O Aquileia, donna di tristezza, sovrana di dolore, tu serbi le primizie della forza nei tumuli di zolle all’ombra dei cipressi pensierosi. Custodisci nell’erba i morti primi, una verginità di sangue sacro, e quasi un rifiorir di martirio che rinnovella in te la melodia. La Madre chiama: e in te comincia il canto. Nel profondo di te comincia il canto. L’inno comincia degli imperituri quando il divino calice s’inalza. Trema a tutti i viventi il cuore in petto. Il sacrificio arde tra l’Alpe e il mare.

La targa si legge sulla basilica di Aquileia, scolpita sul cimitero che ospita tra i primi morti dell’Italia nella Grande Guerra. A scriverla, un mesto Gabriele D’Annunzio (Salmi 2, novembre 1915) che, dopo aver visitato il camposanto, volle restare da solo per scrivere ciò che avrebbe ricordato per sempre quei prodi. Cancellata dagli austriaci all’indomani della rotta di Caporetto, venne riscritta immediatamente finita la guerra, nel novembre 1918, segno evidente del riscatto per coloro che avevano vissuto l’atto, e ancor più la catastrofe della disfatta, come un vergognoso momento italico.

Aquileia è un gioiello da visitare. Se tutta la cittadina, ricchissima di resti romani, merita un’attenta passeggiata, ci soffermiamo sulla Basilica all’ombra della quale riposa il cimitero monumento storico della Prima guerra mondiale.

Colonia latina fondata nel 181 a.C. su un insediamento celtico da cui deriva il nome (forse perché sulle rive del fiume Aquilis o Akilis), avanzatissima scolta romana, venne nel tempo rinforzata di uomini e famiglie. Già nel 148 a.C. arrivava ad Aquileia la Via Postumia che partiva da Genova, e altre furono le vie importanti che lambivano o si diramavano dalla città; la Basilica stessa era costeggiata da una via romana. Custodisce uno dei più importanti complessi pavimentali a mosaico esistenti al mondo, di 760 mq come neanche Roma ne aveva; l’Aula Nord e l’Aula Sud appartengono ad un complesso fatto costruire dal vescovo Teodoro (inizialmente ancora in modo “clandestino”, una parte dedicato alla chiesa, quasi mascherata, e l’altro a luogo di cultura e studio), diventato lecito dopo l’Editto di Milano emanato da Costantino nel 313 d.C.

L’aumentato numero di fedeli fece sì che le proporzioni del complesso diventassero sempre più vicine a quello che vediamo ora, frutto di vari rimaneggiamenti secolari, cinque, dopo la distruzione della prima chiesa a seguito dell’incendio durante l’invasione di Attila nel 452, ma che mantenne quasi intatto il meraviglioso pavimento del quarto secolo, portato alla luce tra il 1909 e il 1912. L’interno della Basilica misura 65x29 metri, è a croce latina, a tre navate divise da colonne romane di riporto, due transetti, presbiterio elevato, soffitto a carena di nave in stile gotico, immortale come la volle il patriarca Popone (1019-1042). Tra le scene, risaltano figure di fattura squisitamente elegante, spesso “in movimento” con offerte e scene di vita quotidiana; le tuniche dei personaggi allacciate ai fianchi, polsi ornati da braccialetti, pescatori tra molteplici pesci. La scena di Giona ingoiato da un mostro marino ricorda la morte e resurrezione di Cristo, mentre un’epigrafe del 319 d.C. ricorda: “Felice Teodoro, con l’aiuto di Dio Onnipotente e del gregge dal cielo affidatoti, hai fatto tutte queste cose beatamente e gloriosamente le hai dedicate”, testimonianza di una comunità cristiana già ampia e organizzata intorno al suo vescovo. Sono tanti e mozzafiato i tesori realizzati in tessere nella Basilica che offre sacro riparo e ombra al cimitero degli eroi della Prima guerra mondiale.