Nel 1985 a Vecchiano in Provincia di Pisa nasce il Centro Nuovo Modello di Sviluppo per iniziativa di alcuni nuclei familiari decisi a vivere la propria dimensione in una nuova prospettiva sociale ed economica. Tra le strade individuate per affrontare le varie problematiche, per stare bene nel mondo, il centro si è soffermato sul concetto di consumo critico che consiste nel fare la spesa smettendo di utilizzare come unici criteri il prezzo e la qualità dei prodotti, ma capirne invece la loro storia sociale e ambientale. Mentre il sistema della produzione alimentare industriale fa di tutto per convincerci che il consumo è un fatto privato che riguarda solo noi, le nostre voglie, il nostro portafogli, la realtà è completamente diversa. Senza dover ritornare sul tema della produzione eccedentaria alimentare e dello spreco (1/3 circa della produzione di cibo mondiale) che ormai tutti sanno, è fondamentale fare i conti con quanto il nostro consumo personale può pesare negativamente sull’ambiente, sulla qualità del lavoro di molte persone, sul futuro prossimo dell’intero sistema sociale delle città e delle nazioni. Arriviamo subito al dunque, cioè agli stili di vita su cui non possiamo ormai più transigere pena il collasso planetario. Quando ci rechiamo ad acquistare un prodotto alimentare in un grande supermercato potremo trovare i prezzi “stracciati” per qualsiasi tipo di prodotto dal latte alla carne, al pane in cassetta alla frutta esotica, dalle spezie alle bevande, dai prodotti freschi a quelli conservati. Ma ci possiamo fidare di questi prodotti che esteticamente appaiono attraenti, che trasmettono un messaggio rassicurante sulla genuinità e a garanzia di buona qualità? Ci siamo mai chiesti qual è il prezzo equo per noi consumatori e al tempo stesso per i produttori? Siamo disponibili a fare uso di prodotti alimentari di cui non sappiamo la provenienza in virtù di un risparmio effimero che ci consente di spendere magari molto di più per un computer portatile o un’auto molto confortevole o un golf di cachemire?

Purtroppo la realtà che sta dietro un qualsiasi supermercato appartenente al sistema della GDO – Grande Distribuzione Organizzata – non è nota ai milioni di consumatori che leggono nei volantini pubblicitari i classici slogan “sotto costo”, “prezzi mai visti”, “tutto a 1 euro” e si affrettano ad acquistare, pur di non perdere l’occasione, anche cose che non gli sono necessarie. La trappola però è alla portata di tutti e sta investendo anche quei prodotti che riportano nelle etichette il metodo di produzione biologica e biodinamica a marchio (Despar, PAM, Coop, solo per citare qualche esempio), cioè prodotti forniti da terzi e venduti con il nome del distributore (private label). La grande distribuzione in Italia, come in buona parte dell’Europa, detta le regole su un mondo agricolo ancora frammentato e non sempre organizzato in filiere complessive, in grado di contrastare delle richieste ormai inaccettabili. I supermercati chiedono in primo luogo al produttore una sorta di “condivisione di rischio di impresa”, cioè una quota d’ingresso per esporre il prodotto nello scaffale, (in gergo listing fee), di conseguenza se non ha le capacità economiche viene messo in coda, ma benché abbia i requisiti non è detto che quella quota rimarrà fissa. L’alternativa che viene data al produttore è entrare nel marchio del grande distributore e stare alle regole di fornitura e di prezzi. Oltre a questo limite ne esiste un altro, ancora più vincolante, che strozza il produttore agricolo: l’asta al ribasso. Questo sistema prima di tutto fa sì che l’elemento centrale delle scelte della GDO è il prezzo e non altri aspetti. L’assegnazione della fornitura, ad esempio, di pomodori da passata, viene data all’azienda che propone il prodotto al prezzo più basso e le aziende pur di non essere escluse sono disponibili ad andare sotto il costo di produzione. E va ricordato che il 70 % dei prodotti alimentari transitano attraverso la grande distribuzione, quindi, la buona parte dei produttori agricoli è soggetto a questo sistema.

A questo punto è bene chiedersi chi paga questo bene se non viene pagato dal consumatore che lo acquista sottocosto. Il costo ambientale sociale e sanitario di queste merci sono più del doppio di quello pagato al supermercato, e i tecnici parlano di “costi occulti”. Qui entriamo nel vasto campo delle illegalità a livello ambientale, con lo sfruttamento di terreni senza il rispetto delle risorse, dei cicli delle stagioni, della fertilità, dello sfruttamento di manodopera stagionale con contratti ingiusti o addirittura fittizi, per non parlare del rischio sanitario quando, per ridurre i costi, i requisiti minimi di igiene e sicurezza alimentare rischiano di non essere rispettati. Non dimentichiamo che oltre a tutto questo la grande distribuzione per forza di cose deve far uso di packaging, fornendo la maggioranza della merce in confezioni sottovuoto, in plastica, in mono dosi come la frutta secca, prodotti freschi di quarta gamma a breve scadenza, che richiedono ampi spazi a scaffale in rapporto alla quantità del confezionato. Pensate alle insalatine nei cestini di plastica, a loro volta sigillati in buste trasparenti, apparentemente economiche mentre il prezzo al chilo è il quadruplo di quello che spendereste in un mercato contadino direttamente dal produttore. Si capisce il perché in quanto nella grande distribuzione la filiera è lunga, cioè il prodotto agricolo prima di poter esser acquistato dal consumatore è trasferito da uno o più operatori, quindi costa di più mentre il contadino non ottiene un prezzo remunerativo. E l’alternativa c’è, o meglio ci sarebbe, ma è dura invertire un sistema collaudato per creare bisogni indotti, incrementare i trasporti, la logistica e i consumi in generale. Già nei primi anni 2000 in Toscana e in altre regioni italiane come il Piemonte nascono i cosiddetti mercati contadini (conosciuti anche come Farmer’s Market) luoghi che ricalcano l’antico mercato della piazza, in cui i produttori portano i propri beni direttamente, in spazi aperti o chiusi con la possibilità di creare un’offerta ampia al consumatore, dalla frutta agli ortaggi più diversi di stagione, al miele, carne, latte, vino, formaggi, farine e panificati. Questi mercati, oltre a essere facilmente accessibili per i consumatori in città, sia in zone centrali sia periferiche, consentono di scegliere il prodotto in base alle proprie esigenze direttamente da chi lo coltiva e lo trasforma, di creare una relazione tra acquirente e produttore, di capire le dinamiche agricole e di acquistare frutti della terra locali e di stagione. Da questo tipo di sistema i vantaggi sono innumerevoli: il cliente è cosciente del tipo di prodotto acquistato, compera un bene fresco senza packaging, la filiera diventa corta, il prezzo va a ripagare l’agricoltore e non inutili pubblicità, trasporti, grossisti e distributori che fanno inutilmente lievitare i costi. Allo stesso tempo anche l’educazione alimentare consentirebbe di formare generazioni più consapevoli delle proprie scelte alimentari, quelle che influenzano tutto il nostro stile di vita. Tutto ciò infatti influisce perfino sul sistema di autoproduzione casalinga, dai trasformati (marmellate, sughi, succhi, yoghurt) ai panificati, essiccati e fermentati (pane, torte, dolci, erbe e tisane, salamoie, ecc.), consentendo di vivere in modo diverso anche la dimensione familiare ricreando occasioni per stare insieme, legate a ritmi stagionali ormai persi. La stagione delle conserve, delle raccolte dell’uva e della frutta, la vinificazione, la panificazione. In Italia questa realtà dei mercati contadini conta qualche migliaio di esempi da quelli più noti e storici come il Mercatale di Montevarchi a quelli più piccoli che spuntano come funghi ma hanno un compito molto gravoso quando si trovano circondati da nuovi cantieri di supermercati di catena che allettano i consumatori più distratti frettolosi in luoghi molto illuminati, fuori scala, tutti simili ma poco poetici…