Un tempo, quando le suggestioni, l’immaginazione, le concezioni non avevano il suffragio scientifico si paventava in modo figurato la caduta del cielo su di noi, come ricorda, ad esempio, la profezia sciamanica del popolo Yanomami delle foreste amazzoniche che ci avverte: “Quando finirà la foresta e le viscere della terra saranno state completamente distrutte da macchine minerarie divoratrici, crolleranno le fondamenta del cosmo e il cielo crollerà terribile sopra tutti i viventi.” Un monito allo sfruttamento sconsiderato e incivile della nostra Terra, alla necessità di rallentare e convivere con il pianeta senza depredarlo.

Il paradosso nel quale viviamo ci porta a immaginare non che il cielo, ma per così dire “pezzi di esso” possano rovinare su di noi, sulle nostre vite, sulle nostre strutture umane. È quella che viene definita l’emergenza per i detriti provenienti dallo spazio ma non dovuti a meteoriti, comete o altre entità cosmiche, ma all’affollamento di manufatti costruiti dall’uomo nell’aspirazione alla conquista dello spazio, alla necessità di collegare paesi, genti, continenti, ovvero la nube di satelliti artificiali che gira su di noi nell’orbita terrestre e che a causa della gravità o della fine della propria autonomia comincia a cadere dal cielo.

Sino a poco tempo fa, una manciata di anni, nel cielo sopra le nostre teste non vi era null’altro che il vuoto cosmico, di tanto in tanto (abbastanza spesso a dir la verità) solcato da piccoli e medi meteoriti o dai resti delle comete che attraversano il sistema solare. Un dato scientificamente provato che ha sempre costituito un perenne rischio per l’umanità, una minaccia alla sopravvivenza stessa della vita terrestre come dimostrano vestigia di un passato remoto che raccontano gli impatti devastanti al quale il nostro pianeta andò incontro nella prima fase della sua vita, ma anche sino a qualche decina di milioni di anni fa con la scomparsa di milioni di specie animali e vegetali. Un pericolo costante anche oggi, nella nostra ridotta visuale umana ormai consapevoli di una sorta di lotteria spaziale.

Oggi però, accanto a quella minaccia per così dire ontologica, ne esiste un’altra di minor impatto in apparenza, ma che è costante: quella della spazzatura spaziale. Che cos’è allora: è la massa composta principalmente da rifiuti o, meglio, detriti abbandonati in orbita prodotti dal disuso di satelliti in orbita, da sonde, pannelli solari, razzi, frammenti, parti di navicelle o utensili andati perduti durante missioni spaziali. Potrebbero, addirittura, essere a volte anche semplici scaglie di vernice.

Alcuni si trovano in orbita bassa, vicini alla Terra e riescono ad attraversare, entro breve tempo, l’atmosfera terrestre. Altri, invece, sono troppo lontani per rientrare sulla Terra e rimangono in orbita per moltissimi anni (alcuni lo saranno anche per secoli).

Allo stato attuale, secondo quanto è possibile calcolare il livello di questi detriti sembra ammontare a 8000 tonnellate. Un dato già rilevante e allarmante. Il livello di questa massa di oggetti e materiali peraltro è destinato ad aumentare con il lancio di nuovi satelliti da parte di sempre più soggetti statuali ed anche privati, destinati alle telecomunicazioni, alla geolocalizzazione, e ad un’infinità di altre finalità scientifiche non escluse quelle militari. Sempre al momento, di questi oggetti inviati dall’uomo ve ne sono circa 2000. Un numero destinato a crescere in modo esponenziali nei prossimi decenni.

La prima domanda che nasce spontanea è: se questi oggetti li mandiamo lassù per i nostri vari scopi, perché dobbiamo preoccuparci? Perché, la prima risposta, anche per lanciarne di nuovi dobbiamo tenere in considerazione il sovraffollamento, prima che vengano lanciati in orbita, andando a sommarsi a quelli già presenti.

Un secondo interrogativo riguarda l’evoluzione della vita di questi oggetti che in linea generale dipendono da noi per la regolazione, la velocità, l’esecuzione di programmi di raccolta dati e via dicendo. Dove è allora il problema? Alcuni detriti hanno dimensioni superiori ai 10 cm ed è possibile intercettarli. Altri, invece, hanno dimensioni inferiori e questo crea difficoltà sul piano del loro stesso rilevamento. Il maggior rischio la presenza di detriti costituisce è però quello di imbattersi in un satellite in funzionamento. Un pericolo immanente non solo in sé e per il funzionamento del satellite stesso, ma anche per gli eventuali astronauti che lo abitano. Pensiamo alla Stazione spaziale internazionale e al suo equipaggio, immersi in questa nube di oggetti di ogni dimensione che ruota insieme ad essa intorno alla Terra.

L’elemento di maggior significato di questi oggetti immersi nello spazio è che viaggiano a velocità elevatissima (molto più alta di un proiettile) e questo aumenta la possibilità di causare danni a ciò che entra in collisione con loro, quindi ad un satellite e alle eventuali persone. E questo rappresenta un pericolo anche se pensiamo a quelli di piccolissime dimensioni (meno di un millimetro), sia per l’effetto cumulativo sia per le interferenze che questa vera e propria pioggia può provocare nei sistemi. Senza eliminare anche la possibilità di esplosioni a causa delle batterie elettriche e dei propellenti contenuti ancora in essi.

Un ulteriore elemento, prima di pensare a possibili cadute è quello che l’attuale affollamento non consente di escludere un ulteriore incremento per l’impatto tra rifiuti spaziali e satelliti, aumentando la dispersione nello spazio. Di cosa parliamo e chi sono i maggiori produttori di detriti spaziali? Esiste già una classifica dei Paesi che lasciano in orbita una grande quantità di spazzatura cosmica. Ed esiste anche un problema legale da risolvere per potersene sbarazzare più facilmente.

Si tratta di moduli di vecchie stazioni spaziali, parti di razzi usati, satelliti fuori uso, utensili di astronauti sfuggiti di mano. Si è calcolato che il 95% degli oggetti attualmente in orbita terrestre è costituito da detriti cosmici velocissimi e che possono impiegare tempi lunghissimi prima di iniziare a precipitare in atmosfera. Nel dettaglio secondo i dati stimati dall’Agenzia spaziale europea (ESA) siamo circondati da circa 5 mila rifiuti spaziali più grandi di un metro, 20 mila più grandi di 10 centimetri, 750 mila più larghi di un centimetro e 150 milioni più spessi di 1 millimetro (uno di questi ha "tamponato" nell'estate 2016, fortunatamente senza gravi conseguenze, i pannelli solari del satellite Sentinel-1A).

Esiste anche una classifica dei “contributori” al traffico spaziale incontrollato. La Russia è il Paese con il maggior numero di oggetti celesti in orbita terrestre (oltre 6.500), ma non il principale produttore di spazzatura cosmica. Il primato spetta, infatti, anche se per poco, agli Stati Uniti, con quasi 4.000 frammenti. Tuttavia la Russia torna in pole position se guardiamo al complesso di frammenti spaziali e resti di lanciatori ancora in orbita. Un caso a parte ma già rilevante quello della Cina nonostante il suo programma spaziale sia relativamente recente. Pechino, infatti, ha già liberato 3.475 rifiuti cosmici. Nel 2007 poi, distrusse intenzionalmente un suo vecchio satellite durante il controverso test di un missile anti-satellite, che produsse oltre 2300 pezzi di materiale tracciabile in orbita e decine di migliaia di frammenti più piccoli. Anche il nostro Paese al momento ha poco meno di 30 satelliti in orbita e contribuisce all'inquinamento spaziale con i resti di 2 lanciatori e con un frammento di satellite di piccole dimensioni.

Per capire che cosa si possa fare per affrontare questa emergenza soprattutto in relazione al futuro incremento ed avviare una fase di recupero programmato, sono in corso studi e ricerche il cui primo focus è quello sui satelliti in disuso in orbita e la previsione degli ulteriori veicoli spaziali da lanciare nello Spazio. Nascono di qui le analisi e i tentativi di arrivare, ad esempio, ad un riutilizzo del satellite per garantirne un rientro integro sulla Terra, controllandone il deterioramento durante la fase di passaggio nell’atmosfera. Si pensa anche di creare un sistema che permetta di pulire lo spazio lasciando soltanto i mezzi in funzione e destinati ad operare. Per arrivare allo spazzino spaziale l’Agenzia Spaziale Europea ha in corso due progetti. Il primo prevede l’utilizzo di un robot e un satellite che, simulando la rotazione del detrito da recuperare, lo aggancino tramite due braccia meccaniche e lo riportino sulla Terra. Un sistema che si ritiene utile, in particolare, per detriti spaziali di grandi dimensioni. Un secondo studio prevede l’aggancio di grandi detriti spaziali, tramite una rete che viene lanciata, da una giusta distanza, verso il pezzo da intercettare, avvolgendolo con l’aiuto del movimento del detrito stesso.

In attesa che le possibili soluzioni possano dimostrare la loro efficacia, però, gli astronauti debbono prestare molta attenzione a deviare qualsiasi tipo di detrito. E il problema maggiore è quello che si determina in caso di detriti di piccole dimensioni. In questo caso è stato progettato un sistema che permetta alla Stazione Spaziale di frammentare il detrito e di assorbire i vari pezzi creati con l’impatto, prima che questi arrivino nella parte interna e danneggino la zona dove vivono gli astronauti.

La NASA, intanto, ha progettato un sistema di monitoraggio in grado di rilevare detriti di grandi dimensioni, tramite strutture sulla Terra, e soprattutto per evitare impatti che possano determinare esplosioni di grandi dimensioni. Ma la sfida resta comunque quella di arrivare ad una vera, stabile e organizzata pulizia dello spazio dell’orbita terrestre.

Esiste però un problema ulteriore di non facile soluzione e che, come per molte questioni sulla Terra, complica, impedisce, rallenta: quello legale e di proprietà dei detriti. Ovvero non ci si può disfare di un detrito spaziale che non appartenga al proprio Stato, senza il rischio di incorrere in accuse da parte del legittimo proprietario di esso. Immaginiamo poi cosa potrebbe accadere se in ballo vi fossero sistemi e apparati segreti di ogni Paese alle prese con lo spazio. Nel caso degli Stati Uniti ad esempio toccare un frammento di satellite, senza il benestare di Washington, potrebbe comportare l'accusa di un atto di guerra. Servono quindi leggi che stabiliscano per i frammenti spaziali "alla deriva", uno status speciale, che permetta alle autorità sovranazionali di agire per disfarsene. Insomma creare un’authority sovranazionale che possa operare in questo campo.

Per ora esiste, a dire il vero, una soluzione a buon mercato non scevra però da obiezioni che riguardano l’inquinamento terrestre in questo caso. È un luogo sperduto nell’Oceano Pacifico in cui i veicoli spaziali ‘vanno a morire’ o meglio vengono mandati a finire la propria vita. È il cosiddetto “Point Nemo”, il luogo più lontano dalla civiltà ad almeno 2.600 chilometri di distanza dalle terre emerse. Ad oggi è un vero e proprio cimitero dei relitti spaziali. È talmente sperduto che gli uomini più vicini ad esso sono ... gli occupanti della Stazione Spaziale Internazionale quando vi passano sopra; il laboratorio orbitante, infatti, viaggia ad “appena” 360 chilometri di altezza. Il nome suggestivo è stato scelto in onore del Capitano Nemo, il celebre protagonista dei romanzi di Jules Verne Ventimila leghe sotto i mari e L'isola misteriosa.

Ad oggi, a partire dagli anni intorno al 1970 a Point Nemo sarebbero “sepolti” i resti di 260 velivoli spaziali, con una netta impennata a partire dal 2015, dato che allora il conteggio era fermo a ‘soli' 161 velivoli. Fra essi, oltre alla celebre stazione MIR, vi sono ben 140 capsule da rifornimento russe e molte altre dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Tra i relitti affondati nell'area c'è anche quello di un razzo di SpaceX. Point Nemo, che è il cosiddetto “Polo dell'inaccessibilità oceanico”, non ospita tuttavia i resti dei satelliti, poiché sono così “piccoli” che si disintegrano nell'atmosfera una volta fatti precipitare.

Sul traffico di oggetti nello spazio non manca poi anche una sindrome detta di Kessler. È lo scenario, proposto nel 1978 dal consulente NASA Donald J. Kessler, nel quale il volume di detriti spaziali che si trovano in orbita bassa intorno alla Terra diventa così elevato che gli oggetti in orbita vengono spesso in collisione, creando così una reazione a catena con incremento esponenziale del volume dei detriti stessi e quindi del rischio di ulteriori impatti. La conseguenza diretta del realizzarsi di tale scenario consiste nel fatto che il crescente numero di rifiuti in orbita renderebbe impossibile per molte generazioni l'esplorazione spaziale e anche l'uso dei satelliti artificiali.

Alcuni ricercatori stanno iniziando a compilare un enorme base di dati che include le migliori informazioni possibili su tutto quello che è in orbita. Altri stanno sviluppando vere e proprie catalogazioni della spazzatura spaziale, studiando come misurare proprietà quali forma e dimensioni di un oggetto, in modo che gli operatori satellitari sappiano quanto devono preoccuparsi per quello che sta arrivando. E diversi studiosi stanno identificando orbite speciali in cui i satelliti potrebbero essere spostati dopo aver terminato le loro missioni in modo da bruciare rapidamente nell’atmosfera, aiutando così a ripulire lo spazio. Secondo molti non ci sono alternative. Una manciata di collisioni spaziali incontrollate potrebbero generare abbastanza detriti da innescare una cascata di frammenti, rendendo inutilizzabile lo spazio vicino alla Terra.

Ogni giorno, le forze armate degli Stati Uniti emettono in media 21 avvisi di potenziali collisioni spaziali. Anche se la nostra capacità di monitorare gli oggetti spaziali aumenta, aumenta anche il numero totale di oggetti in orbita. Ciò significa che aziende, governi e altri attori spaziali devono collaborare in nuovi modi per evitare una minaccia condivisa.

Alcuni scienziati stanno affrontando il problema della spazzatura spaziale cercando di capire con un alto grado di precisione dove si trovano tutti i detriti. Questo attenuerebbe la necessità di molte manovre inutili che vengono fatte per evitare potenziali collisioni. Parliamo del campo chiamato gestione del traffico spaziale, perché è analogo alla gestione del traffico stradale o aereo.

In conclusione, possiamo dire che le possibilità che il cielo o meglio che qualcosa cada dal cielo sono piuttosto elevate e aumentano in modo esponenziale. In un’epoca nella quale si torna a parlare di esplorazioni di altri corpi celesti sarebbe dunque opportuno ripulire il nostro cosmo domestico, applicando anche in questo campo il concetto di armonia con l’ambiente e, soprattutto, non ripetere lo stesso comportamento quando (nessuno allo stato lo può dire con certezza) il piede dell’uomo toccherà il suolo di un altro pianeta. Il primo impegno peraltro sarà quello della Luna, probabile base di lancio dei nuovi viaggi spaziali da non trattare come una discarica.