Il barlume risale a circa cinque anni fa, ma come si fa a sapere con certezza quale fu il momento? Il momento nel quale un adolescente Cesare Mangiocavallo, nato nel Duemila, pensò di girare un film. Sappiamo però quando ha cominciato le riprese: nel novembre del 2017 e oggi Siegfriedsdorf Dixieland Band è pronto anche se non ancora uscito nelle sale. Il suo autore lo tiene celato perché spera di partecipare a qualche festival. Sappiamo che oggi Cesare Mangiocavallo ha diciannove anni. Il film lo ha scritto, diretto, fotografato e musicato, scrivendo la sceneggiatura da minorenne, ispirandosi alle vicende del lager di Terezín, in tedesco Theresienstadt, nell’allora Cecoslovacchia, dove i nazisti rinchiusero molti musicisti e intellettuali. Un lager che il regime spacciava per una comunità serena grazie all’eccellenza culturale degli internati. Una delle più rivoltanti messe in scena della storia.

Cesare è precoce di natura: suona la batteria da undici, dodici anni. Suo padre è un musicista barocco che però ha instradato il figlio al jazz, sua madre è una musicista barocca: flauto dolce e fagotto. Ah, del suo film, il ragazzo ha fatto pure le scenografie.

Genitori musicisti e poi c’è il cinema.

Sì, guardo molti film, quella è la mia scuola. Il miglior metodo per imparare la musica penso sia ascoltarla e il miglior metodo per imparare il linguaggio del cinema è vedere film, contemporanei e classici, ovviamente, anche se molti non li ho ancora visti: sto ampliando il mio orizzonte culturale.

Hai qualche maestro fra i grandi del passato?

Penso che ogni regista abbia come maestri Kubrick, Hitchcock, Orson Welles, Sidney Lumet.

Terezín. Perché quest’argomento?

Difficile rispondere. È nato tutto da qualcosa che ho elaborato inconsapevolmente, magari un’immagine, dei suoni. Qualcosa di estetico… Può darsi, non lo so.

L’ebraismo c’entra con le tue origini?

No, assolutamente. Non sono esperto di ebraismo, non ho studiato bene tutto il resto, mi sono focalizzato su quell’aspetto del Nazismo. Mi ha colpito che Terezín fosse un ‘lager modello’, con la facciata di copertura, i musicisti che potevano praticare la loro arte e i nazisti che li strumentalizzavano. Nel film ci sono varie citazioni dalla storia del campo di concentramento come il filmato di propaganda che poi non fu mai mostrato, mi pare, anzi, che ne furono girati due.

Il protagonista trasforma un attrezzo in uno strumento musicale. Ci sono testimonianze in proposito?

No, è totalmente un’invenzione mia. Penso di esserci arrivato per collegamenti logici, la sega è un attrezzo di lavoro e non muta quando diventa strumento musicale.

Come sei passato dall’idea del film alla realizzazione? I fondi, la ricerca del cast?

Quando avevo quindici anni era solo un sogno, ma mi ero detto: lo devo fare. Quasi una promessa. Fino a quando, nel 2018, ho scoperto che mio nonno aveva un fratello che io non conoscevo e che molto gentilmente mi ha sostenuto. Adesso non c’è più: è morto durante la post produzione, non ha potuto vedere il film, solo qualche scena.

Come si chiamava questo prozio?

Si chiamava Lamberto Micheletti.

Come hai scelto gli attori?

Tramite conoscenze della mia famiglia, sono attori non professionisti: parenti, amici di parenti. Il protagonista è un professionista, un attore di teatro, penso che questa sia la sua prima esperienza cinematografica. È un amico storico di mia madre, Francesco Mirabella, mi ha visto crescere. L’ho chiesto a lui: si è appassionato subito.

E si è affidato a te?

Sì, e io gli ho dato indicazioni molto tassative, mirate a limitare il pathos. Infatti è molto statico.

Sei stato autorevole?

Parecchio, sì.

Hai cominciato a girare a 17 anni, l’autorevolezza da dove arrivava?

Dal fatto che dovevo fare tutto io: un lavoro enorme da svolgere, dall’avvitare i pannelli della scenografia a dirigere gli attori. Questo mi ha fatto dire lucidamente: allora faccio come voglio io.

È stato stressante girare?

Lo stress più grande della mia vita, però è stato anche molto divertente, molto appassionante. Succedevano ogni giorno cose incredibili, per me che non ero mai stato su un set e non avevo mai avuto la possibilità di dirigere un attore professionista. Avevo fatto solo qualche ‘corto’.

Studi?

Sto andando al Conservatorio, a Roma: studio batteria jazz.

E ora c’è il film da promuovere.

Non è stato proiettato pubblicamente, ho fatto una proiezione privata a Roma, al cinema Aquila. Se uno proietta pubblicamente il film si preclude la partecipazione ai festival. E io spero che qualcuno mi prenda!

Ti hanno già interpellato?

Il Filmmaker Festival di Milano, ma poi non ho saputo più niente.

Rivedi il tuo film e che cosa pensi?

È un film di due anni fa.

Di quand’eri giovane…

Adesso probabilmente non riprenderei l’argomento, censurerei la metà delle cose che ho fatto. Lo vedo ormai con molto distacco, fa parte di un altro periodo.

Taglieresti, cambieresti, ma sei felice di averlo girato?

Sì, sì, sono molto soddisfatto. Questo è ovvio. Oddio, non è tanto ovvio.

Hai in mente di continuare? Vorresti essere un regista? Un musicista regista?

Sì, la passione per la musica e per il cinema vanno parallelamente, quindi non abbandonerei né l’una né l’altra.

Alla proiezione privata hai invitato qualche amico? Che gli è parso?

Io penso che siano rimasti abbastanza scioccati. Sia i coetanei che le persone più adulte credo siano stati positivamente colpiti dalla particolarità del film, più che cercare la perfezione o la vicinanza a un certo tipo di cinema.

Il fatto che tu lo abbia girato a diciassette anni, conta: è una notizia. Pur tralasciando le banalità sull’età, in effetti è insolito che un diciassettenne giri un film.

Ce ne sono. Phillip Youmans ha vinto il Festival di Tribeca, ho visto il suo film e mi è piaciuto, s’intitola Burning Cane.

Suoni anche professionalmente?

Enrico Pieranunzi lo conosci? Sto suonando con lui, a gennaio abbiamo due date a Roma in un locale che si chiama Alexanderplatz. C’è un progetto insieme. Però suono anche con vari musicisti romani, c’è una scena jazz molto bella a Roma. Spero di aver l’opportunità di andare anche all’estero, magari con un Erasmus. Mi hanno parlato bene di Copenaghen, Parigi e Berlino. Però vorrei andare a New York perché là è il posto più stimolante.

Hai in mente il soggetto del prossimo film?

No. Un’opera molto movimentata, non so di più. Con una differenza abissale da questo.

Ci sono degli attori che ti ispirano?

Sarebbe bello riportare in vita Paul Newman.

Un’attrice?

(Significativo silenzio n.d.r.) Non saprei, forse non sono veramente attratto dalle doti attoriali, forse sono più vicino a come la pensava Hitchcock.

Il quale disse: "Figurarsi se uno potrebbe odiare Jimmy Stewart o Jack L. Warner. Non ho mai detto che gli attori sono delle bestie. Probabilmente avrò detto che gli attori dovrebbero essere trattati come bestiame".

Certo quando si vede l’improvvisazione di un grande interprete… però dietro ci vuole sempre un buon regista.

Hai sentito una ammirazione particolare nei tuoi confronti alla presentazione di Siegfriedsdorf Dixieland Band?

Da mio padre e mia madre.

Sono fieri di te, si può dire?

Sì, sì.

E gli amici?

Non so capirlo, penso di sì. Forse poi ci sarà qualche altra proiezione privata, ma sono concentrato sui festival.

Saresti dunque pronto al ‘tappeto rosso’? È un aspetto che ti attrae o ti spaventa e annoia?

Mi attrae. Espormi è una cosa che devo ancora provare. Non sono molto bravo, non sono un grande parlatore, ma mi sto impegnando.