Come spesso accade quando si visita un grande museo o si incontra l’opera d’arte che da anni si desidera vedere il nostro animo è già predisposto poiché se ne è studiato pressoché tutto prim’ancora di poterlo apprezzare direttamente. Lo stesso avviene quando si visita un giardino la cui fama per storia, notorietà e tradizione rientra tra le opere del paesaggio più conosciute. Probabilmente tutto questo vanifica ciò che un giardino procura di più essenziale e significativo nel visitatore.

“Cos’è un giardino?” questa è la domanda che si pone l’autore anonimo del libro segreto del giardino giapponese, Sakuteiki, e ad essa risponde: “Uno dei mezzi a disposizione dell’uomo per accedere al Grande Risveglio – ovvero alla conoscenza della realtà che sta oltre il sogno” (1). Il giardino, piccolo o grande che sia, progettato o spontaneo, antico o moderno, raffinato o popolare, naturalistico o artificioso, se è vero che si rivolge allo spirito è vero allo stesso modo che si rivolge all’uomo sensibile, cioè colui che percepisce i segnali di un ambiente che lo circonda, emette e trasmette.

Quindi chi si accinga a visitare uno di questi covi di natura abbandonata o addomesticata è bene che lasci alle spalle quello che di più artificiale lo leghi alla realtà per dileguarsi liberamente in un percorso quasi iniziatico, scevro da pregiudizi e sovrastrutture mentali, che tenderebbero a fare incasellare il giardino in un'epoca, in uno stile o in un contesto geografico.

Ho visitato qualche giorno fa il più bel giardino botanico contemporaneo italiano per ricchezza di specie di ambienti botanici, per estensione, 20 ettari, e per lo studio artistico e architettonico di chi lo ha concepito. Senza alcuna guida sotto braccio e scevra da ogni predisposizione di animo ho affrontato Trauttmansdorff, giardino nato nel 2001 a pochi passi dal centro di Merano, città nota per il suo clima mite e tra le più alte stazioni di flora mediterranea in termini di latitudine. La tradizione botanica è pluricentenaria, qui collezionisti di piante e proprietari di ville portarono il gusto della flora esotica nel secolo, l’Ottocento, in cui l’acclimatamento di specie rare provenienti dal’Asia e dall’America raggiunse la massima espressione.

Percepisco, camminando verso il giardino, che la città mantiene ancora vivo il segno dell'importante storia di stazione di villeggiatura e della aristocrazia centro europea, e l’entrata in questo nuovo episodio nel paesaggio meranese rappresenta uno stacco severo col passato, quando un edificio dall’architettura contemporanea lineare a colori decisi accoglie i numerosi visitatori. Al primo impatto viene da porsi la domanda se quel luogo faccia parte dell’industria turistica dove l’architettura e l’ingegneria o l’arte abbiano il sopravvento sull’idea primigenia di giardino che nacque come luogo di necessità e di produzione.

Evitando di seguire le mappe con itinerari che condurrebbero a ben 80 ambienti botanici con specie provenienti da tutte le parti del mondo, tento di dare uno sguardo d’insieme percependo che il giardino si dipana su un versante intero articolato su ampi declivi, che alternano macchie colorate a interi boschi misti, i cui percorsi a serpentina rimangono catturati da una vegetazione lussureggiante e ondulata secondo le linee di livello. So per certo che mi perderò molto di questa offerta sproporzionata, ma è un vero visibilio per qualsiasi appassionato di natura e in particolare di botanica.

Mi addentro quindi in un'area boschiva ombrosa e colgo la biodiversità della foresta poiché ad alberi che mi appaiono più familiari, aceri americani, querce e conifere si mescolano fronde leggere di felci arboree che svettano alte con tronchi marroni sfilacciati, dall’odore pungente di muschio. L’acqua scorre in cascate che rompono il silenzio lungo rocce bagnate e lucide rosso amaranto. L’effetto ottenuto è quello dello spaesamento, siamo già nei meandri di un percorso che non permette di vedere il paesaggio circostante, quinte di alti bambù ondeggianti e vaporosi conducono verso piccole stanze, costruzioni in legno e grandi canne cave a formare abitazioni di gusto spontaneo proprio della foresta tropicale.

E’ facile seguire la luce e portarsi verso una radura dove la coltivazione del riso a gradoni riporta sempre all’oriente e agli ambienti umidi del Giappone e alle piantagioni di tè in Asia Orientale. Alla mia destra scorgo un versante aperto un prato fiorito tutto esposto a sud, con piante dai pennacchi leggeri, violacei, che contrastano con capolini di Sedum, piante dal colore grigiastro con foglie carnose in mezzo a cespugli di settembrini blu che catturano la vista come tanti bottoni scuri su un tessuto uniforme. Sono già fuori dalla foresta di latifoglie e scorgo serpentine di macchia mediterranea che vanno verso il basso fino a delle pergole di viti. Il leccio, i mirti , le filliree, i corbezzoli con le foglie di un verde intenso traslucido fanno dimenticare la frescura del bosco. Cedri, limoni in vasi giustapposti segnano un percorso a gradoni che guardano verso i laghi sottostanti che attirano come farebbe una peschiera se ci trovassimo in un giardino spagnolo come Alhambra.

Sotto le pergole dense di grappoli neri perfettamente scolpiti ci si ritrova attraversando un oliveto fra leggeri Cosmos viola, bianchi e malva. Ma poi attende la bordura all’inglese, il giardino di bossi con un labirinto, il giardino cinquecentesco italiano squadrato, per poi salire e inerpicarsi di nuovo verso la collina attraverso episodi di arte legata ai temi rappresentati nelle diverse aree tematiche. Un ponte sospeso con un affaccio a sbalzo sulla vallata sottostante è un'opera di ingegneria che valorizza in modo coraggioso il paesaggio meranese, sculture di acciaio corten si ispirano ai contesti degli areali ingabbiando in un portale tonnellate di tronchi tagliati a costruire una scultura vegetale, sotto la quale ammirare il panorama e sostare per contemplarlo.

L’areale delle piante grasse accoglie un enorme scultura in acciaio a forma di Echinocactus grusonii che riflette quel sole di cui tanto queste Crassulaceae hanno necessità per vivere nei luoghi di origine. E ancora i paesaggi terrazzati, acquatici fino ai vari ambienti botanici e naturalistici dell’Alto Adige fino ad arrivare a chiudere in una sorta di cerchio virtuale all’orto, il primo giardino della storia. Innumerevoli i temi che potrebbero essere sviscerati attorno a quest’opera d’arte vivente che si innesta con un'intuizione geniale dei suoi ideatori sugli antichi percorsi voluti da un'ospite celebre, Elisabetta d’Austria che soggiornava qui nel Castello principesco, Landesfürstliche, già residenza cittadina dell’arciduca Sigismondo d’Austria, risalente al 1449-1480. La creazione di questo grande contenitore culturale, didattico, artistico e architettonico non si limita alla rappresentazione delle vegetazioni del mondo secondo la logica classificatoria della tassonomia botanica e della fitogeografia, ma riesce a coniugare l’intento formativo e quello artistico-architettonico nonché ludico senza ostentarne l’intendimento.

La sfida dei progettisti non era limitata alla risoluzione di questioni tecniche e compositive che avrebbero consentito un buon prodotto dell’industria turistica, riconducibile alla tipologia del parco divertimenti, che comunque descrive il nuovo “giardino pubblico” contemporaneo, ma estesa alla realizzazione di opera che fosse luogo di equilibrio tra ricerca e orticoltura intesa nella originaria accezione di giardinaggio-horticulture. Si legge infatti nella sua visione complessiva un tema filosofico importante che fa da filo conduttore e sottende a tutte le scelte progettuali e di realizzazione: l’etica ambientale.

Alcuni autori che hanno costruito la storia del pensiero sulla questione del rapporto uomo-natura sono il riferimento per le odierne correnti filosofiche sul tema, da Aristotele a Spinoza a Rousseau. Il porre al centro della questione dell’idea del giardino, la natura come complesso di forze e risorse indispensabili all’uomo e per questo oggetto di studio, riflessione, in un'ottica di uso attento e parsimonioso nonché rispettoso. L’acqua, le rocce, le piante costituiscono i protagonisti indiscussi dell’opera e le modalità per poterne godere avvicinandosi, toccandoli e sentendone odori e profumi, ruvidezza, temperatura, colore sono tali da trasmettere un messaggio ben leggibile e interpretabile. L’uomo fa parte di questo sistema e ne è umile utilizzatore e debitore, le tecnologie debbono affinarsi per raggiungere un giusto equilibrio tra uso e recupero, per rispettarne ritmi e tempi realizzando una convivenza consapevole e durevole nel tempo.

Qui si inserisce anche il tema della eco-compatibilità degli interventi sul paesaggio, sarebbe auspicabile cioè che parchi e spazi pubblici avessero una connotazione nuova o meglio rinnovata rispetto a quando nacquero nell’Ottocento in Francia e in Inghilterra, i primi spazi di piacere per il popolo. Se pensiamo che negli Stati Uniti il luogo di uscita domenicale era strettamente legato alle esigenze di ricreazione e salubrità quando erano nate le prime grandi città industriali e il bosco urbano, i parchi erano rifugio di borghesi, ma anche di ceti meno abbienti, i primi ambiti democratici di aggregazione sociale, oggi le priorità sono mutate.

Si parla infatti di spazi in cui la tecnologia e lo studio ecologico degli ambienti urbani abbiano un ruolo prevalente anche rispetto all’estetica intesa nel senso tradizionale e forse ormai datato. Luoghi ordinati con bordure basse a corredo di grandi alberature, parchi per il gioco, le aree a panchine e percorsi ben definiti lasciano il posto a corridoi generici di vegetazione più o meno articolati dove si sperimenta l’evolversi e l’avvicendarsi di specie a seconda delle loro proprie esigenze e capacità di sopravvivenza, senza un intervento troppo cadenzato e frequente di manutenzione. La sfida è quella di trovare un giusto equilibrio tra pianificazione degli spazi e libero sviluppo di erbacee perenni a cui è data la libertà di spostarsi a seconda delle dinamiche di sopravvivenza, competizione tra specie, in relazione alle capacità di disseminare i propri semi, alla presenza di agenti che favoriscano l’impollinazione, il vento, gli insetti, il clima.

Questi giardini che in buona parte possono definirsi in movimento (2) sono concepiti come spazi di libertà e molti di essi non propongono una precisa modalità per essere vissuti, li si può guardare da lontano, passarvi e intrattenervisi, sedersi con diverse possibilità (panche, rocce, massi , tronchi, staccionate) in modo tale che quel luogo susciti tutti gli interrogativi possibili senza una regola predefinita. Questi giardini, che hanno minori necessità manutentive dei giardini stabili con specie che si ripetono fisse negli stessi spazi per anni, sono luoghi di sperimentazione per gli stessi giardinieri che possono intervenire giocando sull’opportunità di una migliore riuscita di un effetto compositivo adeguandosi al naturale prevalere di alcune specie rispetto ad altre.

La mancanza di fissità – pur mantenendo l’idea generale di progetto – consente un avvicendamento di accostamenti, l’entrata in scena di nuove specie spostatesi autonomamente (con il vento tramite disseminazione, ad esempio) permette al giardino di rinnovarsi nelle stagioni e negli anni spingendo il visitatore a tornare per vedere nuovi accostamenti o per approfondire certi aspetti botanici soggetti a mutevolezza. Certe zone, ad esempio quella delle aree lacustri con boschi ripariali e canneti, sono opportunamente uno stacco tra zone più governate, come gli ambiti a vigneti e a frutteti e dei cespugli autoctoni. L’effetto di incolto e spontaneo educa il visitatore a non parlare più in termini di “mal tenuto” per un giardino, ma un luogo naturalistico che riserva maggiori sorprese. La fluidità del parco è ottenuta proprio grazie a questo alternarsi di zone più governate ad aree di maggiore libertà compositiva e realizzativa in cui si è lasciato più spazio ai naturali sviluppi per sperimentarne e valorizzarne i risultati.

Il messaggio che lascia questo luogo è che il Castello principesco che lo sorveglia dall’alto come un guardiano sia immobile e statico. Il giardino che lo accoglie è mutevole, liquido, flessibile, a volte aspro, altre morbido e flessuoso, spinescente e incoerente. Sta a chi lo percorre e lo contempla dargli un nome o cercare quello spirito che lo conduce alla ricerca dei tanti significati. E’ un grande osservatorio di vita.

Note:
1. Paola Di Felice (a cura di) Sakuteki annotazione sulla composizione dei giardini, Le Lettere, Firenze, 2001.
2. Mi permetto di interpretare così lo spirito che muove questo progetto di giardino anche se non lo si può considerare a tutti gli effetti e in modo ortodosso giardino in movimento, il che in effetti presuppone uno studio e un apparato teorico ben consolidato dalla scuola e dalla teoria sul paesaggio di Gilles Clement – Le jardin en mouvement. De la Valléeau Champ via le parc André-Citroen et le jardin planetarie, 1991, Sens & Tonka. E’ però un giardino “assimilabile” è cioè animato dalla stessa coscienza di progetto, qui si è invitati a cogliere il principio che il giardiniere sia una guida attenta, ma oltre a giustapporre e curare eleganti accostamenti di sileni, escolzie, verbene, fragmites, consente variazioni sul tema quando lascia che la natura esprima le sue dinamiche, senza una previsione se non quella della casualità riproduttiva, quando lanciano semi e li abbandonano al vento e “della sua attitudine a fabbricare il paesaggio” (Clement G., 2011).