È ormai, se non un dato scientificamente acquisito, certamente un elemento di grande attenzione e di grande riflessione tra scienziati: parliamo dei Campi Flegrei, di quell’area bella dal punto di vista naturale, tortuosa da quello geologico che fronteggia da nord ovest la baia di Napoli e guarda là, in lontananza, il Vesuvio, il vulcano più temuto e più studiato e monitorato al mondo. Quello reso famoso per la distruzione che apportò alle città romane della Campania, Pompei, Ercolano e Stabia, una tragedia di quasi duemila anni fa. Quel monte che sembra spaccato a metà e che in realtà è quel che resta del vulcano originario esploso nel 79 d.C. e sulle cui pendici vivono oltre 800 mila persone e che domina da vicino l’intera area di Napoli. Sulla sola ipotesi di una nuova eruzione catastrofica si sono immaginati, programmati, interventi di emergenza per una popolazione molto più fitta di duemila anni fa che dovrebbe essere evacuata in tempi da record.

Ebbene, se il Vesuvio costituisce un pericolo immanente quanto meno in termini scientifici e ogni suo borbottio viene catalogato e anche il suo silenzio apparente viene monitorato e studiato, è in quella zona che sembra collinare a nord ovest del golfo, morfologicamente di incredibile varietà e insolita bellezza, con baie incantevoli, scorci di laghi, scogliere a picco, che si nasconde una minaccia assolutamente più grave e un rischio ancor più grave di quello del Vesuvio.

Gli scienziati sono infatti sempre più convinti a livello internazionale di trovarsi dinanzi a quelli che vengono definiti supervulcani, edifici di straordinaria e grande complessità, strutture vulcaniche immense per dimensioni e la cui attività può innescare mutamenti tali da modificare la stessa vita sulla Terra o su aree grandissime di essa, modificando la stessa presenza dell’uomo. Di queste preoccupanti realtà ne esistono almeno dodici sulla terra, immense caldere che arrivano ad avere decine di chilometri di diametro. Tra i più conosciuti quelli di Yellowstone negli Stati Uniti, il Lago Toba in Indonesia e i Campi Flegrei in Italia. Per correttezza e completezza va anche sottolineato che il termine “supervulcano” si deve agli autori di un documentario mandato in onda dalla BBC nel 2000. Non è però un termine utilizzato in vulcanologia in quanto considerato “improprio”, perché le strutture che vengono indicate in quel modo sono al livello del sottosuolo e, quindi, non visibili in superficie. Tuttavia, si ritiene plausibile dopo l’osservazione di depressioni circolari simili a quelle delle normali caldere vulcaniche, ma decisamente molto più grandi che caratterizzano questi oggetti, che siano generate da un hot spot (ovvero un punto caldo) situato in profondità sotto di esse.

Si potrebbe obiettare allora, nel caso dei Campi Flegrei, come è possibile che sotto quelle acque marine o lacustri che attirano turisti, studiosi, subacquei da ogni parte, vi sia un mostro del genere? Che vi sia purtroppo è ormai assodato, quale sia la sua dinamica e i tempi di essa è tutto un altro affare. Siamo allora di fronte a un allarme per catastrofe in tempi brevi, con conseguenze inimmaginabili? Come sempre la traduzione della ricerca scientifica partendo da dati certi può sottolineare e identificare segnali e dati che indicano una possibile direzione e, tuttavia, come accade anche nel campo della sismologia, la conoscenza pur approfondita e in crescita dell’uomo non lo rende ancora capace di prevedere con certezza i fenomeni naturali, ma certamente poterne delineare i probabili contorni, questo sì.

A far accendere con più attenzione i fari della scienza su questa area indubbiamente di grande fascino e interesse, uno studio (pubblicato sulla rivista Geology) condotto dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), dalle università britanniche di Oxford, Durham, St Andrews, dal Cnrs francese e dall’Università di California. In questo studio è stata individuata quella che viene indicata come la terza misteriosa grande eruzione dei Campi Flegrei, detta di Masseria del Monte, un evento che 29 mila anni fa provocò una ricaduta di ceneri e materiale vulcanico capace di ricoprire tutta l’area del Mediterraneo centrale.

“Il materiale vulcanico”, spiega Biagio Giaccio, ricercatore del Cnr-Igag, “proiettato nell’alta atmosfera durante le grandi eruzioni esplosive può raggiungere grandi distanze dal vulcano e, ricadendo al suolo, formare sottili coltri di ceneri che ricoprono enormi superfici, fino a milioni di km quadrati”. Sin dagli anni ’70 un livello di ceneri datato a circa 29.000 anni fa è stato ritrovato nei sedimenti lacustri e marini di un’ampia area del Mediterraneo centrale, fornendo la prova indiretta di una grande eruzione avvenuta nella regione. Nonostante questa considerevole evidenza regionale e la sua relativa giovane età, nessuna prova geologica di un simile evento era stata fino a oggi mai trovata nelle aree vulcaniche mediterranee.

Oggi, invece, “attraverso indagini stratigrafiche, geochimiche e datazione di rocce vulcaniche dei Campi Flegrei, rinvenute nella periferia settentrionale di Napoli, è stato possibile identificarne l’origine nell’eruzione che distribuì le sue ceneri nell’area”, sottolinea Roberto Isaia, ricercatore dell’Ingv-Osservatorio Vesuviano. “Inoltre, attraverso un’elaborazione al computer dei dati di dispersione delle ceneri, eseguita da Antonio Costa, ricercatore dell’Ingv-Bologna, è stato possibile ottenere un modello simulato dell’eruzione di Masseria del Monte dei Campi Flegrei e la stima della sua magnitudo”. Questi dati indicano che la magnitudo (M) dell’eruzione fu 6.6, quindi molto simile a quella della più recente grande eruzione del Tufo Giallo Napoletano (circa 14mila anni fa, di 6.8) i cui depositi formano uno spesso banco di tufo nel sottosuolo della città di Napoli, cavato e utilizzato fin dall’età classica come pietra da costruzione.

“Quella del Tufo Giallo Napoletano”, precisa Giaccio, “è la seconda più grande eruzione della storia eruttiva dei Campi Flegrei, inferiore solo all’enorme eruzione dell’Ignimbrite Campana di circa 40mila anni fa che ricoprì la Campania di una spessa coltre di tufo, e le cui ceneri sottili raggiunsero anche la Pianura Russa, a migliaia di km di distanza”. Con l’identificazione dell’eruzione di Masseria del Monte, si aggiunge quindi un terzo evento di grande magnitudo nella storia vulcanica flegrea, che dimezza il tempo di ricorrenza medio delle grandi eruzioni di questo vulcano.

Ed è proprio questo dato che mette in evidenza come, nonostante la lunga storia di ricerca condotta nei Campi Flegrei, le testimonianze geologiche di questo vulcano possano essere frammentarie, difficili da cogliere e non pienamente rappresentative della storia e intensità degli eventi del passato.

Per gli scienziati è da qui che viene “l’importanza di un approccio multidisciplinare, che usa e integra dati da archivi sedimentari distali e delle aree vulcaniche, nonché modelli di dispersione delle ceneri, ai fini di una più dettagliata ricostruzione della storia e stima delle magnitudo e stili eruttivi, e quindi della pericolosità, di uno dei vulcani più produttivi dell’Europa”.
Che cosa è, dunque, questo supervulcano? I Campi Flegrei sono un’area vulcanica complessa all’interno della quale, negli ultimi 39.000 anni, sono stati attivi numerosi centri eruttivi differenti. La storia geologica dei Campi Flegrei è stata dominata come abbiamo capito da due grandi eruzioni: l'eruzione dell’Ignimbrite Campana (IC-avvenuta 39.000 anni fa) e l'eruzione del Tufo Giallo Napoletano (TGN-avvenuta 15.000 anni fa). Tali eruzioni sono connesse a due episodi di sprofondamento che, sovrapponendosi, hanno generato una caldera complessa che rappresenta la struttura più evidente del Distretto Vulcanico Flegreo. Quest'ultimo comprende i Campi Flegrei, parte della città di Napoli, le isole vulcaniche di Procida e Ischia, e la parte nord-occidentale del Golfo di Napoli. L’attività vulcanica è connessa agli eventi tettonici distensivi che hanno determinato la formazione della depressione, compresa tra il Monte Massico a nord e la penisola sorrentina a sud, che prende il nome di Graben della Piana Campana.

L’età di inizio del vulcanismo in questa zona non è tuttora precisamente individuata anche se sequenze di lave e piroclastiti di circa 2 milioni di anni di età sono state ritrovate nel corso di perforazioni tra Villa Literno e Parete, in affioramento i prodotti vulcanici più antichi hanno un’età di circa 60.000 anni e sono costituiti principalmente da depositi piroclastici e da resti di duomi lavici ormai scomparsi. L'interpretazione di nuovi dati stratigrafici sia di superficie che provenienti da perforazioni, anche alla luce di tutti i dati geologici, geomorfologici, petrologici e geofisici disponibili in letteratura, ha permesso di ricostruire in modo più dettagliato la ricostruzione della storia vulcanica e deformativa della caldera flegrea.

Le rocce più antiche dell'Ignimbrite Campana sono esposte solo lungo le scarpate che bordano i Campi Flegrei e comprendono i duomi lavici di Punta Marmolite (47.000 anni) e di Cuma (39.000 anni), i depositi piroclastici dei Tufi di Torre Franco (più di 42.000 anni) e il relitto del cono di tufi di Monte Grillo.

Solo alcuni dei centri eruttivi che hanno originato i depositi citati sono esposti, tuttavia, gran parte delle piroclastiti affioranti sembrano aver avuto origine da centri ubicati in aree non distanti. Depositi piroclastici alla stessa altezza stratigrafica sono stati incontrati in perforazione a Poggioreale, Capodimonte, Ponti Rossi, Chiaiano e Secondigliano.

L'Ignimbrite Campana, peraltro, viene considerata la maggiore eruzione esplosiva avvenuta nell'area mediterranea negli ultimi 200.000 anni. Tale eruzione, avvenuta in un centro ubicato nei Campi Flegrei, ha seppellito gran parte della Campania sotto una spessa coltre di tufi. Durante l’eruzione si formò una caldera che determinò lo sprofondamento di una vasta area che comprende i Campi Flegrei, parte della città di Napoli e una parte delle baie di Napoli e Pozzuoli.

Venendo a tempi, per così dire, più recenti scopriamo che le rocce eruttate nel periodo di tempo compreso tra l'eruzione dell'Ignimbrite Campana e quella del Tufo Giallo Napoletano distanti oltre ventimila anni sono esposte lungo il bordo della caldera dell'Ignimbrite Campana, all'interno della città di Napoli e lungo i versanti nord-occidentale e sud-occidentale della collina di Posillipo. I centri eruttivi, che hanno generato principalmente attività esplosiva, erano all'interno della caldera dell'Ignimbrite Campana, sia nella parte attualmente emersa, sia nella parte che attualmente si trova sotto il livello del mare nel golfo di Napoli. In particolare, a Torregaveta, Monticelli, Monte Echia, lungo il versante meridionale delle colline di San Martino e Capodimonte, e lungo i versanti nord-occidentale e sud-occidentale della collina di Posillipo. La collina di San Martino è una cupola lavica ricoperta da prodotti piroclastici. Anche i vulcani sommersi del Banco di Pentapalummo e del Banco di Miseno, che si trovano nella Baia di Pozzuoli, appartengono a questo periodo di attività.

L'eruzione del Tufo Giallo Napoletano è la seconda per importanza nell'area campana. Nel corso dell'eruzione furono emesse, nell’area dei Campi Flegrei, alcune decine di chilometri cubi di magma che ricoprirono un'area di circa 1.000 km quadrati. I depositi connessi con l'eruzione del Tufo Giallo Napoletano si rinvengono nell'area napoletano-flegrea e nella Piana Campana fino ai rilievi dell'Appennino. L’eruzione del Tufo Giallo Napoletano fu accompagnata dalla formazione di una caldera che determinò lo sprofondamento di un’area che comprende parte dei Campi Flegrei e della baia di Pozzuoli.

La più recente, di piccola intensità, si è verificata nel 1538 dal monte Nuovo (lago Lucrino, Pozzuoli). Un'eruzione, quest'ultima, che secondo uno studio di Francesca Forni (Politecnico di Zurigo, Svizzera) è molto particolare: l'analisi delle lave avrebbe rivelato infatti caratteristiche molto simili a quelle dei grandi eventi precedenti.

Nel suo insieme la zona è oggi considerata un unico supervulcano, inserito nel catalogo dei 10 vulcani più pericolosi del Pianeta. Secondo la ricercatrice è in atto, oggi come allora, una separazione dei gas presenti nel magma dal resto del materiale. Questo fatto, in particolare, è molto importante: è proprio la quantità di gas che si accumulano all'interno di una camera magmatica che, esercitando una pressione che aumenta sempre di più, porta infine a violenti fenomeni di tipo esplosivo. La zona dei Campi Flegrei, che va considerata come un’unica grande caldera vulcanica è interessata da secoli da fenomeni di innalzamento e depressione, ossia dal bradisismo, e i dati che vengono raccolti mostrano che negli ultimi diecimila anni la zona eruttiva di 15 mila anni fa si stia innalzando.

Dobbiamo allora cominciare a preoccuparci seriamente? Lungi dall’innescare psicosi collettive altrettanto pericolose quanto i fenomeni vulcanici, va preso atto che i Campi Flegrei sono considerati un rischio concreto e noto da tempo. Segnando una scala di rischio, attualmente per la scienza siamo in allarme giallo, ossia in una situazione che necessita di grande attenzione e costante controllo.

Un gigante addormentato, allora, sonnacchioso ma più brontolone del Vesuvio e in costante evoluzione. E forse non è inutile ricordare come per gli antichi quegli anfratti spettrali di antiche caldere crollate o quei laghi dalle acque scure e sinistre che punteggiano il territorio del supervulcano ed emettono spesso gas velenosi e materiali incandescenti in profondità, venivano considerati altrettanti possibili ingressi dell’Ade, quell’al di là misterioso e inquietante che agitava le riflessioni e le opere di scrittori e filosofi!