Ho messo prima un piede, poi l’altro
E sono uscita dal libro

(Chiara Zocchi, Olga)

L'Opera di Chiara Zocchi sorvola la distinzione fra significato e significante, come pure elude ed elide sia la maschera-persona che il soggetto e l'individuo. Il soggetto non è più l'"assoggettato" ma compare come mormorìo sommesso che è la stessa mise en scene, lo stesso sguardo-gesto. L'individuo resta sconfessato in quanto ogni "messa a punto" può trovarsi ulteriormente divisa in innumerevoli altre distinzioni. Si genera così una nuova apofantica, ludicissima e tersa, difesa dall'epoché su ogni fenomeno come meccanismo, per la quale la falsità è la mera assenza di ciò che è posto. Pensiero visivo del tutto ideogrammatico, metafisica dell'istantaneità, che compie quell'"abbandono" che amava Carmelo Bene e quel "dettaglio illuminante" che sognava Ezra Pound.

Non importa se si tratta di un romanzo, come Olga, Tre Voli, oppure una canzone o una traduzione o di fotografie e pensieri sparsi, o di collaborazioni con altri artisti. Abbiamo di fronte una medesima Opera, che avanza senza rumore, come in uno stato sonnambolico, con la medesima perfetta coerenza ritmica dei sogni. Una vera Opera, che, come sempre accade, possiamo in realtà solo dire che appare vivente in “stato di grazia”.

Un pensiero obliante, di sorvolo, di striscio, discosto, di rassetto, di mendico, di-mentico, di-mantico. La videoscrittura di Chiara appare leggera increspatura dell’acqua della mente. Le cose vengono captate, lasciate sommessamente nell’inizio di una loro luce. Parole come immagini sussurrate. Immagini come brezza di parole. L’in-sistere è un posare sulla tela vuota, e che dolcemente persiste tale. Pittura metafisica del paesaggio, cinese. Rigore e leggerezza. Confucio, ma senza la sua saggezza sociologica. Una traccia che non desidera oltrepassarsi. Non desidera, ma appare. Velare, scivolare. Scrittura “di schiena”.

Le cose ammiccano, sorridono, alludono, di schiena. La schiena come il galleggiare del pensiero nella distesa liquida di un tempo; torcendosi un poco, appena per lasciar notare la schiena delle cose. Un velo di pudore contiene l’intimità dell’esporre, che mai esce da Aiòn, che mai esce dalla sua intimità aurorale. La schiena che Chiara presta per la copertina del romanzo di Ornela Vorpsi Vert venin può essere presa come immagine simbolica della sua Opera. Il pudore riguarda il volto, come il dorso dei libri celato dalla loro postura rivoltata verso le pagine, in una sua poetica fotografia, non la schiena, figura della sfuggevolezza dell’essenza, della scivolosità della vita, che non va compresa, cioè abbracciata, ma lasciata scorrere, risuonare.

Il sublime appare così quasi senza fatica recuperato. Scrivere e fotografare come segno di una danza, dove il sorriso e il silenzio nella forma in se stessa conclusa dimentica la fatica non detta. Metastasio ma senza trapasso. Lo stesso nitore, simile trasparenza spiazzante propria del poeta inventore della canzone, ma libera da una convenzione ritmica già data. Il “sublime” non in senso romantico, quale senso di vertigine e di abisso nel meccanismo della dialettica degli opposti, ma all’opposto quale sublimazione e sorvolo della dialettica e del conflitto stesso. Il sublime quale atarassia iniziatica, rarefazione del sorseggiare, nel centellinare. Un sublime che torna con una facile dolcezza, quasi impossibile, alla sua origine di sub-limes, nel senso di “canto, suono, che non esce dal limite”, ma lo schiude dal di dentro. Sub-stantiare. Soffermarsi nel proprio ascolto. Per questa via il poetico si rigenera dal noetico; dalla sua ragione e radice.

Sub-limare…