Non è semplice in poche righe parlare di sé, anche se oggi siamo particolarmente sollecitati a esporci con pensieri e immagini, a riflettere su di noi, a ricomporre il puzzle delle nostre esperienze per dare un senso compiuto al nostro percorso di vita. È forse per questa attitudine che non posso prescindere, nel raccontarmi, dal tenere insieme vita personale, professionale e sociale, dal dire quindi di me che sono donna, moglie e madre – madre adottiva per essere precisa e riconoscere il giusto spazio a un’esperienza che (a proposito di gioie e dolori, progetti e sogni…) mi ha cambiata nel profondo, aprendo il mio sguardo, o meglio rivoluzionando (!) il mio modo di guardare gli altri e il mondo, me stessa e i miei limiti –; e, ancora, figlia e sorella e insieme sociologa dell’economia, docente all’Università Cattolica, impegnata in attività civiche e solidali, che cerca di vivere la propria fede nella quotidianità…

È un intreccio inscindibile e ineludibile che mi spinge a sviluppare questa sensibilità nei tanti studenti che incontro in diversi corsi di laurea: Ergolabos, Politiche pubbliche, Servizio sociale, Sociologia. Aspirano a diventare esperti di management organizzativo, ricercatori e analisti del mercato del lavoro, esperti di politiche pubbliche, assistenti sociali e tanto altro ancora. Ma questo vorrei anzitutto che imparassero: dietro alle statistiche del lavoro ci sono persone vere (“vive”, direbbe uno dei miei maestri, Eugenio Zucchetti); nelle organizzazioni e nei servizi ci troviamo di fronte a persone ‘intere’ e come tali vanno sempre considerate. Perciò dobbiamo creare ambienti di lavoro e disegnare politiche che consentano a ciascuno di armonizzare le diverse sfere di realizzazione personale. Lavoro, famiglia, interessi personali non sono separati ma ‘mondi vitali’ egualmente importanti per il nostro pieno compimento.

La sua attività, i suoi, studi, le sue ricerche sono incentrati su Milano, ma lei risiede fuori: che effetto fa la città vista ‘dall'esterno’ e quale itinerario sceglierebbe per gustare la ‘milanesità’?

Jacques Prévert scriveva che i segreti di una città, i nomi veri della sua bellezza, possono conoscerli solo quelli che le cedono i passi senza misurarli. Sono d’accordo. Non ho un itinerario ideale; quello che conta è che preveda lunghe passeggiate, anche senza meta: un girovagare aperto alla scoperta. “Camminare la città, camminare Milano” è il modo migliore per immergersi in essa.

I miei itinerari preferiti per ragioni di opportunità sono quelli che partono dalla stazione Cadorna dove arrivo ogni mattina, vanno verso l’Università Cattolica in Largo Gemelli, passano da Sant’Ambrogio e poi oltre fino alle colonne di San Lorenzo, i Navigli… Oppure, lasciandosi alle spalle Ago, filo e nodo di piazzale Cadorna piegano verso piazza Castello, e poi Cordusio, Cairoli, via Dante e, infine, il Duomo. Impossibile passare senza sostare, levare lo sguardo alla Madonnina, entrare e misurarsi con lo sconfinato spazio della cattedrale. Ma infiniti altri ‘non-itinerari’ sono possibili, scendendo a una qualunque fermata della metro e – come sempre mi accade – sbaglio direzione: la pressoché assoluta mancanza di senso dell’orientamento mi ha fatto scoprire il sapore inaspettatamente famigliare della vita di quartiere di alcuni scorci metropolitani. Ho percorso in tanti anni molti chilometri, con scarpe comode e passo costante. In questo, forse, se valgono le parole in musica di Ivano Fossati, sono diventata proprio milanese e come “le ragazze di Milano” ho fatto mio “il passo di pianura”.

È una profonda conoscitrice della società meneghina, qual è, al di là degli stereotipi, il ritratto veritiero della donna milanese?

Innanzitutto, parlerei di donne al plurale. Il ritratto non può che essere multisfaccettato. Milano è una metropoli complessa e fortemente stratificata sotto il profilo economico-sociale. Per quanto ricca di opportunità lavorative, culturali, sociali, per quanto attrattiva e inclusiva, l’accesso alle risorse non è eguale per tutti e tutte. Le diverse dotazioni di capitale sociale, capitale economico e culturale, l’appartenenza di classe, le origini etniche, l’età e le fasi del ciclo di vita, l’avere dei figli piccoli o dei genitori anziani, l’essere sposati, conviventi o single, sono tutti fattori che si combinano con le risorse e i vincoli del contesto dando luogo a un caleidoscopio di situazioni (e disuguaglianze sociali), di profili e volti.

La retorica corrente dipinge le donne milanesi come sempre di corsa, impegnate nella carriera, donne acrobate tra famiglia e lavoro. Retorica che, con i necessari distinguo per la diversità delle situazioni appena dette, colgono qualcosa di vero, in una metropoli dai ritmi accelerati e capace di offrire buone opportunità occupazionali anche alle donne. Tuttavia, il tratto caratterizzante per me è un altro. Mi piace pensare che proprio l’Ago di piazzale Cadorna sia una metafora del compito che le donne milanesi sono chiamate ad assolvere quotidianamente: tessere, rilegare, cucire con cura e perizia. Tessere i rapporti famigliari; affettivi e sociali; cucire i buchi del welfare; mettere in connessione luoghi e contesti anche molto lontani dal punto di vista topografico ed esperienziale. Sarte su cui però spesso grava il compito di costruire da sole la rete di sicurezza che le ripara dal compiere acrobazie nel vuoto. Sarte a cui a volte restano in mano l’ago e la voglia di cucire, ma il filo è corto o spezzato.

Nella sua funzione di docente, è strettamente a contatto con i giovani: quali potenzialità e quali fragilità vede tra di loro?

Lo spaccato di giovani che vedo come docente all’università contrasta con l’immaginario prevalente, che li vuole perlopiù distaccati, disimpegnati, rinunciatari, poco propensi a progettare il proprio futuro, o al contrario – se va bene – con la valigia in mano per cercare futuro lontano da qui.

L’insistenza del dibattito pubblico sul fenomeno dei Neet (che non sottovaluto) rischia di appiattire la realtà su una rappresentazione negativa dei giovani, che attribuisce soprattutto a loro la responsabilità delle difficoltà lavorative e di ingresso nella vita adulta. La maggior parte dei giovani che incontro è desiderosa di trovare il proprio posto nel mondo, la propria strada, di essere valorizzati per le capacità e competenze che hanno e vogliono sviluppare.

È una grande potenzialità, questa, a cui si affiancano una certa una fragilità relazionale, un’insicurezza esistenziale che tende a riversarsi nei rapporti con gli altri, e un bisogno straordinario di ascolto. Questi giovani dotati e capaci, talvolta sfrontati, portano con sé una domanda di dialogo e condivisione. Lo vedo alle lezioni e nei momenti di ricevimento: emerge nitido il desiderio di instaurare un rapporto autentico, di confrontarsi non solo sulle materie di studio, la tesi o l’esame da affrontare, ma sulle scelte da compiere per il futuro, la lettura della realtà... È ciò che più mi appassiona del mio lavoro. Giovani privilegiati, si dirà. Giovani che hanno la possibilità di studiare. È così. L’universo giovanile è ben più articolato e variegato.

Tuttavia, le ricerche scientifiche che in questi ultimi anni hanno investigato più in profondità i percorsi dei giovani, le loro aspettative sullo studio, il lavoro, l’impegno sociale e civile, la vita in generale (penso per esempio al Rapporto dell’Istituto Toniolo), hanno sottolineato come sia la mancanza di fiducia a deprimerne più di tutto lo slancio: non tanto la loro fiducia in se stessi, semmai la nostra - delle generazioni più vecchie - in loro.

Luci e ombre del welfare ambrosiano.

In tanto sottolineerei ‘ambrosiano’ come tratto qualificante di un welfare inclusivo, solidale, fatto insieme, un welfare plurale, sussidiario, costruito con il contributo di attori diversi nel quale assieme alle istituzioni pubbliche, terzo settore, società civile, imprese, cittadini e famiglie sempre più riconoscono di avere una responsabilità da condividere per il benessere sociale. È un sistema che è cresciuto nella capacità di proteggere i cittadini, ma che ha dei punti di criticità inevitabili di fronte all’aumentare dei bisogni (basti pensare all’invecchiamento della popolazione) o al perdurare di forti diseguaglianze (a partire dall’eterogeneità delle condizioni occupazionali).

Per stare con lo sguardo sui giovani, vedo l’urgenza di sviluppare politiche che sostengano la transizione non solo al lavoro ma nel lavoro; sono solo alla vita adulta ma nella vita adulta. Con un’attenzione speciale, quindi, per gli adulti-giovani, perché alle soglie dei quarant’anni i progetti lavorativi, abitativi, di coppia e famigliari li hanno compiuti eccome, ma, ora che finalmente sono diventati realtà, hanno bisogno che siano sostenibili nel tempo!

È curatrice pluriennale del Rapporto sulla città di Milano, promosso dalla Fondazione Culturale Ambrosianeum. Il Rapporto si propone come punto fermo annuale sullo stato di salute della città. Come è nato questo progetto e che consuntivo ne fa?

Il Rapporto ha ormai quasi trent’anni. È nato nel 1990 con l’ambizione di offrire un contributo di conoscenza e analisi sulle trasformazioni di Milano, e di proposta per la città. In linea con lo spirito che diede i natali nell’immediato secondo dopoguerra all’Ambrosianeum stesso: uno spazio d’incontro, ricerca, impegno di cittadinanza attiva; uno spazio laico, capace di far dialogare società civile e valori religiosi, voluto (tra altri) da Giuseppe Lazzati e il cardinale Schuster. Una responsabilità per me restare fedele a questo mandato che ho raccolto proprio da Eugenio Zucchetti. 10 anni sono già passati e sento intatta la sua mancanza…

Penso che l’attualità di questo modo di concepire il Rapporto non sia affatto venuta meno, anzi. Per dirla con l’Arcivescovo Delpini nel recente Discorso alla Città, Autorizzati a pensare, siamo oggi più che mai tutti chiamati – in primis le università e le istituzioni culturali “a un esercizio pubblico dell’intelligenza”, a discutere con argomentazioni fondate le diverse posizioni, “a produrre e proporre un pensiero politico, sociale, economico, culturale che […] possa aiutare a leggere il presente e a immaginare il futuro” per il bene comune.

Il Rapporto 2018 ha come sottotitolo Agenda 2040: come sarà la Milano del futuro?

Il 2040 è dietro l’angolo. La rapidità di alcune trasformazioni portate dalle nuove tecnologie, ma certo non solo da queste, ci dice che nell’arco di una manciata di anni il nostro modo di lavorare, consumare, condividere spazi e interessi, produrre valore, entrare in relazione gli uni con gli altri sarà completamente rivoluzionato. Allora non serve la sfera di cristallo, ma un progetto, una visione di sviluppo per fare in modo che queste trasformazioni siano a vantaggio di tutti, non lascino indietro nessuno, non accrescano le disuguaglianze; siano al servizio di una società inclusiva, coesa, giusta, solidale, capace di assicurare a ciascuno la possibilità di realizzarsi come persone, persone ‘intere’.