È a dir poco sorprendente considerare quanta parte del nostro linguaggio e della nostra percezione del mondo abbia a che fare con il cibo. A tutti sarà capitato almeno una volta di giudicare “insipida” una persona, “gustosa” la visione di un film o “salato” un conto da pagare; di trovarsi magari coinvolti in una situazione “piccante” o di lasciarsi sopraffare dalla malinconia “agrodolce” di una giornata autunnale; di “assaporare” la pienezza di un incontro a lungo atteso, di “divorare” avidamente le pagine di un libro, di “bere” ingenuamente una menzogna; di sentirsi “nauseati” di fronte alla violenza di un'immagine, “disgustati” dalla volgarità di un atteggiamento, “digiuni” d'affetto, “affamati” di libertà. Insomma, anche quando non le siamo seduti attorno, pare proprio che la tavola condizioni profondamente le nostre parole e i nostri pensieri.

In ogni quando e in ogni dove l'atto umano del nutrirsi non si è mai risolto nella mera (per quanto fondamentale!) risposta a una necessità fisica, perché in quell'atto il soddisfacimento del bisogno biologico si è da subito naturalmente caricato anche di una valenza sociale dalla portata assolutamente universale. Le infinite modalità di reperimento e di preparazione degli alimenti sono sempre state riconosciute quali pratiche fortemente connotate dal punto di vista culturale, veicoli privilegiati di conservazione e di trasmissione di valori e tradizioni, preziosissimi strumenti di costruzione e di consolidamento dell'identità dei singoli come dei gruppi.

Nell'immaginario mitologico dell'antica Grecia, la consapevolezza stessa di appartenere all'umanità veniva ricondotta proprio a una “questione di cibo”. In uno dei suoi “racconti di fondazione” più originali e suggestivi, Esiodo (Teogonia, vv. 535-616) scriveva di come nel corso dell'ultimo banchetto che aveva visto gli dei e i mortali prendere posto attorno a un'unica mensa, l'uccisione e la successiva ripartizione di un bue avessero di fatto decretato la definitiva separazione tra le due progenie: a quella divina erano state, infatti, riservate le ossa, non commestibili, destinate a durare e per questo simbolo di eternità, a quella terrestre, al contrario, le carni che richiedono di essere consumate in fretta, prima che si decompongano, cifra dell'inesorabile urgenza che vincola ciascun individuo all'inestinguibile obbligo di sfamarsi. E a quello stesso racconto l'antico poeta affidava anche le origini del perpetuarsi di tutti i sacrifici animali che di prassi sfociavano nella commensalità, che strutturavano l'intera vita della polis e scandivano il calendario delle festività, che erano motivo ricorrente nella pittura vascolare e tema ispiratore di tanta letteratura, che all'interno di un preciso progetto politico contribuivano a rinsaldare la coesione tra i partecipanti al rito cementando nello stesso tempo la percezione del loro essere parte di una specifica collettività cittadina.

Nella cornice di riferimento dell'epica, d'altro canto, era indiscutibilmente ritenuto degno del titolo di “anthropos” colui che consumava sitos, ossia “frumento”, e tutto ciò che da esso derivava, dunque farina e soprattutto pane. Favorita dall'acquisizione di una serie di specifiche competenze, che i popoli di una vastissima area medio-orientale e mediterranea avevano sviluppato a partire dalla cosiddetta “rivoluzione neolitica” del X millennio a.C. e dal progressivo diffondersi dell'agricoltura cerealicola, l'arte della panificazione aveva finito, infatti, col rappresentare un'autentica cesura nel corso della storia, facendosi prova della capacità degli uomini di agire sulla natura e di differenziarsi così dagli altri animali, divenendo persino strumento efficace di prestigio e di dominio.

Così è il sitos, il “pane” che l'immortale ninfa Calipso ordina venga caricato sulla zattera con cui Odisseo lascerà la sua isola, lei che, invece, vive di nettare e ambrosia (Odissea, v. 165); è come sitofagoi, “mangiatori di pane” che gli abitatori della terra vengono regolarmente identificati e distinti dalle popolazioni sconosciute e stravaganti che Odisseo e i suoi compagni incontrano nelle loro peregrinazioni, dai Lotofagi, dunque (Odissea, IX v. 89), dai Lestrigoni (Odissea, X v. 101), e soprattutto dal Ciclope, perfetta incarnazione della mostruosa alterità che caratterizza l'esistenza delle creature estranee a ogni consorzio civile (Odissea, IX vv. 190-191).

Cos'altro enuncia a chiare lettere la nostra meravigliosa lingua attraverso una parola come “compagno” che linguisticamente definisce appunto “colui con il quale si spartisce il pane”, “colui che partecipa di quel vitto che è insieme fonte primordiale di sostentamento e nutrimento per antonomasia”, “colui al quale non si teme di offrire ciò che è essenziale per la vita, in altre parole la vita stessa”? Cos'altro un termine come “companatico” che riduce ogni altro alimento a “sostanza di accompagnamento di quell'unica sorgente di vitalità, essenziale, irrinunciabile, indispensabile”? Cosa l'altisonante “convivio” che descrive il banchetto come una particolare declinazione del “convivere”, un “coabitare con altri ai quali si riconoscono le nostre identiche mancanze, le medesime esigenze”?

Sarà per questo che negare la condivisione delle vivande parla inequivocabilmente di rifiuto, di chiusura, di discriminazione, e che al contrario il solo fatto di mangiare insieme riesce immediatamente a comunicare inclusione, vicinanza, familiarità. Sarà per questo che mette una certa tristezza vedere qualcuno seduto da solo al proprio desco, quasi che in quella solitudine si percepisse istintivamente qualcosa di profondamente sbagliato, quasi che si sentisse forte il richiamo a un'ancestrale legge non scritta che impone al cibo di essere "con".

Sarà per questo che uno degli elementi chiave della sacra istituzione della philia - di quell'ospitalità posta sotto il segno di Zeus Xenios di cui il mondo antico era profondamente permeato - era proprio l'offerta obbligatoria e incondizionata di qualcosa con cui rifocillarsi a chiunque fosse giunto da fuori, straniero, privo di mezzi e di ogni diritto; perché prima ancora del racconto, della consegna del proprio nome e del proprio passato, era il sentirsi accolto nella dimensione quotidiana e feriale del pasto che poteva ridare dignità a chi si trovava lontano dalla sua terra e dalla sua casa, il ritrovare sapori e profumi che aveva il potere straordinario di restituirlo alla vita.