“Terra, madre della natura,
che ogni giorno rigeneri ogni cosa;
arbitra del cielo e del mare.
Tu rinnovi la luce e metti in fuga la notte,
copri le ombre e governi l’immenso caos;
i venti e le piogge trattieni
e, quando ti piace, sovverti i mari,
adombri il sole e susciti procelle.
Con perpetua fede alimenti la vita
e quando l’anima si allontana, in te trova rifugio.
Tutto ciò che elargisci, a te infine ritorna”.

Madre Terra: la prima dea piena di grazia. Una dea dal ventre eternamente fertile, che crea per partenogenesi. Partorisce, nutre e accudisce, e la sua linfa diventa il liquido primordiale nel quale prende forma il cosmo. Ma, troppo possente per la fragile finitezza della comprensione umana, in un tempo lontano la primitiva dea tellurica consegnò la sua eredità alle figlie di una stirpe di giovani e luminose divinità. Fra queste Demetra, la Madre; Afrodite, l’Amante; Era, la Sposa. Illuminazioni, riflessi, frammenti ammiccanti all’antica unità. La natura vitale e generativa del femminino sa forgiare il piccolo e il grande, distribuendo l’atto creativo lungo una direttrice verticale: in alto dà forma alle cose celesti, in basso a quelle terrene e sensoriali. In questa tensione duale, domina sulle forze opposte: vita e morte, maschile e femminile, sonno e risveglio. La dea materna nell’atto di allattare crea il macrocosmo e il microcosmo.

In questo trittico di Octavia Monaco, una Madonna Nera e una Madonna del Latte si sono fuse in un’espressione alchemica suprema. Nigredo e Albedo, morte che precede la rinascita, nella ricerca della Pietra Filosofale, e un Latte di Vergine, prima espressione del mercurio estratto dalla materia. Quella materia che è Mater. Ancora una volta, questa artista esplora l’anima antica della femminilità, la sua capacità di riproporsi nella dimensione immaginativa, nel linguaggio silente ed evocativo del colore, del numero, del simbolo. La dea è una, è doppia, è trina.

Nel tempo immobile del mito, Era si assopì mentre allattava il piccolo Eracle, il futuro eroe che nel nucleo segreto del suo nome porta quello della sua nutrice: “gloria di Era”. Ma il neonato, che già nei primi giorni di vita mostrava quella veemenza che sempre sarebbe stata caratteristica della sua indole, succhiò così avidamente dal capezzolo da strappare alla dea un grido di dolore, che la destò. Lei allontanò con stizza il neonato da sé, ma un fiotto violento di latte spruzzò verso il cielo, e lì rimase, inciso nel tempo e nello spazio infiniti, eternamente visibile, a comporre quella che ancora oggi chiamiamo Via Lattea, o Galassia. Ogni gesto divino crea una parte di mondo: ma ecco che alcune gocce del liquido divino caddero al suolo, imbevendolo, e da queste per incanto germinò un fiore stupefacente, splendido, latteo e puro. Il primo giglio, la “rosa di Era”: un fiore innocente e nobile, sacro alla castità delle unioni matrimoniali.

Quando il tempo del mito incontrò la storia, anche Era tramandò le proprie eredità spirituali, e una nuova femminilità si appropriò dei suoi simboli. Una novella Madre Terra partorì vergine. Un “giglio fra i cardi”, la chiamarono: e lo spirito vegetale del giglio si offrì a lei, fiore donato dall’angelo annunciatore dell’imminente maternità. Il mito, che mai esaurisce la sua forza simbolica, trovò nuova dimora.

Si racconta che un giorno Bernardo di Chiaravalle, in raccoglimento estatico di fronte all’effigie della Madonna Nera della cripta di Saint Vorles a Chatillon-sur-Seine, chiese alla Vergine una prova della sua presenza. “Monstra te matrem!”, implorò: mostrami che sei madre! La statua, animata da una segreta linfa, si denudò il seno e lasciò cadere tre gocce di latte nella bocca di Bernardo. Bastò quel nettare per soddisfare la sete dello spirito: bastò quella liquida trinità per accendere in lui una devozione inesauribile per la Madre di Dio. Tre gocce soltanto, ma che conservano i segni di una trinità antica, lunare, tramandata dalle mille generazioni del sacro femminino. Il giglio si è fatto fede, e di nuovo una Vergine ha partorito l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. In quella cripta, l’anima antica di una dea mediterranea ha parlato all’uomo cristiano.

Perché una Madonna Nera, e non inondata di luce e d’oro? Nel mondo cristiano la Madonna Nera è spesso collocata in una cripta o in una grotta. Nel ventre della terra sta la madre, laddove l’uomo ai primordi ha collocato le primitive raffigurazioni della dea. Nostra Signora del Sottosuolo. Una Madonna Nera è una Magna Mater, ben più vetusta di quanto il tempo dell’era cristiana possa misurare: ha un grembo fatto di terra, che genera meraviglie naturali, materia e vita. Può allattare serpenti, se vuole. È Rea, è Cibele; è Maria e anche Eva, Afrodite celeste e Persefone ctonia. Lei è scura come la notte che partorisce l’alba, nera come la terra quando è più fertile. È Iside pagana che fa breccia nel cuore del femminino cristiano. Una Regina nuovamente incoronata, assisa su un trono ancestrale. Per onorarla nei giorni di festa, si rivesta la sua effigie di paramenti verdi e si accendano candele votive dello stesso colore. Perché viriditas è il compimento della sua opera e un riflesso smeraldino è guida per la trasformazione dell’iniziato.

“Nigra sum sed formosa”. Sono nera eppure bella.