Oltre alla retorica del potere, un altro fattore che può portare a etichettare un comportamento come patologico, disfunzionale o anomalo è il suo misconoscimento, la sua mancata o errata comprensione. Nei bestiari antichi – grandi volumi medievali che raccoglievano le descrizioni dei più disparati animali – certe formiche con la testa molto più grande rispetto alla norma venivano definite macrocefale e considerate mostruose. In seguito, in merito a studi etologici più approfonditi si scoprì che, in una determinata specie di formiche, gli esemplari con la testa più sviluppata adempiono a un'importante utilità sociale, quella di sbarrare all'occorrenza l'entrata dei formichieri. In altre parole, gli esemplari macrocefali ricoprono il ruolo di «porte» viventi, per proteggere il luogo in cui si stanzia l'intera comunità.

In quest'ottica, la loro mostruosità appare in tutt'altra luce, la loro anormalità si rivela del tutto normale, addirittura eroica. L'oltraggio arrecato dai compilatori dei bestiari medievali all'immagine delle formiche non ne avrà certamente fatta sprofondare nessuna nella depressione, ma le cose si complicano quando ci va di mezzo la dignità degli esseri umani, quando l'«anormalità» investe una persona o una categoria di persone con determinate caratteristiche. Nel 1987, durante la stesura del DSM-III, fu votata un’etichetta provvisoria chiamata «disturbo della personalità controproducente». Usata per descrivere persone che si «autosacrificano», in particolare donne, che, stando alle apparenze, scelgono carriere o relazioni che con probabilità provocano delusioni. In questo deprimente caso non solo non si riconosceva – o non si voleva ammettere – che è la società stessa, per come è strutturata, a far sì che siano le donne a doversi occupare dei bambini, dei disabili e degli anziani, sottraendo tempo ed energie alla loro carriera lavorativa, ma addirittura i loro «sacrifici» venivano sviliti e imputati a un mero disturbo della personalità. Per fortuna, il «disturbo» incontrò così tante proteste da parte delle donne che successivamente venne rimosso tramite votazione dal DSM-IV.

Altro caso emblematico, quello dei «geni spazzatura». Fino a pochissimi anni fa, la maggior parte dei geni e del DNA erano denominati «spazzatura» perché gli scienziati, non avendone ancora scoperto la funzione, ne concludevano magistralmente che non servissero a nulla. Riporto la notizia tratta da La Repubblica (18 novembre 2013):

Negli esseri umani, circa l'1,5% del DNA è composto di geni che codificano per proteine. Il restante 98,5% è invece chiamato DNA «spazzatura», perché contiene geni senza scopo apparente o che regolano la produzione di proteine da parte di altri geni. Da qui lo scarso interesse mostrato, fino a qualche tempo fa, da parte della ricerca scientifica per il DNA non codificante. Il team di scienziati scandinavi ha scoperto che un centinaio di nuove regioni del genoma umano che si pensava non codificassero sono invece attive. Il DNA non codificante, il cosiddetto DNA spazzatura, potrebbe invece essere fondamentale per la ricerca.

È interessante notare che in tutti e tre gli esempi riportati, gli scienziati e gli specialisti del settore hanno valutato ed etichettato certi fenomeni in base a criteri che in seguito si sono rivelati limitanti se non addirittura fuorvianti. Il caso delle formiche liquidate come macrocefale e quello delle donne cui è stato affibbiato un disturbo della personalità controproducente, dimostrano ciò che accade quando lo sguardo dello scienziato – di un etologo, di uno psichiatra, ecc. – smarrisce la prospettiva dell’ulteriorità, ovvero la capacità di vedere e di leggere qualcosa come un elemento inscritto in un insieme più ampio e più complesso, che lo ingloba e lo trascende.

Nel momento in cui si considera l’unità individuale come unica morfologia di riferimento, qualsiasi scarto rispetto alle proporzioni individuali verrà considerato un errore, per eccesso o per difetto. Se si dà per scontato che il corpo individuale della formica sia l'unica forma accettabile, i pochi esemplari che non ricalcano le proporzioni «normali» vengono discriminati come aberrazioni naturali. Ma se si considerano anche le proporzioni del corpo sociale, se si considera anche l'unità di misura di una collettività, da cui discendono peculiari funzioni, la macrocefalia non apparirà più come sproporzione individuale, bensì come la forma più adeguata per adempiere una particolare funzione sociale. Ciò che appare eccessivo o difettoso per la morfologia individuale risulta perfettamente appropriato e utile per il corpo collettivo.

Questo è ciò che accade quando un individuo non opera soltanto in riferimento alla sua singolarità, ma opera anche per gli altri e attraverso gli altri: è in queste circostanze che un singolo corpo, il corpo individuale diventa anche l’«organo» (dal greco organon, «strumento, arnese», che si riconnette al verbo ergo, «io lavoro») di un organismo collettivo .

Ma a uno sguardo che abbia espulso l’ulteriorità dal proprio orizzonte semantico-ontologico, gli esemplari macrocefali appariranno soltanto un errore morfologico; allo stesso modo, l'inclinazione a prendersi cura degli altri è apparsa ai medici psichiatri come un errore comportamentale. La diagnostica psichiatrica ha classificato come «anomalia» un'inclinazione comportamentale, ovvero la disposizione a relazionarsi e prendersi cura delle persone più deboli. Anziché riconoscerne l'irrinunciabile importanza sociale, l'ha giudicata prendendo come riferimento il modello comportamentale individuale e maschile. Oltre il danno, la beffa. Non solo a questa categoria di persone è stata disconosciuta la grande utilità per il corpo collettivo, ma è stata persino discriminata. Sarebbe come non accorgersi che le formiche macrocefale difendono la tana comune, e in più, passandogli davanti quando stanno lavorando, coprirle d'insulti: «Siete delle testone, delle capoccione!».

Il caso dei cosiddetti geni spazzatura mostra che persino il genoma può essere vittima di questa discriminazione, di questa presunzione gnoseologica, della stessa tendenza a svalutare ciò che non si conosce. Gli scienziati che hanno adoperato l'espressione geni «spazzatura» sono stati spocchiosamente antropocentrici. Da umanisti decadenti, un po' filistei, apprezzano il mondo soltanto se questo è a «misura d’uomo», ovvero solo nel caso in cui si mostri manipolabile, utilizzabile e accessibile all’intelligenza umana. L'umanista contemporaneo - ipersensibile, schizzinoso, politically-correct - non tollera l’ignoto, e se ne offende. È un buonista invidioso, smorfioso. Incapace di tollerare ciò che è più grande, più potente, più trascendente, lo svilisce e lo castra, dice: “È spazzatura”.

(Estratto da: La variabile umana, Eleuthera, 2019. Per gentile concessione della casa editrice.)