“Ad dialèt a m’intend neca me”, così si esprimeva Pascoli, rispondendo al giovane Spallicci che, nel 1911, gli chiedeva lumi sul nome da dare a una rivista di cultura romagnola di imminente pubblicazione e che, poi, fu chiamata Il Plaustro con l’approvazione di Pascoli stesso.

Dunque, il poeta, a differenza di altri illustri letterati romagnoli (come, ad esempio, Moretti, che confessava candidamente di non sapersi esprimere nel “caro gergo natio”), in dialetto, non solo si esprimeva, ma si compiaceva di esserne intenditore: in che modo, dunque, si rapportava con esso, come rientrava nella sua visione della lingua e della poetica?

Premesso o dato per scontato che tutta l’opera pascoliana si nutre di humus dialettale – e non solo, naturalmente, romagnolo – e sottolineato che nella pungente polemica con D’Annunzio, Pascoli insinuava maliziosamente che avrebbe voluto vedere la poesia del Vate vivificata “da qualche buona infusione di dialetto”, la prima domanda che è opportuno farci riguarda il giudizio che il poeta dava della sua lingua nativa.

In Romagna tua, tratta da La Mirabile Visione, l’autore di Myricae riporta l’interpretazione dantesca del dialetto romagnolo, giudicato “muliebre… propter vocabulorum et prolationis mollitiem”, non condividendola: “Dante non ne ragiona giusto”, scrive, infatti, aggiungendo che il nostro volgare merita piuttosto gli aggettivi che il De vulgari eloquentia affibbia al vernacolo contrario: “vocabulis accentibusque irsutum et hispidum”.

Pascoli, pertanto, reputava l'idioma romagnolo aspro, rude, brusco e questo tagliente giudizio ci rimanda ad un’altra vexata quaestio della dialettologia pascoliana riguardante la variante di lingua romagnola prediletta e praticata dal poeta.

Il problema fu affrontato e sviscerato, in occasione del convegno forlivese di “Studi Romagnoli” del ’72, da Claudio Marabini, che poi raccolse l’interessantissima e documentatissima relazione in un volumetto, Il dialetto di Gulì edito dal Girasole, ancor oggi prezioso punto di riferimento per ogni ricerca sull’argomento, tanto che un’altra penna caustica romagnola, F. Fuschini, scrisse del libro: “Dice tutto, lo dice con compiutezza certosina e con piacevolezza faentina. C’era un Pascoli italiano e uno latino: adesso c’è anche un Pascoli a denominazione di origine controllata come il sangiovese”.

Ora, dalle citazioni in romagnolo raccolte da lettere e cartoline o inserite nella biografia scritta dalla sorella Mariù o in quelle riportate da due amici e concittadini sanmauresi, Giuliano e Ruggero Tognacci, risulterebbe una discrepanza tra la grafia vernacolare di S. Mauro, attestata da questi ultimi, dove prevale una marcata, sinuosa e “barbarica” dittongazione e il romagnolo più “pulito” e lineare del ravennate e della Romagna centrale, con una possibile e probabile predilezione del Pascoli per quest’ultima variante, d’altra parte il poeta stesso chiamava Ravenna “sua città paterna” e se ne definiva “figlio lontano”.

Scelta analoga è stata quella di un illustre studioso santarcangiolese, Augusto Campana, che, come ha notato Gianfranco Miro Gori, quando si esprimeva in dialetto fuori dal paese natale, affermava di “aderire ad una sorta di koinè linguistica romagnola media… depurando il linguaggio dei dittonghi”.

Di Pascoli, ahimè, non abbiamo alcuna compiuta testimonianza lirica in romagnolo, il dialetto, per lui, come vedremo, aveva qualcosa di più e qualcosa di meno di una lingua di comunicazione, ma se “Zvanì” non ci ha lasciato nessuna vera lirica vernacolare, c’è chi ha pensato di tradurre in romagnolo alcune delle sue più note poesie. Sull’annosa diatriba della liceità e del significato delle trasposizioni vernacolari si sono incontrate e scontrate severe censure e approvazioni convinte, pervicaci diffidenze e aperture generose, in effetti si è tradotto di tutto, dal Vangelo secondo Matteo ai lirici cinesi, fino all’inimitabile prosa dell’Esame di coscienza di un letterato: “divertissement”, esercizio stilistico, confronto di culture, volgarizzazione “ad usum delphini”?

Certo, in un mondo sempre più virtuale può esserci pure “Int la tor e’ silenzi l’èra za èlt”, anche perché l’autore-traduttore, P. Guberti (cimentatosi anche con Iliade ed Odissea in La dea farabutlona), ha reinventato i versi del poeta sanmaurese, proprio in quella koinè centro-romagnola probabilmente prediletta dal Pascoli, ma questo esercizio, come ha spiegato Guberti stesso, è servito anche a scoprire e riscoprire, in una sorta di rimando di specchi, le screziature coloristiche, i contrasti timbrici, e le sfumature misteriose che l’autore-traduttore, con la sua esperienza e sensibilità pittoriche, ha saputo comunicare, cercando di far trasparire, per citare un’espressione di Guberti stesso, “la voce del sangue”.

Ma questa voce “anelante”, che è poi la voce della poesia, come poteva risuonare nel cuore di chi “riprende l’oscuro viaggio cantando”?

In altri termini, che valenze e significati dava l’autore dei Canti di Castelvecchio alla variante vernacolare del linguaggio poetico, sia pure espressa con calchi italiani in un contesto sintattico romagnolo?

Per cercare di dare una risposta plausibile al fondamentale quesito, ci soccorre la finezza interpretativa di Marabini, che sottolinea come nella poetica pascoliana anche il dialetto è la voce di un’edenica età dell’incoscienza felice, assimilabile ad una lingua morta, una lingua preverbale - come quella che, poi, il poeta usava quando voleva comunicare col suo amato cagnolino Gulì - che creava una sorta di “regressione, l’eco mitica dell’antico nido d’infanzia… dove nido, madre e linguaggio fanno tutt’uno…” il che si può riassumere in un nome: “Zvanì”.

In questo fonema, così impastato di sensorialità uditiva, c’è la dolcezza e la tenerezza del diminutivo che però non cade nello svenevole perché reso romagnolamente severo e virile dall’asprezza del gruppo consonantico iniziale, così come il troncamento, svettante e secco, sembra quasi teso a facilitare il richiamo o il comando (come in Gulì…) o la sottomissione-protezione.

“Zvanì” si rivela, quindi, termine salvifico, nome contenitore della voce rassicurante della madre, come se si trattasse di un io ausiliario che supplisce l’affievolirsi delle energie vitali di Giovanni quando si trova di fronte a prove della vita troppo dolorose per essere sopportate.

Se poi, per concludere, vogliamo trovare l’esegesi più profonda e nello stesso tempo più antica di questo aspetto della poetica pascoliana, non possiamo non rivolgerci al fondamentale ed inimitabile saggio di Renato Serra: in una prosa al tempo stesso raffinata e concettosa, il grande cesenate ci fa capire che, sì, il poeta prende dall’”idioma nostro” espressioni e strutture sintattiche e sembra addirittura che tutta la terra di Romagna risplenda nella sua lirica “dalle punte di S. Marino fino al mar di Bellaria e alla pineta di Ravenna…”, ma c’è qualcosa di più, di più complesso, di più misterioso, perché “Zvanì” si è servito del dialetto “in quanto quelle voci gli suonavano sul labbro… come eco dell’anima nuda”, e la parola poetica, romagnola o toscana che sia, la sentiamo quasi vanire, smaterializzarsi, per divenire ubiqua, metastorica, dal microcosmo del proprio destino individuale al macrocosmo di una sofferta dimensione universale e allora, la sua “è una voce bianca che lascia cadere il verso come cosa venuta… da un invisibile mondo… muta eco dei sogni”.

Bibliografia
G. Camerani, Nota linguistica in “Int la tor e’ silenzi l’era za èlt”, Ravenna, Longo, 2002.
F. Fuschini, Concertino Romagnolo, Ravenna, Girasole, 2004.
G.M. Gori, Digressioni di un pascolizzante in “Int la tor e’ silenzi l’era za èlt”, Ravenna Longo, 2002.
C. Marabini, Il Dialetto di Gulì, Ravenna, Girasole, 1973.
G. Pascoli, Ravenna e la Romagna negli “Studi Danteschi”, Ravenna, Longo, 1966.
G. Pascoli, P. Guberti, “Int la tor e’ silenzi l’era za èlt”, Ravenna, Longo, 2002.
R. Serra, Epistolario, Firenze, Le Monnier, 1953.