Così come non c’è un’unica via per approdare alla conoscenza, non c’è un’unica via per intendere Buzzinda, la città ideale autocostruita da Tomaso Buzzi nella campagna di Montegabbione in forma di allegoria escatologica dell’esistenza: sette scenografie di pietra e verzura che, in apparenza, evocano la migliore cultura rinascimentale italiana (dall’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna ai Sette libri dell’architettura di Sebastiano Serlio), ma che, in realtà, sono da sempre e rimangono tutt’ora inafferrabili. Tanto dal punto di vista teorico quanto dal punto di vista pratico. Perché Buzzinda, seppure ubicata immediatamente a valle della sinuosa strada statale che collega Perugia a Orvieto, è tutt’altro che facile da raggiungere, immersa com’è in una cornice naturalistica lussureggiante che, a tratti, diventa quasi dantesca. Tanto che solo dopo avere smarrito l’orientamento è possibile trovare il coraggio d’imboccare un’angusta strada sterrata, che all’inizio sembra sprofondare in una selva oscura, ma che poi, all’improvviso, risale verso l’azzurro del cielo e squaderna il più classico dei paesaggi italiani: un recinto murario intonacato e un cancello in ferro battuto da cui trapelano en abyme un nugolo di cipressi e di edicole sacre che comunicano un mix di serenità e d’inquietudine.

D’altra parte è proprio questo mix insolito che, nel 1957, ha conquistato Buzzi spingendolo ad accogliere l’invito, rivoltogli durante una vacanza ad Acapulco dal marchese Paolo Misciattelli (proprietario del castello di Montegiove), di acquistare la proprietà del complesso francescano della Scarzuola: una chiesa e un convento molto semplici dal punto di vista stilistico, eppure di grande impatto emozionale, perché eretti intorno alla metà del Duecento nel luogo miracoloso in cui, stando alla tradizione popolare, “il poverello” si è ritirato in preghiera sotto una capanna fatta con la “scarsa” (la pianta palustre che ha dato origine al toponimo) e ha fatto sgorgare dalla roccia una sorgente d’acqua fresca. Il vero miracolo però avviene nell’anima di Buzzi che, quando arriva per la prima volta alla Scarzuola dopo un viaggio estenuante, è un uomo di grande successo: luminare acclarato (ordinario di “Disegno dal vero” nel Politecnico di Milano), professionista affermato (favorito di famiglie come gli Agnelli, i Marzotto e i Pirelli) e intellettuale ammirato (vicino a protagonisti del “Novecento milanese” come Emilio Lancia, Giovanni Muzio e Gio Ponti). Ma è anche un uomo alla ricerca di se stesso, il cui idealismo massonico, già scosso dal contatto con lo spiritualismo buddista, verificatosi in occasione dei lavori di restauro dell’ambasciata italiana di Nuova Delhi, è messo definitivamente in crisi dal contatto con il misticismo francescano.

Forse proprio perché improbabile, il mix fra queste tre componenti (idealismo massonico, spiritualismo buddista e misticismo francescano) è detonante e allontana irreversibilmente Buzzi dalla nobiltà di censo degli altezzosi aristocratici frequentati nei salotti di Roma e Milano, avvicinandolo alla nobiltà di spirito degli umili contadini umbri, con i quali comincia a condividere le fatiche (ma anche le soddisfazioni) della vita agreste. Tanto che nel breve volgere di un paio d’anni, emulando l’esempio francescano, si dimette da tutte le cariche accademiche e, liquidate le critiche sprezzanti dell'establishment culturale dell’epoca (“Quando sono con voi sono vestito, e in cravatta; quando sono qui, alla Scarzuola, sono nudo, e questo non potete sopportarlo!”), si trasferisce in pianta stabile nel “buen retiro” della Scarzuola. Dove intraprende la costruzione della sua città ideale, che ribattezza “Buzzinda” in omaggio a Filarete, ma che concepisce in modo assolutamente autonomo. Di Buzzinda, infatti, non rimane un vero e proprio progetto, quantomeno non nell’accezione professionale corrente. Né, tantomeno, rimangono testimonianza delle istruzioni orali impartite agli artigiani locali nei venti anni di attività del cantiere.

Ma rimane un sogno e con esso, stando alla leggenda, rimangono “gli schizzi e i ghiribizzi” eseguiti a due mani dallo stesso Buzzi sui supporti più improbabili (fazzoletti, lenzuola, tovaglie, ecc.). A cominciare da quelli dedicati quasi ossessivamente all’occhio alato impresso da Matteo dei Pasti nel rovescio della medaglia bronzea di Leon Battista Alberti: emblema araldico di un esercizio compositivo che tradisce evidenti debiti non solo nei confronti degli slanci ideativi degli architetti più visionari (da Giovanni Battista Piranesi a Claude-Nicolas Ledoux, da Antoni Gaudì a Paolo Soleri) oltre che nei confronti delle licenziosità stilistiche delle opere più bizzarre (dal Palais idéal di Ferdinand Cheval ad Hauterives al Portmeirion Village di Sir Clough William-Ellis), ma anche nei confronti delle stravaganze figurative degli artisti più eccentrici (da Giuseppe Arcimboldo a Charles-Louis Clérisseau fino a René Magritte).

Forse, più che una città ideale, Buzzinda incarna una città onirica, visto che sembra modellata con la sabbia, se non addirittura allegorica, visto che è carica di simbologie esoteriche. Non a caso i nomi attribuiti ai diversi luoghi sono ancorpiù significativi delle forme costruite (la Spirale del Tempo, il Teatro delle Api, la Torre dei Venti, ecc.). Così come la volontà di Buzzi di non lasciare tracce del proprio passaggio terreno è ancorpiù significativa della stessa Buzzinda. Che forse non sarebbe dovuta sopravvivere al suo artefice e forse avrebbe dovuto anch’essa manifestare la propria caducità ritornando cenere ovvero decomponendosi in un cumulo di rovine pronte a essere nuovamente inghiottite nel paesaggio. Non è questo d’altra parte il senso più profondo del laconico auspicio di Buzzi datato 16 novembre 1967 e conservato nell’archivio privato della Scarzuola? “Dovrei ottenere il fascino del ‘Non-Finito’, che si apparenta a quello delle Rovine, che entrambi danno all’architettura quella quarta dimensione che è il Tempo”.

Foto: Montegabbione (Tr), Buzzinda (Tomaso Buzzi, 1956-1978).