La storia, il dopoguerra, gli artisti e le forme dell’arte nell’Italia della ricostruzione. Sono i temi principali ben rappresentati nella recente mostra, presentata dalla Fondazione Pistoia Musei, a cura di Marco Meneguzzo Italia Moderna 1945-1975. Dalla Ricostruzione alla Contestazione, appena terminata a Palazzo Buontalenti.

Oltre 50 le opere in mostra che compongono il percorso di una rassegna - seconda tappa di un’esposizione che complessivamente conta su oltre 150 lavori provenienti dalle collezioni di Intesa Sanpaolo - che muove sotto il titolo Il benessere e la crisi, e che intende mostrare il complesso tessuto artistico italiano in uno dei periodi di trasformazione del nostro Paese, tra l’altro, tra i più fecondi.

Ma la “Ricostruzione” e la “Contestazione” sono soprattutto due indicazioni culturali, espressioni di uno sviluppo di idee, vicende e costumi che hanno portato l’Italia alla ribalta internazionale, sia nell’economia che nella cultura.

Suddivisa in sezioni che evocano i contesti sociali e culturali in cui si incontravano tendenze diverse dell’arte del momento, Italia Moderna 1945-1975 evidenzia il clima, l’atmosfera, e il tessuto connettivo dell’arte italiana, spingendosi ben oltre la presenza di nomi e di opere che cavalcavano la scena artistica contemporanea.

Da Marino Marini, Le tre Pomone, (1945-1950) il simbolo artistico di Pistoia, alla sezione Ritorno nel mondo: una lingua comune con le opere di Afro (Senza nome), a La composizone (1950) di Mirko Basaldella, Giuseppe Santomaso – bellissimo il Ricordo verde del 1953 – a Renato Birolli con un esplosivo Incendio alle Cinque Terre (1955), o ai lavori di Tancredi, fino alle forme nello spazio di Emilio Scanavino e di Mattia Moreni è “un’immagine di campagna incalcinata”, tra spatolate di bianco e di grigio. E altro toscano che sulla scultura ha detto moltissimo è Agenore Fabbri in Personaggio del 1961, a cui fanno da contrappunto Alik Cavaliere (Racconto) e Francesco Somaini (Obliqua). E altrettanto importanti sono i lavori di Carla Accardi (Senza titolo, 1959), Antonio Sanfilippo (Composizione, 1955), a cui fanno eco Crak Bleu di Piero Dorazio e Achille Perilli.

L’esposizione pistoiese è costituita da figure assai note in quel fiorente panorama artistico novecentesco: da Lucio Fontana, a Capogrossi, Fausto Melotti e Bruno Munari già attivi prima della guerra con Turcato ed Emilio Vedova, ma le cui loro storie sono anche profondamente diverse come testimonia la rassegna toscana.

Infatti, se Fontana (1899-1968) - come ricorda Meneguzzo - è “considerato il provocatore per eccellenza dell’arte italiana: i suoi “buchi” (dal 1947) e i suoi “tagli” (dal 1958) costituiscono ancora una specie di scandalo per il pubblico poco avvezzo al linguaggio dell’arte, l’emblema di un’eleganza formale spinta all’eccesso, Giuseppe Capogrossi (1900-1972), invece, costituisce uno dei punti più alti del pattern in pittura. Una forma riconoscibile, un segno personalissimo – comunemente chiamato “a forchetta” – caratterizza la sua pittura dalla fine degli anni Quaranta, dopo un iniziale periodo figurativo nel decennio precedente. L’idea di individuare un modulo segnico sempre uguale, con cui costruire una sorta di alfabeto visivo, oltre a costituire un elemento di immediata riconoscibilità, ha avvicinato il segno pittorico al concetto di scrittura, diminuendo così la separatezza tra due fondamentali territori linguistici: basilare rimane in questo senso il suo apporto alla cultura visiva romana.

E che dire di Fausto Melotti (1901-1986) di cui sono una serie di sculture astratte tra il 1934 e il 1935, e una poetica costituita da elementi esili e narrativi, lungo i quali si sono sviluppati spazi vuoti, nei limiti di un’astrazione, in territori analoghi a quelli di Paul Klee?

E ancora Bruno Munari (1907-1998), eclettico autore, che tra arte, design, e grafica, affondando le radici nella grande tradizione del Bauhaus, ha affrontato i diversi territori artistici con grande passione e creatività.

Come allo stesso modo Alberto Burri (1915-1995) ha creato scandalo agli inizi degli anni Cinquanta con i suoi “sacchi” incollati sulla tela (e poi con i “legni”, i “ferri”, le “plastiche” e i “cretti”): l’uso di un materiale povero, preso dalla realtà, strappato, avvicinato alla materia cromatica, ha fatto parlare di “grido”, di “ferita”, in piena consonanza con l’informale esistenzialista. Mentre con Piero Manzoni (1933-1963), sorta cerniera della contemporaneità, si chiude il ciclo della Modernità compiuta e si inaugura un nuovo corso concettuale, che sfocerà nella figura dell’artista come personaggio, come creatore d’arte, in una linea ideale che vede prima di lui Marcel Duchamp e Yves Klein.

E ancora lungo il percorso espositivo: ecco i leggii in metallo di Dimostrazione (1975) di Giulio Paolini e la scultura Asciuga Ali (1995) di Giosetta Fioroni, le grandi superfici colorate con la penna a sfera blu di Alighiero Boetti AI IEOOEI LGHRBTT (1975) e il giallo accecante del Michelangelo (1967) di Tano Festa, e le riflessioni sui numeri di Fibonacci di Mario Merz, ma anche lo Scoglio di legno e tela realizzato da Pino Pascali. Mentre di Fabio Mauri, opera all’avanguardia con i tempi, è Che cosa è uno schermo o schermi ovali (1962). E quasi come una metafora conclusiva di questo percorso è Rubinetto bianco e nero di Michelangelo Pistoletto, il segno di un’apertura sul mondo e sulle storie del secondo Novecento.