La mia mente sembra diventata una specie di macchina per estrarre delle leggi generali da una vasta raccolta di fatti, ma non riesco a capire perché ciò debba aver causato l’atrofia di quella parte di cervello da cui dipende il gusto estetico. Credo che un uomo con una testa meglio organizzata della mia non avrebbe subito questa menomazione; e se vivessi un’altra volta mi assegnerei il compito di leggere un po’ di poesia e ascoltar musica almeno una volta alla settimana, con la speranza di mantenere attive con l’esercizio quelle parti del cervello che oggi si sono atrofizzate. La perdita di questi gusti è una perdita di felicità, forse dannosa all’intelletto e più ancora alla forza morale, in quanto indebolisce la parte emotiva della natura umana. Dall’autobiografia di Charles Darwin.

Nel 1859 Charles Darwin dà alle stampe L’origine della specie mediante la selezione naturale: gran parte dei naturalisti dell’epoca viene posta di fronte a una serie di approfondite riflessioni su tematiche alle quali si era fino ad allora dedicata con poca attenzione. La più famosa opera di Darwin rielabora, offrendone uno specifico, sistematico e rivoluzionario significato, quello che fino ad allora era stato solo un variegato fluire di pensieri rivolti alla spiegazione del perché e del come avvenissero i mutamenti osservati ed osservabili nel processo di trasformazione delle specie viventi.

Con le sue opere, Darwin offre alla ricerca scientifica dei due secoli successivi la possibilità di affrancarsi dal mito dominante della razionalità dell’uomo macchina a favore di quello del ragionamento pronto a cogliere nel suo grembo creativo la magia dell’inatteso, pur in una cornice evolutiva governata dalla legge della selezione naturale. Darwin descrive la regolarità evolutiva della selezione naturale e ne ipotizza la prevedibilità e l’imperfezione; la regolarità della selezione, l’incompletezza e l’impredicibilità dei pre-adattamenti alle mutazioni di funzione costituiscono fattori determinanti per la manifestazione della vita.

In questo continuo processo di cambiamento dell’organizzazione del vivente, la presenza dell’imperfezione e dell’incompletezza sono lì a dimostrarci il perché dell’imprevedibilità e dell’incertezza del reale e sono lì a raccontarci, in ogni momento e in ogni atto della nostra vita, che “siamo” in una storia imprevedibile, in una storia dalla dinamica incerta che è composta da relazioni umane che si svolgono nella natura e con la natura. Sono proprio l’incertezza, l’imperfezione e il disordine a rendere coerente il reale; il reale è un sistema integrato, intrecciato, intessuto di processi archetipici che evolve grazie all’apporto creativo della natura e di ognuno di noi.

La natura, nella sua ampia accezione di ambiente, è quella al cui interno operano le organizzazioni, è quella al cui interno si determinano i comportamenti delle persone che generano il contesto. La natura è il luogo naturale dell’agency, della possibilità che ha ogni persona di agire per trasformare il contesto secondo i desideri e i valori manifestati in virtù di un proprio e unico libero arbitrio. Nondimeno, gli atteggiamenti dominanti nelle economie moderne non dipendono tanto dalle competenze, dai talenti o dai saperi dei singoli quanto piuttosto dal terreno e dal clima culturale all’interno del quale si sviluppa il percorso evolutivo; e questo può spiegare come la selezione naturale è diventata nel secolo trascorso un’icona del pensiero riduzionista.

Spesso non sono sufficienti letture, pensieri e scambi di idee per modificare delle convinzioni limitanti perché ci sono credenze che sono radicate in noi, perché le sentiamo e le viviamo come immutabili, perché sono collegate ad interpretazioni che appartengono stabilmente alle nostre molteplici comunità di appartenenza, limitandoci in tal modo la possibilità di utilizzare i concetti in una più ampia pluralità di contingenze dialogiche e dell’agire.

In epoche recenti, molti studiosi e in varie aree di ricerca hanno applicato le teorie evoluzioniste di stampo darwiniano e neo darwiniano per “spiegare” l’evoluzione aziendale e i processi di creazione e innovazione, in particolar modo riferendosi alla dinamica delle popolazioni. Si sono alternate luci e ombre create dalla difficoltà nel definire univocamente “chi o cosa viene selezionato” e “secondo quali modi o tempi analogici”. Appare ragionevole la difficoltà nell’accostare i tempi dell’evoluzione a quelli della durata delle organizzazioni, così come appare quantomeno improbabile derivare una teoria dell’evoluzione organizzativa delle popolazioni aziendali sulla base di concetti di stampo eminentemente biologico.

Molti studi sul cambiamento organizzativo hanno fatto ricorso alla cosiddetta teoria del Darwinismo Universale, metafora di stampo biologico applicata alla fenomenologia sociale coniata da Richard Dawkins all’inizio degli anni ’80. Questo approccio si basa sull’idea che in tutti i domini delle attività umane è possibile interpretare i cambiamenti evolutivi facendo esclusivo ricorso al principio di selezione naturale e di propagazione in rete delle variazioni selezionate dall’ambiente. È evidente che, se si avvalora l’ipotesi del determinismo biologico per ciò che concerne i comportamenti delle persone ed il loro stato sociale, le possibilità di cambiarli si riducono unicamente ad un intervento di tipo neurologico, genetico o farmacologico, mentre le responsabilità personali, politiche e sociali restano completamente escluse. Ma la lettura degli scritti di Darwin non avvalora assolutamente questo approccio “ultra-ortodosso”.

Il presupposto della selezione naturale fondata sulla competizione, di evidente derivazione darwiniana, ha consentito a molti studiosi di focalizzare la propria attenzione prevalentemente se non unicamente sull’aspetto competitivo tra esseri viventi collegato al perseguimento della sopravvivenza, dimenticando di ricercare anche altre forme possibili, esistenti anch’esse in natura, fondate sulla cooperazione e sul miglioramento delle condizioni reciproche di vita. Tale presupposto ha consentito di estendere l’approccio competitivo “per natura” anche ai comportamenti umani e, ancor più, sociali, fino ad allargare metaforicamente l’ambiente in cui l’uomo primitivo poteva muoversi con difficoltà e con problemi di sopravvivenza alle nostre società civilizzate, trasformando anch’esse in una sorta di giungla in cui l’unica regola è la sopravvivenza del più forte, ovverosia del più adattato in un ambiente aggressivo e pericoloso. Resta da chiedersi se a intervenire nella scelta di un percorso di ricerca piuttosto che di altri ugualmente possibili, non intervengano dei fattori esclusivamente culturali, come le credenze cui ognuno, anche come scienziato, aderisce, consapevolmente o meno.

Eppure, è lo stesso Darwin che, nella prefazione alla seconda edizione de L’origine dell’uomo, replica a chi si limita a interpretare la sua teoria della selezione naturale come unicamente facente riferimento ai cambiamenti forgiati dall’ambiente secondo una visione meramente passiva dell’organismo rispetto a quanto imposto dalla selezione, richiamando l’attenzione sul fatto che anche le abitudini e gli usi possono determinare dei cambiamenti fisiologici e mentali, e a volte anche in una misura tale da divenire ereditabili.

“(Colgo) l’occasione per far notare che i miei critici suppongono spesso che io attribuisca tutti i cambiamenti della struttura corporea e delle capacità mentali esclusivamente alla selezione naturale di quelle variazioni che si usano chiamare spontanee, quando già nella prima edizione de L’origine delle specie ho affermato chiaramente che si deve attribuire un grande peso agli effetti ereditati dell’uso e del disuso, rispetto sia al corpo sia alla mente”.

Bisogna sforzarsi affinché gli studiosi superino un’interpretazione angusta, eccessivamente ortodossa e finalizzata, dei concetti fondativi dell’idea darwiniana per approdare a una visione del pensiero dell’uomo e scienziato Darwin, che tutt’un tempo era mago ed esploratore, furbo e generoso, impertinente e riflessivo, intuitivo e deduttivo. Con la sua curiosità verso i campi più svariati del sapere è per noi ricercatori ancor oggi un uomo d’esempio e mentore, continuando a rispecchiare la nostra interminabile sete di nuova conoscenza e di nuove possibilità per spiegare l’emergere delle organizzazioni umane senza alcun inutile e dannoso ingabbiamento culturale.