la nebbia si dipanava. Si trattava di un posto molto piccolo, decisamente più piccolo di Bergen. Adele cominciò a leggere ad alta voce la guida turistica: “...non più di 700 persone risiedono in questo gioiello della costa orientale”. “Caruccio” esclamò l'Ing. Bonetti allacciandosi il giubbotto salvagente prima di unirsi al gruppo diretto a terra. “Le case sono tutte in legno in stile norvegese!” aggiunse Adele. “Lei Giuseppe che fa? La vedo un po' indeciso questa mattina…” e inavvertitamente allungò una mano e per qualche secondo cinse con naturalezza il fianco di Adele che lo precedeva ma quella mossa non sfuggì agli occhi di Giuseppe che subito si portò avanti come a cercare di proteggere la consorte. Fu quel gesto, quel piccolo gesto apparentemente insignificante a far scattare in Giuseppe un primo campanello d'allarme. Da quel momento divenne più attento anzi, guardingo. Per la prima volta sentì veramente mordere dentro la gelosia. Così per tutto il tempo della visita a Seydisfjordur rimase accanto a Adele e non la lasciò sola un istante. E nei confronti dell'Ing. Bonetti adottò un atteggiamento distaccato e ostile che lo portò più volte a commentare sarcasticamente le sue battute deridendolo in pubblico. Quando risalirono a bordo e finalmente poté ritirarsi in cabina con Adele, Giuseppe tirò un sospiro di sollievo.

Dopo essersi riposato e rinfrescato Giuseppe si preparò insieme a Adele per la serata di gala di fine crociera. Quella sera la nave avrebbe lasciato l'Islanda per ritornare in Norvegia. Alla cena c'erano tutti, Adele si era seduta di fronte a lui e l'Ing. Bonetti fortunatamente si era messo qualche metro più in là, dalla parte opposta del tavolo. Giuseppe si sentiva stanco, il vento e il freddo insieme a tutti i pensieri e le ansie l'avevano logorato. Non vedeva l'ora di tornare a casa. “Con chi ti sei fermato a parlare all'ufficio turistico?” gli chiese improvvisamente Adele interrompendo il flusso dei suoi pensieri. “Con un italiano, un tipo simpatico, immigrato in Islanda già da qualche anno”. rispose incuriosito dalla domanda. “E gli hai chiesto come mai ha lasciato l'Italia per venire a vivere in un paese così freddo e inospitale? continuò Adele. “Sì! Per amore, così mi ha detto. D'altronde succede sempre così. Anche tu sei venuta ad abitare fino in Sicilia per me… ricordi?” Disse Giuseppe abbozzando un sorriso. Subito però scrutò Adele alla ricerca di un segno che confermasse la sua complicità. Ma Adele non batté ciglio. “Comunque mi è piaciuto quel tipo, veramente cordiale e disponibile con tutti. Si chiamava Filippo, due grandi occhi verdi ed i capelli lunghi a truciolo, mi pareva un greco antico… anzi… sai a chi assomigliava?” “A chi?” chiese Adele curiosa. “A Ennio, a mio cugino Ennio. Te lo ricordi? E dai che ti piaceva mio cugino. Ricordo come lo guardavi… sai la prima volta che sei venuta a Palermo?” “Ma che dici Giuseppe, dai, non è vero… e poi come fai a ricordarti queste cose, sono passati anni ormai…”. “Ah io non riuscirei a vivere qui” una voce di donna irruppe nella loro conversazione. A fianco di Giuseppe s'era seduta la moglie dell'Ing. Bonetti, una donna alta, una bella donna, con i capelli mori e lunghi raccolti a coda di cavallo. Si chiamava Manuela, ma tutti nel gruppo la chiamavano Manu. Il suo sguardo era intenso ma sciupato, un po' triste aveva pensato Giuseppe la prima volta che l'aveva vista accanto al marito, d'altronde con il consorte tracotante e chiacchierone che si ritrovava, la cosa non lo stupiva. “Piacere Manuela, sono Giuseppe, il marito di Adele”. “Ah sì! Piacere! Sembra incredibile, viviamo nella stessa città e praticamente non ci siamo mai incontrati. Però conosco sua moglie che è una delle nostre socie più brillanti”. “Diceva qualcosa dell'Islanda un attimo fa…” la interruppe Giuseppe. “Dicevo che non vivrei qui per tutto l'oro del mondo. Non ci ero mai stata, tutti mi parlavano di questa Islanda, beh, insomma la visita di oggi mi è bastata. Che freddo! Che vento! Ma avete visto i bambini che facevano il bagno nella baia? E il supermercato? Avete visto i prezzi? Tutto carissimo! Ah no, io sto bene dove sono nata, in Sicilia! Questa è la prima e ultima volta che mio marito mi trascina fin quassù!”

Giuseppe osservava la donna scaldarsi e gesticolare mentre esprimeva i suoi sentimenti e si dimenticò di avere accanto la moglie dell'Ing. Bonetti. Piuttosto sentì che i sentimenti di quella donna corrispondevano ai suoi con la differenza che lui, i suoi sentimenti non li aveva riconosciuti. Li aveva sacrificati e rimossi. Gli succedeva spesso. Dopo aver notato che Adele aveva preso a conversare amabilmente con un'altra persona e non seguiva più la loro conversazione si sentì libero di approfondire la conoscenza della sua vicina. Fu un bellissimo incontro. Per tutta la durata della cena andarono avanti a chiacchierare scambiandosi impressioni e pensieri con grande naturalezza. Quando Manuela raccontò che suo padre era stato un artigiano di grande valore “...aveva le mani d'oro, costruiva, riparava… non stava mai fermo”. Giuseppe si emozionò e si sentì attratto da quella donna. Per la prima volta nella vita provò la sensazione impagabile di essere ascoltato e capito. Quando alla fine della cena tutti si alzarono loro due rimasero lì a ridere e a raccontarsi ancora altre storie di vita. Manuela ad un certo punto volle spostarsi al bar per bere qualcosa e invitò Giuseppe che rispose sì, senza esitare. Pressato dalla calca dei passeggeri fece appena in tempo a vedere Adele che gli faceva un cenno e un sorriso come per rassicurarlo o forse fargli capire che si sarebbero ritrovati più tardi. Quando raggiunse Manuela vide che la donna aveva tolto la maglia ed era rimasta a spalle scoperte. Giuseppe notò la pelle della donna, ancora molto fresca e giovanile e anche una piccola cicatrice sulla piega del seno ma trattenne la propria curiosità. “Cosa beviamo Giuseppe? Dobbiamo festeggiare il nostro incontro. Dubito che questi vichinghi sappiano cos'è un Passito quindi passerei direttamente al buon vecchio Porto, cosa ne dici?” “Ah per me va benissimo!” rispose Giuseppe leggero ed euforico. I bicchieri di Porto furono tre a testa e Manuela, parlando, incominciò ad accarezzargli il braccio. Un'altra volta fece per appoggiare la testa alla sua spalla. Giuseppe avvertì un grande calore e non provò alcun imbarazzo. Quando venne il momento di pagare però Giuseppe si accorse di non avere con sé il portafogli e pregò Manuela di attendere qualche minuto, il tempo di andare in cabina a prenderlo. Si baciarono ed abbracciarono quasi non si dovessero rivedere più. Giuseppe percorse tutto emozionato il tragitto fino al settore cabine della nave. Scese due rampe di scale e quando riconobbe il lungo corridoio cominciò ad allungare il passo fino alla numero 24. Quando giunse davanti alla porta della loro cabina udì dei gemiti di donna che inizialmente non riconobbe. Poi udì chiaramente anche la voce dell'Ing. Bonetti che ripeteva affannosamente “Adele… Adele…”. Istintivamente fece per aprire, qualcosa invece glielo impedì, si ritrasse, intimidito, facendo due passi indietro. I gemiti divennero più forti e chiari. Giuseppe riconobbe la voce di Adele, la sua Adele. Trattenne a fatica un conato di vomito.

Tornò al bar con il cuore in gola, completamente smarrito. Manuela notò subito che era sconvolto e lo abbracciò. Lui scoppiò immediatamente a piangere tra le sue braccia. Manuela allora ordinò due bicchieri di Vodka e piano piano riuscì a calmare la sua disperazione. Fino a quando, guardandolo negli occhi gli sussurrò: “Tesoro, vieni con me, andiamo sul ponte alto a respirare un po'”. Giuseppe annuì e la seguì mesto, come in stato di trance ripetendo: “Adele, Adele, perché mi hai fatto questo?” “Tieni, vuoi fumare?” Manuela fece il gesto di aprire un pacchetto di sigarette e poi si appoggiò alla ringhiera metallica guardando in direzione del mare. La notte era completamente nera e il cielo era coperto, senza stelle. “Non dirmi che non lo sapevi! Sono dieci anni che quelli ci mettono le corna! Quante mattine ho passato a piangere sotto casa tua mentre quel pezzo di merda di mio marito era su con quella tr... oh scusa, non volevo. Scusami, veramente. Dio solo sa quante volte li ho maledetti”. “Non ci credo, Adele non può avermi fatto questo… no… no la mia Adele”. Fu allora che Giuseppe udì delle voci dentro di sé. Si trattava di voci indistinte, lontane, come voci di bambini in una spiaggia estiva. Udì anche la voce di Adele di notte, quando tornava dalle serate dell'associazione. Era una voce diversa, ma non capiva perché. Adele si faceva sempre la doccia, ecco sì, ora Giuseppe ricordava. Era tutto chiaro, ora. Ma allora no, nell'attendere Adele, Giuseppe amava stare a letto ad ascoltare lo scroscio dell'acqua. Non si era mai fatto domande. Semplicemente era felice che fosse tornata. Ritornavano le voci, ora erano come mugolii e gemiti e provenivano dalla cabina. Lì dentro c'era la sua Adele con quell'essere schifoso. Ma perché aveva tenuto tutto dentro? Perché non aveva parlato? Perché non aveva chiesto aiuto? “Hai visto Giuseppe, il mare è così nero che non si vede nulla” disse allora Manuela. “Se vuoi un consiglio, ora che siamo nella stessa situazione, guarda la realtà e non piangere più. Non ne vale la pena. E poi, io e te a questo punto potremmo anche divertirci un po'...non credi?” E pronunciate queste parole gli mise il braccio intorno al collo e cercò di baciarlo. “Vieni qua bello mio, vieni dalla tua Manuela”. Quelle parole procurarono a Giuseppe un brivido intenso. Quella donna, conosciuta da poco, che sentiva vicina, lo stava invitando in un luogo proibito che mai e poi mai avrebbe immaginato di desiderare. Lui, Giuseppe Scalici, figlio di Girolamo, lui uomo tutto d'un pezzo e dai principi morali incorruttibili. Lui da sempre solo dedito al lavoro e alla famiglia… guardò per la prima volta alla sua vita con onestà. Chissà cosa avrebbe pensato o detto suo padre di fronte a quel succedersi di eventi? Ma che importanza aveva in fondo il parere del padre? Lui non era suo padre, ecco, sì, a questo pensò per la prima volta, mentre sentiva farsi strada dentro di sé un'idea nuova e coraggiosa. Un'idea folle? No, no, forse era finalmente giunto il momento di finirla con quella commedia, emulare il proprio padre, era stato un errore. Un errore su cui Giuseppe aveva costruito tutta la sua vita.

Ma ora stava crollando tutto e lui poteva vedere per la prima volta se stesso nella sua essenza originaria. Sì, ora riusciva finalmente a vedere... “Non sembri molto intrigato dalla mia proposta” disse Manuela interrompendo il flusso dei suoi pensieri. “Oh, no Manuela, al contrario, sì, insomma, tu sei una donna molto affascinante ed io… io…” replicò Giuseppe con un filo di voce. “Scusa, ho la gola arsa, ho bisogno di bere qualcosa, scusa”. “Caro, ti credo, con tutte queste emozioni, hai fatto venire sete anche a me!” cinguettò Manuela, certa di averlo sedotto. “Giusè, resta qua che vado a prendere da bere per tutti. Tu mi aspetti qua, ok? Non scappare sai…” aggiunse allontanandosi in direzione del bar.

Giuseppe la guardò fino a quando la vide scomparire. Completamente disorientato fece qualche passo in avanti lungo il ponte deserto quasi volesse distaccarsi dal frastuono della gente e poi, preso coraggio, scavalcò la balaustra e si gettò nel vuoto. L'impatto con l'acqua gelida fu violento. Lì in mezzo al mare, completamente solo, Giuseppe provò ogni sorta di emozione. Per un attimo visse anche l'illusione di poter essere salvato, qualcuno, pensava, avrebbe sicuramente notato la sua assenza e avrebbe dato l'allarme. Manuela, ecco, sì, Manuela avrebbe chiesto aiuto e allora altri si sarebbero attivati e la nave sarebbe stata bloccata. Una scialuppa, immaginava Giuseppe cercando di rimanere a galla, mentre sentiva di perdere sempre di più la sensibilità delle gambe, una scialuppa sarebbe venuta a cercarlo e l'avrebbero recuperato. Avrebbe rivisto Adele e l'avrebbe perdonata e… Non andò così. Il frastuono delle eliche mescolato alla musica si udì ancora per qualche istante mentre la sagoma illuminata della nave si rimpicciolì all'orizzonte. Giuseppe vedendo le luci confondersi con le stelle si ricordò di quando da bambino correva felice nella piazza del paese decorata con le luminarie di Natale. Per un attimo rivide il volto della madre. Sorrise. Poi sentì un ultimo brivido e si abbandonò, lasciandosi scivolare nel buio.